Quello originale, l’imbuto che amplifica Cremascolta l’ha subito adottato come logo.
Ė un’immagine così efficace da restare insostituibile per l’Associazione, ma forse proprio dall’immagine può venire qualche idea di nuove possibilità d’uso del magic horn.
E così sono andato a vedere cosa ci si facesse prima di Cremascolta con questo “cono”, e perché magico. Sì, in poche parole ho ripercorso, e vi riassumo, la storia dello strumento acustico, la prima forma di amplificazione.
Pare che già nel teatro greco del V secolo a.C. si facesse uso di coni amplificatori di voce inglobati direttamente nelle maschere. Piuttosto brutti ipotizzo, tali da far apparire un dramma umano come una bega fra extraterrestri!
Tuttavia l’idea era connaturata all’uomo, alla sua stessa anatomia, come molte altre invenzioni ed usi. Infatti da dove verrebbe se non da un’estensione del grido con le mani a coppa (keirofonia) avanti alla bocca?
Invenzione così scontata che ne ritroviamo i fondamenti oltreoceano: i primi esploratori ci parlano di un capo indiano, Iscouakité, che, affrontando i nemici, li intimorisce prima con la voce amplificata da un imbuto di corteccia di betulla.
Ma gli occidentali le cose le fanno alla grande, e così, stesso periodo, Samuel Morland pubblica la sua esperienza di proiezione della voce a un miglio e mezzo di distanza con un cono di rame da venti piedi (mica tanto maneggevole!)
Ma l’antesignano vero si può considerare il coevo Athanasius Kircher, più correttamente forse precursore del citofono, perché ribalta il cono, per l’ascolto, e lo ingloba nel muro di casa, e così sente cosa si dice in strada, e forse risponde!
Ma niente di nuovo sotto il sole, perché già nel sito di Tiwanaku (Bolivia), troviamo coni scolpiti nelle mura di pietra diecimila anni fa.
Ma a questo punto in quanto a protoacustica magica, vogliamo dimenticare gli artifici delle sedi divinatorie greche e di casa nostra? L’orecchio di Dionisio di Siracusa non dovrebbe invece far testo: naturale, scavato dalla fonte, e il possibile uso spionistico solo un’interpretazione, in quanto al tempo il condotto sarebbe stato ancora colmo d’acqua.
Ancora ci guida l’anatomia umana: per sentir meglio non poniamo forse un palmo di mano a estensione del padiglione auricolare? E gli ampi padiglioni auricolari orientabili dei cani cos’altro sono? Anatomo-cornetti iper-acustici.
Poi nell’800 arriva Edison, e torna all’idea di recettore/amplificatore per far sentire i sordi, ma anche i non sordi a ben due miglia di distanza!
Tuttavia anche quest’artificio non lo possiamo definire un megafono: trasportabile ma non proprio portatile.
Infine il corno magico negli anni ’60 si amplifica… e finisce la magia? Forse, ma si moltiplicano le applicazioni!
Quest’estratto potrebbe sembrare solo una raccolta di curiosità, ma pensiamo invece alle applicazioni di impatto sociale che implica poter giocare con la voce, nella proiezione e nella ricezione. Non vi vengono in mente scene di vita, civile e militare, manifestazioni, allarmi, arte… quante cose si fanno con la voce!
Comunque Edison annunciò l’invenzione del fonografo il 21 novembre 1877.
Chi sa perché associamo sempre alla luce, lampadina e altro, l‘inventore statunitense dai 1.093 brevetti. Può voler dire che ci importa più della vista che dell’udito?
Ma io che sono un auditivo, cioè riconosco le persone solo quando parlano, è normale che sia attratto maggiormente dai suoni.
Ma cosa realizzò?
Il suo fonografo era costituito da un rullo di ottone di circa 10 cm di diametro e di lunghezza, sostenuto da un asse filettato. Sul cilindro era tracciato un solco a spirale di 2,5 mm. di larghezza e la superficie del cilindro era ricoperta da un foglio di stagnola. Durante la registrazione, il cilindro ruotava e la stagnola veniva sfiorata da una puntina collegata a una membrana vibrante. La puntina, seguendo le oscillazioni della membrana, incideva una traccia profonda nella stagnola.
Ma nel 1880 i laboratori Bell (impresa all’epoca quasi a gestione familiare) presentarono un prototipo di fonografo, chiamato grafofono, in cui al posto del foglio di stagnola c’era uno strato di cera.
Poi nel 1887 Emile Berliner ideò il grammofono munito di disco.
Nel 1889 fu adattata una tromba per l’ascolto alla membrana, e il gioco era fatto: si poteva ascoltare qualsiasi cosa con una buona diffusione ambientale.
Nel 1908 arrivò il “cilindro Amberol”, fatto con una mescola di celluloide e prodotti fenolici, che permetteva di ridurre il passo del solco e quindi aumentare la durata dell’incisione.
Nel 1912 ci fu un ulteriore miglioramento con una puntina di diamante che consentiva una qualità del suono superiore.
II gioco era fatto!
Negli anni ‘30 nasce il juke box, mercato conquistato da Wurlitzer, e Rock-Ola ed emergono nuove, sia pur grezze, prospettive per l’ascolto di musica in luogo pubblico.
Ma parliamo solo di musica? Sbagliato!
Sia su cilindri che su dischi, si registrarono anche discorsi storici!
Interviste a un capo indiano, a Puccini, e poi corsi di materie varie…
Il passo successivo, che permetterà di non dipendere più dall’acustica ambiente, è l’elettrificazione dell’”horn”. L’amplificatore, nel senso elettronico del termine, è nato nel 1909, quando Lee De Forest inventò il triodo, primo esempio di valvola. E vi ripose una tale fiducia che lo commercializzò rischiandoci personalmente.
A questo punto il suono diventa abbastanza “pieno”, cosa diversa da alto in decibel, da poter ridurre il numero dei musici. Il senso di pienezza non deriva infatti dal picco sonoro, ma dal mantenimento della nota.
E voi mi chiederete, ma noi che c’entriamo?
Tutti c’entriamo perché, oltre agli scopi musicali e didattico-documentativi la conservazione e diffusione del suono, della voce, del ritmo, della melodia… dalla memoria popolare degli aedi fino ai report giornalistici, storici, e via dicendo, ha fortemente improntato la cultura dell’uomo.
Ma mancava ancora qualcosa perché questo cono desse un presagio delle attuali potenzialità: l’evoluzione della conservazione del messaggio. Sì quella cosa che un tempo era affidata ai cantori di tutte le etnie, indistintamente, ora diviene “totalmente permeante”, cioè da un certo momento in poi resta incisa per sempre.
1898, Valdemar Poulsen, danese, lavorando ad alcuni accessori per il telegrafo, inventa il “Telegraphone” macchina che registra magnetizzando un sottile filo metallico, avvolto su bobine, che scorre davanti ad un elettromagnete.
E da allora i supporti e apparecchi si sono moltiplicati (musicassette, CD…), a volte gettati, altre divenuti oggetti di modernariato:
Leggenda vuole che la capacità di memoria del CD sia stata stabilita per ospitare l’intera esecuzione della Nona di Beethoven. Ma c’è già chi arriccia il naso: Beethoven meritava questa fine? Non entro nella diatriba sulla qualità di una registrazione da molti considerata pulita ma algida.
Ora, per saggiare il vostro interesse, vi anticipo che si potrà vedere in seguito questa vicenda antropologica come evolve.
A questo punto taccio, e vi lascio lavorare di fantasia.
Commenti
Amplifon?
Alla mia età (tu sei un giovanotto), sarebbe il caso di pensare anche a quel tipo di protesi. Sì, lo strumento era ribaltabile, con due usi amplificativi, ricettivo e trasmissivo, magari in modelli non proprio identici.
Ma uno stetoscopio medico antico, di quelli in legno, cos’altro è?
Certo, sapete dove vado a parare e perché ho sintetizzato due pst in un saggio, e la pianterò dopo il successivo “aggionamento” in attesa di veri esperti. C’è interesse, ma il mio è di tipo antropologico, non solo artistico. Il mio solito mantra: “perché quel gusto in quel momento epocale?” E cosa possiamo capire dalla colonna sonora della nostra epoca?
La scienza detta “social dreaming” (studio dei sogni collettivi ricorrenti), ci dice che avremmo potuto prevedere il nazismo, e altro, esaminandoli. Non mi sembra un nuovo approccio da trascurare, a parte il bello.
Tutto molto interessante, Adriano. Sia il corpo centrale del testo, sia le frasi di apertura e di chiusura.
Grazie per il testo principale, che riassume bene questa vicenda scientifica o, per lo meno, soprattutto scientifica.
E poi, in apertura: “Ė un’immagine così efficace da restare insostituibile per l’Associazione, ma forse proprio dall’immagine può venire qualche idea di nuove possibilità d’uso del magic horn”.
E in chiusura: “Ora, per saggiare il vostro interesse, vi anticipo che si potrà vedere in seguito questa vicenda antropologica come evolve. A questo punto taccio, e vi lascio lavorare di fantasia”.
Se ben ricordo, questo “magic horn” era già comparso sul blog.
Per cui, mi hai nuovamente incuriosito, anche per il “lavorare di fantasia” con cui concludi il tuo post.
Molto interessante pure il riferimento alla “vicenda antropologica”. Anche perché lo stesso concetto di antropologia, la sua evoluzione attuale, i suoi progressivi derivati semantici, il suo utilizzo corrente e i suoi confini in divenire possono costituire elementi di attenta riflessione.
Oi d’un “spaca oss”!
E adesso ci butti li con il tuo “magic horn” un “social dreaming” che è una provocazia davvero affascinante!
E ce n’è grande bisogno per staccarsi dai quotidiani, assillanti bollettini del contagio, dalla melma dei “sottosegretari”, dell’assilo del (sacrosanto neh!) “distanziamento mascherato”!
Dai, dai, si, proviamoci, mettiamoli alla frusta sti neuroni stanchi, che qui siamo un gruppetto di “ragazzi del …..” che da dire e da dare ce ne hanno davvero, magari alla faccia di ……Paracelso!
“Il Social Dreaming (SD) è una tecnica di lavoro di gruppo che valorizza “il contributo che i sogni possono offrire alla comprensione non del mondo interno dei sognatori, ma della realtà sociale ed istituzionale in cui vivono” (Neri, 2001).
Tale tecnica è stata ideata all’inizio degli anni ’80 da W. Gordon Lawrence presso il Tavistock Institute of Human Relations di Londra.
Lawrence, partendo dal presupposto che i sogni contengono informazioni fondamentali sulla situazione nella quale le persone sono nel momento in cui sognano, ipotizzò che fosse possibile considerare il sogno come una manifestazione del contesto in cui viviamo e un mezzo attraverso il quale esplorare il mondo sociale condiviso.
Il Social Dreaming, all’ interno di un gruppo, di un’organizzazione, consente di riconoscere le proprie risorse cognitive, immaginifiche, informative e creative, non come private e proprietarie, ma come risorsa sociale; l’attenzione dunque viene spostata dal sognatore al sogno, veicolo di conoscenza dell’ambiente in cui si muovono i sognatori”.
Dipende quindi molto da quanto “l’ambiente in cui si muovono i sognatori” sia effettivamente comune e condiviso. E già, qui, cominciano le difficoltà. Poi, la rappresentazione dei vari sogni in un successivo stato di veglia passa attraverso filtri e griglie ancor oggi molto discussi dalle neuroscienze. Inoltre, in termini strettamente scientifici e medici, manca del tutto il nesso eziologico, reale e dimostrabile, tra l’impulso onirico e la pulsione desiderante, lo stimolo ottativo, in una parola il “desiderio”, anche se il termine vale cento significati.
Comunque, proviamo pure a condividere nostri sogni. Magari ne saltano fuori delle belle.
E il “magic horn”? Fa parte del nostro eventuale “social dreaming” o “blogging dreaming”?
Con le corna è sempre meglio avere un rapporto improntato a cautela e vigilanza.