La classificazione dei generi musicali nella sua evoluzione incorre inevitabilmente in contraddizioni e sovrapposizioni.
Anche l’indicazione di “musica contemporanea” si riferisce comunemente a un genere classico con sperimentazioni, spesso atonali o dodecafoniche, mentre parlare semplicemente di musica popolare escluderebbe tutta una fascia di proposte coeve di gran successo di musica da ascolto molto raffinata.
Riporto per dovere di confronto di idee una delle classificazioni in uso (Vincenzo Rubini):
Classica (sinfonica e da camera) Da ballo Blues Country Elettronica Da Film Folk Funk Hip Hop Pop Rap Reggae Rithm and blues Rock (alternativo- elettronico – heavy metal – progressivo – psichedelico – punk) Musica sacra Musica tradizionale.
Non è che questo sforzo di sistematizzazione, uno dei tanti, ci aiuti molto direi, e poi, il Jazz dove lo mettiamo?
Su queste premesse si individua tuttavia proprio la novità musicale del secolo: cade la separazione fra musica leggera e classica, rimanendo al massimo il distinguo fra musica ballabile e da ascolto, confine facilmente e non contraddittoriamente tracciabile, grazie al tempo, ritmo: costante o mutevole.
Anche il fattore durata, che costituiva un confine nel secolo antecedente fra la canzone e l’opera, cade col concept album e con l’opera rock.
D’altra parte inquadrare nella musica “leggera” raffinati autori di pezzi musicali anche di contenuta durata risulterebbe difficile, tanto quanto ingabbiare il Jazz, che sembrerebbe viaggiare per una propria corsia, ma in realtà torna a più riprese a confluire e tingere le musiche da ascolto e da ballo, e a donare sonorità, ritmi e strumentazione alla musica di più ampia diffusione.
Il ventesimo secolo vede scaturire, nella sua frenesia ideativa e nel fermento incessante del costume di vita in evoluzione, generi musicali disparati, spesso effimeri, a volte chiamati con nomi scarsamente indicativi delle peculiarità, ma accomunati da una sola matrice: la confluenza di radici multiple, la vera colonna sonora della globalizzazione in corso, le cui componenti a volte prevalgono.
Leader del processo evolutivo è la cultura “occidentale”, in un gioco di rimbalzi che attraversa l’oceano Atlantico: l’input al cambiamento arriva dapprima in Inghilterra dagli Stati Uniti, ma a tratti il flusso si invertirà.
In ben precise fasce temporali la nuova cultura musicale ritrovò vecchie radici su cui innestarsi proprio in Italia, prima ritmiche, nel dopoguerra con l’iniezione di nuove ripetitività (rock and roll) sovrapposte, ma con un gusto popolare e artistico già pronto, su quelle quasi ossessive etniche (tarantella, pizzica… nel centro-sud ma anche sulle zone costiere del Veneto), e non estranee alla musica d’oltralpe, poi nella raffinata cultura melodica, dove darà i suoi frutti nel Prog.
Ma l’innesto primigenio, quello che romperà la tradizione, da che ibrido nasce?
Si trattò di una rottura con il passato proprio per l’eccezionalità, anzi direi inconiugabilità, degli incontri culturali.
Siamo in America del Nord, terra di pianure sconfinate, tali da favorire le rapide comunicazioni, anche prima della rivoluzione industriale.
Sterminate le genti indigene e soffocata la cultura autoctona, anche musicale, altri uomini arrivati da due diversi continenti iniziano a ritmare e cantare: Europei, specie comunità di espulsi in patria per intolleranza religiosa, le cui ultime vestigia ancora troviamo negli attuali Amish, e Africani, condotti in schiavitù come forza lavoro, ma la cui voce inizierà a risuonare proprio nel canto.
Solo molto più tardi si sentirà l’influsso sporadico della sonorità sud americana, quando già il nuovo stile avrà assunto connotati definiti.
La religione sarà il collante della contaminazione, il primo teatro le chiese, che in seguito dilagherà e si amplificherà in luoghi di incontro e festeggiamento laici vari, e locali dedicati.
I “bianchi” portano con sé il corredo di ballate e canti sacri dal nord Europa.
Si tratta di motivi stereotipi e ritmati, con strofe dominanti ripetute.
Il violino (il fiddle, non il violin del classico) sostituisce presto la cornamusa, troppo scomoda e fragile per le migrazioni dei pionieri.
Negli anni ‘30 Joel Walker introduce il banjo a cinque corde. La chitarra è l’immediato contrappunto, con tecnica via via modificata: l’accordatura si allenta, con effetti strascicati (dell’accordatura in Si è ancora erede Keith Richards). L’effetto hawaiano è ottenuto con il coltello o il collo di bottiglia che svisano sulle corde, mentre con l’elettrificazione nascerà poi il pedale, e il vibrato (B.B. King e la sua “Lucille”).
Ma alle origini troviamo comunque il dolore della terra aliena imposta ai discendenti e delle catene nella musica nera.
Agli schiavi fu sottratto qualsiasi strumento a percussione, come precauzione contro la chiamata alla rivolta. Restavano il battito delle mani e la voce stessa nel gioco di chiamate e risposte degli shout (canti di lavoro gridati). Il motivo dell’alternanza è nella ripetitività stessa del gesto lavorativo: un uomo prono nella raccolta non può dare fiato ai polmoni, deve approfittare dei momenti in postura eretta!
Da un campo all’altro la chiamata era ripetuta due volte, la risposta arrivava singola.
Da qui nascerà la tecnica “call and response” fra coro e solista in chiesa e poi il riff nella musica a seguire.
E questa musica si trasferirà presto dai campi nelle chiese, e lo strumento d’accompagnamento sarà in seguito fornito già pronto da un lascito della cultura bianca: tastiere di pianoforte e organo.
La sottolineatura della ritmicità sarà a lungo affidata al battito del palmo delle mani, o della suola sul pavimento. Solo nei paesi africani, quando la nuova musica sacra è reintrodotta, irrinunciabile diviene l’accompagnamento del tamburo a percussione manuale, il bongo, spesso attualmente integrato addirittura da vari strumenti elettrici amplificati, in vere band!
Questo “primo battito” è elemento chiave per la successiva evoluzione del “sapore musicale”: mentre infatti nelle antecedenti musiche “dotte” (sinfonica, da camera, lirica) lo strumento a percussione è affidato a un singolo esecutore per strumento, e si introduce in momenti di particolare carattere dello spartito, una più netta e continuativa evidenziazione del ritmo diviene irrinunciabile con la musica moderna.
L’uso della batteria, sintesi assemblata di più percussioni, fu tuttavia a lungo osteggiato anche nella musica laica: il primo, a memoria storica che la introdusse nel suo gruppo, fu Bob Wills con i suoi Texas Playboys (anni 30).
La strumentazione base, fiati esclusi, ha quindi trovato il suo assetto. Questi arriveranno, un decennio dopo dalla contaminazione Jazz.
E veniamo al secondo evento rivoluzionario nella svolta musicale: il prepotente ingresso dell’elettronica nella strumentazione. Sia con adattamento di strumenti esistenti, elettrificati e amplificati, sia con la creazione di nuove sorgenti sonore, l’elettronica dà la possibilità di creazione di un suono non solo di più alto volume, ma “pieno” anche solo con pochi elementi, contro le poderose orchestre del passato. La nota infatti può essere tenuta più a lungo, anche se generata dalla vibrazione effimera di una corda, pizzicata, sfregata, o percossa che sia.
Per strumenti che pongono in modalità vibrata l’aria stessa senza limiti di tempo (organo, armonica…), l’elettronica interviene prepotentemente nella modulazione dell’onda (timbrica del suono), ma è con i primi sintetizzatori, che con generatori di onde elettriche quadre, opportunamente modificate nella frequenza e filtrate, che si arriva alla creazione stessa del suono.
Fatte queste premesse, visto che testi di storia della musica rock – pop sono già presenti nei cataloghi di saggistica di tanti Editori, ci si può chiedere: perché parlarne ancora?
Ci sono due chiavi di lettura da approfondire: una individuale e una sociologica.
In tutti e due i casi si tratta di assegnare un ruolo a due “colonne sonore”: quella delle nostre vite e quella del mondo moderno nel suo processo di globalizzazione, e il confronto delle due letture porterà spesso a un punto di convergenza.
Nel primo caso, a volte magari nostalgico, trova ampio spazio l’evocazione del momento, di altri aspetti del costume, un abbigliamento, un mezzo di locomozione… Ma siamo ancora nello spazio di comunicazione interpersonale, sia pur generabilizzabile rispetto a più esperienze tipo.
In ambito planetario invece la domanda in cerca di una risposta può essere: “perché tale genere esplose proprio in quel contesto e in quel momento?”
Domanda irrilevante per chi crede nell’ingovernabilità delle mode, ma, considerato che i vari aspetti di un movimento culturale evolvono di pari passo secondo uno stesso vettore, influenzandosi reciprocamente (mettiamo musica, letteratura, abbigliamento…), è sotto questo più recondito aspetto che il fenomeno musicale, così importante nella vita stessa delle persone, credo vada approfondito.
Si attendono contributi.
Commenti
Ieri ero a una cena “ruspante”, sessantottina quasi, con amici coetanei, e il discorso è caduto, o io ce l’ho fatto cadere inconsapevolmente, su “quegli anni” musicali, e qualcuno mi ha fatto notare una mia grave omissione, o almeno tale mi pare adesso: il clima energetico di quegli anni, I motori, segni inebrianti di potenza che tingevano tutto, da cui il futurismo aveva già preso le mosse, e che nella “nostra” musica non si identificava, ma la contaminava sicuramente. Sarà pertanto interessante cogliere i risvolti musicali della nostra attuale, e di necessità, era dell’energia verde. Ma come qualcuno ha scritto, ammesso che “io speriamo che me la cavo”, anzi, almeno qualcuno di noi!
Sul mio libretto scolastico, alla fine delle Elementari, il maestro ha scritto: “E’ spesso distratto dal calcio e dalla musica beat”. Fu il rock il primo amore, come per molti bambinoni e ragazzini della mia generazione. “Rock” era più diretto, e indicava qualcosa di dirompente; “Pop” più generico e meno corrosivo. Poi, sono partite le manie del siglario, e la critica musicale incominciò con le caselle, i termini, che quella musica un po’ fracassona giovanile pigliava dappertutto, ma bisognava appiccicargli il terminario, musica che parlava, più che altro, di “insoddisfazione”.
Non riascolto i vecchi brani “della mia generazione”. La nostalgia è stupida. E non sopporto quelli che dicono: ho fatto il ’68. Che? Hai fatto un risotto? Un pasticcio?
I reduci sono seri quelli che hanno fatto la guerra, guerra vera e sul serio, e non ne parlano. Quelli che ne parlano, spesso, erano soldati in ufficio, e sessantottini con i soldi di famiglia. La musica, si sa, non ha confini e si identifica un genere solo per comodità, per fare un po’ d’ordine, e per pigrizia. Da ragazzino leggevo Riccardo Bertoncelli, un’autorita’ della critica musicale. Ho apprezzato, da incompetente quale sono, da semplice persona che ama la musica, un libro del 2007 di un critico musicale americano, Alex Ross “The rest is noise”, uscito in Italia da Bompiani nel 2009 con il titolo “Il resto è rumore”, dedicato alla musica del XX Secolo.
Sei un pozzo di conoscenza, ma se mi dici che è inutile ricordare la nostra colonna sonora, consentimi, sbagli. Dal “suono” di una società di api capisci il suo stadio benessere o malessere. Sarà per questo che in presenza di un cellulare le api emettono lo stesso segnale di attacco di un nemico? Capire di un mondo perché le cose sono andate in un certo modo, anche dal suo suono, come una moneta falsa la scopri dal tintinnio, serve.
Poi c’è l’aspetto individuale, nostalgico, e chi no? Che c’è di male a ricordare quel bacio e quella musica? Ho sempre suonato malissimo, e infatti sogno ancora di imbracciare lo strumento, super-amplificato, in uno spazio immenso. Ora il Padreterno sa cosa donarmi se troverà che sono stato ammesso. Per Franco Torrisi, che era un astro, preparerà altro.
Per ora cerco di capire, con l’aiuto di veri esperti, come tu capisco che sei anche in questo campo, perché abbiamo emesso certi suoni, in un certo tempo, e non altri.
Mia madre Iris, anima bella, aveva fatto sacrifici (anche economici) per farmi studiare il Piano da ragazzino. C’era stato anche un periodo incui venva addirittura da Milano (non solo per me, ma anche per altri rampolli di “buona famiglia” ) un bravissimo M° Pestalozza (i miei amici, brutte bestie, lo chiamavano “pistolazzo”!), andava matto per Bela Bartok, ma io subivo le lezioni e non studiavo!
Poi è arrivata la chitarra e li si che era una pacchia. Ho imparato da solo a suonarla, trasferivo gli accordi dal pianoforte cercando, a orecchio, la diteggiatura che funzionasse: do maggiore/ la minore/ fa maggiore/sol maggiore e….. random un re settima/la settima, e via a suonare tutto. Poi sono arrivati anche “i minori”, più romantici!
Il fatto era che la chitarra te la portavi dietro e in compagnia era un successone e …..cuccavi di brutto!
E arrivò “Rock aranund the clock” di Bill Haley & His Comets , col suo ridicolo ricciolo sulla fronte, era il ’54 e avevo 11 anni.
Sentii il 78 giri da mia cugina Carla che aveva due o tre anni più di me e, quindi, aveva anche il “giradischi”!
I suoni della chitarra elettrica erano nuovi, il ritmo coinvolgente ed il ballo, qualcosa di veramente nuovo, ma nuovo nuovo! Io nelle feste di famiglia, avevo solo esperienza di Valzer, Mazurche e, al limte Tango!
E fu un crescendo culminato con “Please Please me” dei quattro di Liverpool e con loro, per la musica “leggera” (così come con “Fontessa” del Modern Jazz Quartett, per la musica Jazz) si aprì una nuova pagina nella mia vita “musicale”, fino a quando non comparve sulla scena Enzo Jannaci con i suoi “Scarp del tennis”!
Ma quello è tutto un altro discorso!
Vedi che bello? E quel che intendo è che capire cosa abbiamo vissuto e perché accresce la consapevolezza
Adriano e Franco sono due ragazzi entusiasti. Avrebbe potuto suonare insieme con Mary and the Customers!! Mary ero io, cantante stonato, e suonavo una chitarra di legno senza corde; c’era un bassista, che faceva “dududu” con la bocca e teneva la mano destra girata al contrario come i veri bassisti, e un batterista che picchiava le mani su un fustino Dixan. Un trio che si esibì davanti a tutta la classe delle Elementari De Luigi (noi tre eravamo in quinta), davanti anche alla preside; ridevano tutti, di brutto. Il repertorio: Deborah, di Fausto Leali, e Il Contadino (che Crema è campagna) dei Corvi. Per essere degli imbecilli, per essere dei poveracci facevamo figura: ero il peggio di palanca dei tre, ma gli altri due non erano borghesini neppure loro: vivevano in condomini bruttotti, per niente signorili, e li vedevo girare a vuoto d’estate senza vacanze. Eravamo precoci. Peccato che non ci fosse un one-man-show a mandarci a Castrocaro. Al Festival Bar. Avremmo sbancato.
Visto? E senza musica questo passato cos’era? Come un amplesso senza un “ti amo”