È innegabile che i nobili ideali di una società subiscano un’eclissi decisa dal progressivo imporsi di valori borghesi. Le grandi vocazioni cavalleresche o religiose perdono la loro attrattiva a misura che, nello spirito di una nazione, si fanno largo gli interessi più venali e mondani della borghesia. E poco importa che i vecchi valori restino depositati come fossili inerti nella fantasia di alcuni che, seduti sul comodo divano di un decoroso salotto, si commuovono leggendo di eroi e di condottieri impavidi, e sotto quell’impressione potente sentono un sacro fremito scorrere nelle vene intorpidite. L’estasi futile che si produce in loro mentre sognano di gesta pugnaci e brutali, come novelli don Chisciotte, non li smuove dal loro accogliente divano né li induce a rinunciare alle comodità di una vita borghese per impugnare le armi.
Bisogna chiarire che la borghesia non è una casta né un classe sociale, ma un modo d’essere. Poca differenza si potrebbe trovare tra il piccolo bottegaio, l’agiato professionista e il ricco banchiere. Tutti sono uniti da una medesima filosofia della vita, i cui solidi e pragmatici principi sono quelli del benessere materiale, del ricavo, dell’accumulo, della oculata amministrazione, della comodità e della sicurezza. Tutti appartengono a una stessa chiesa, e tutti si cibano di uno stesso cibo eucaristico, il denaro. È vero che su quest’ostia consacrata spalmano, come una salsa, le idee di libertà, di democrazia e altre favolette edificanti. Ma è un condimento superficiale, che serve solo come decorazione. Ogni borghese ha bisogno di qualche nobile ideale da indossare, dignitoso ed elegante come i suoi abiti, che gli tenga caldo d’inverno e fresco d’estate.
L’ideologia borghese penetra oggi in ogni strato della società, senza distinguere tra laici e religiosi, civili e militari. Il borghese è essenzialmente un uomo razionale e scientifico, il che significa un calcolatore. Da un lato c’è il dare, dall’altro c’è l’avere, non importa di qual generi di beni si tratti, e questo rende la vita semplice: l’importante è guadagnarci qualcosa. Nei tratti specifici i borghesi son tutti uguali, formano una massa compatta di pensiero e di sentimenti. La differenza è solo nelle loro dimensioni. Il modesto bottegaio e il ricco banchiere, nella sostanza, sono entrambi pulci, ma il secondo è una pulce con la mole di un dinosauro sanguinario. Se allo stomaco del primo è sufficiente qualche goccia di sangue per riempirsi, all’altro fiumi di sangue non bastano.
Il vero borghese non riconosce alcuna trascendenza, oltre quella del profitto. È privo quindi sia di misticismo che di grandi visioni. Non può erigere cattedrali, comporre poesie o fondare Stati. Può costruire cose enormi ma mai grandi. Del resto, essendo per natura conformista, non gli riesce di creare nulla di originale. Al massimo dei suoi sforzi, il borghese è eccentrico. Cerca di épater le bourgeois, cioè di scandalizzare sé stesso rimestando nel proprio vuoto. Frequenta concerti, teatri, mostre e musei, fingendo di comprenderne la bellezza. Esibisce un vivo interesse per la cultura, anche se ne è profondamente annoiato. Ama con trasporto i titoli di studio, gli ornamenti di qualifiche professionali, le apparenze. Segue sempre con scrupolo le mode, siano vestiti o idee. E, d’altro canto, trova molto toccanti le attività filantropiche e le iniziative umanitarie. Perché prerogativa della borghesia è avere un buon cuore e un animo sensibile.
Il borghese inoltre ama teneramente il proprio corpo, nel quale riconosce l’unica realtà possibile. Egli cerca ansiosamente tutto ciò che gli garantisca la salute, il piacere dei sensi, e vede in questo il vero scopo della vita. Il suo obiettivo non è di conservare mens sana in corpore sano. Si accontenta di ospitare il nulla in un corpo senza sintomi gravi. Ha una ottusa idolatria della scienza, che in genere non capisce, e soprattutto della medicina, perché vede in loro delle madri premurose, che lo possono salvare. Salvezza che, per lui, ha un significato puramente materiale. Non gli importa certo di salvare l’anima, alla quale non crede. Vuol solo vivere il più possibile, perché teme di passare da un vuoto a un vuoto ancor più radicale. Gli preme apparire giovane a dispetto dell’età, perché l’invecchiare e il morire sono scandali che non può accettare. Il limite, la fine, sono la contraddizione della sua filosofia, l’eresia della sua religione.
C’è in lui un’angoscia che lo spinge a munirsi di polizze e assicurazioni e a reclamare diritti che lo proteggano da ogni rovescio della sorte. E per la stessa ragione si nutre di farmaci per esorcizzare lo spettro delle malattie e della morte. È perciò comprensibile che il suo peggior nemico sia tutto ciò che espone a rischi la sua piccola o grande fortuna, che minacci quelle proprietà e quei volubili piaceri in cui si rispecchia il suo io più profondo. Egli ama profondamente l’ordine sociale e chi glielo garantisce. I turbamenti, i disordini, il vacillare delle istituzioni, tutto questo risveglia in lui un ancestrale terrore. Dimenticandosi che deve egli stesso la sua ascesa sociale a una rivoluzione, o forse al contrario per il fatto che oscuramente se ne ricorda, egli teme un’altra rivoluzione che lo privi dei privilegi ottenuti e che, prospettiva orribile, condanni a un rapido oblio quei principi che crede imperituri.
Il borghese, in fondo, teme che qualche Cristo pieno d’ira risorga veramente e venga di nuovo a scacciare i mercanti dal tempio. Cosa potrebbe opporre a tale forza cieca e demolitrice? Mostrare la sua coscienza, igienizzata, pulita con la candeggina di sentimenti tanto democratici e umani non lo salverebbe dalla irrazionalità del giudizio divino. Perciò ogni rispettabile borghese spera che Cristo resti disteso nel sepolcro, senza turbare gli onesti commerci della gente. Egli teme tanto la resurrezione di Dio quanto un’insurrezione di uomini. Il borghese non può sopportare il caos che cova negli animi di facinorosi, turbolenti, ribelli. A lui preme far osservare le regole e il rispetto delle leggi, giuste o sbagliate che siano. Egli sa bene che ogni sconvolgimento dello status quo mette a repentaglio la sua tranquillità materiale: la sua rendita, il suo stipendio, i suoi risparmi, la sua pensione, le sue comodità, le sue abitudini, insomma tutto quello che ha di sacro nella vita.
“Ogni sommossa fa chiudere le botteghe e deprimere i titoli, ferma la borsa, taglia il commercio, intralcia gli affari, precipita i fallimenti; non vi è più denaro, le fortune private sono incerte, il credito pubblico è scosso, sconcertata l’industria, esitanti i capitali e il lavoro a vil prezzo; paura dappertutto, contraccolpi in tutte le città. Da tutto questo nasce la confusione. È stato calcolato che il primo giorno di sommossa costa alla Francia venti milioni, il secondo quaranta e il terzo sessanta; una sommossa di tre giorni costa perciò centoventi milioni, ossia, tenendo solo calcolo del risultato finanziario, equivale a un disastro, naufragio o battaglia perduta…”
Così dice Victor Hugo, parlando della insurrezione repubblicana di Parigi del 1832. Il funerale di un vecchio bonapartista, il generale Lamarque, morto a causa dell’epidemia di colera, fu la scintilla che fece divampare l’incendio. È curioso come grandi sommovimenti sorgano imprevisti, simili a terremoti che non si annunciano. È il classico colpo d’ali della farfalla che provoca uragani.
I borghesi non devono temere oggi brutali colpi di stato, tentativi di rovesciare il potere. È una questione di età. Non sono né i vecchi né i bambini che fanno le rivoluzioni, ma gli spiriti giovani e audaci. Purtroppo il virus borghese provoca una deprimente perdita di giovinezza e di audacia in chi ne è infetto. Il suo germe rende canute e decrepite anche le anime più giovani, corrompe in loro ogni romantica verginità. E mentre condanna tali anime a una precoce senescenza, le tiene bambine, in una perenne condizione di passività, di credulità e dipendenza. Quelli che all’anagrafe risultano giovani sono in realtà vecchi bambini, dediti a trastulli tecnologici sempre più irreali, ignari ancora del mondo ma già schiavi delle abitudini e delle manie puerili di un vecchio. Non c’è quindi da temere che tale gioventù – già doma, rassegnata – abbia sussulti di fegato e di cuore e si butti in lotte temerarie. E se a qualcuno venisse in mente la pazza idea di ribellarsi, i mastini dell’ordine borghese, armati di tutto punto, saprebbero bene come reprimerne i furori e annichilirne le velleità sovversive.
Ma c’è un altro motivo che mette i borghesi al riparo da eventuali insurrezioni. È che dalla piccineria borghese, dalla sua fiacchezza spirituale, non possono nascere quei tiranni illustri, maestosi, che ispirano congiure agli spiriti liberi. Quelle figure orrende ma grandiose, che possono suscitare un’inconfessata ammirazione e pur nell’odio infiammare gli animi nobili. I despoti del mondo moderno non sono Cesari, Tamerlani o Napoleoni, ma invisibili burocrati, meschini uomini d’affari e speculatori, più simili a ratti di fogna o a mostruosi parassiti che a tigri feroci. Se il borghese medio li vedesse, mentre nell’ombra studiano il modo di allargare il loro impero, compilano partite doppie, impartiscono ordini alla servitù, pronti a immolare esseri umani pur di aumentare i profitti, non ne proverebbe neppure ribrezzo, tanto gli somigliano.
“…v’è una deformità di bassezza che corrisponde alla bruttezza del tiranno; la viltà degli schiavi è un prodotto diretto del despota; da quelle coscienze corrotte esala un miasma in cui si riflette il padrone; i poteri pubblici sono immondi, i cuori sono piccini; le coscienze sono piatte, le anime sono cimici”.
Un’insurrezione non può nascere da calcoli di bottega ma da una intima ribellione interiore, che non si cura dei pericoli e delle possibili perdite. Per il borghese, che venera religiosamente il guadagno e la sicurezza, ogni insurrezione rappresenta quindi la figura dell’Anticristo, il satanico par excellence. Per lui i ribelli sono individui irresponsabili, bestie che vanno riportate all’ovile col bastone. Abituato a misurare solo la quantità delle cose, il borghese non si pone la questione, troppo sottile per lui, della qualità morale di una rivolta e di quanto sia giusto combattere un governo iniquo.
Infine, il borghese è amante della natura. O meglio, ha nostalgia di quella natura che ha distrutto, edificando al suo posto orrende città. Ma odia la natura che gli presenta conti da pagare e che non accetta protesti. Vive nel timore che il clima, i cicli della vita, le leggi che regolano il cosmo, intralcino i suoi progetti e non si intonino ai suoi desideri. O ancor peggio, che insorgano contro di lui. Per questo venera ogni dispositivo tecnico-scientifico che accresca il suo potere sull’ambiente. È vero che è ancora lontano dal conoscere ed evitare tutte le trappole del nemico naturale. Ma il borghese si trae d’impaccio col mito del progresso, che col tempo risolverà ogni problema.
In sintesi, il borghese, povero o ricco, colto o ignorante, è lo spirito medio del nostro tempo. Non ha grandi ideali, non ha grandi missioni da compiere o grandi vocazioni da realizzare. Anche fosse padrone di mezzo mondo, tutto in lui rimane insignificante. In fondo, gli basta avere una buona digestione, ammucchiar fieno in cascina e continuare a prender quelle miracolose medicine che gli nascondono il suo reale, pessimo stato di salute. Ovviamente non vuole insurrezioni. Oltre a ciò non chiede altro, solo che la morte si dimentichi di lui. Non può certo contare su una resurrezione.
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