Ieri è comparsa sulle pagine del Fatto Quotidiano una lettera al Direttore a firma del prof. Giuseppe Conte avente per tema il deposito della sentenza di assoluzione emessa dalla Corte di assise di appello di Palermo sulla trattativa Stato-mafia.
Pur nel turbine frenetico delle campagna elettorale, il tema mi è sembrato di enorme interesse ed ho apprezzato il fatto che il Presidente Conte abbia ritenuto sottolinearlo con la lettera al Direttore Marco Travaglio, già a partire dal titolo della stessa, che riporto di seguito integralmente:
“La politica risponda: è giusto legittimare chi tratta con i boss?”
Caro direttore, in queste giornate dominate da balletti elettorali poco decorosi, la notizia del deposito della sentenza di assoluzione della Corte di assise di appello di Palermo sulla trattativa Stato-mafia rischia di passare inosservata.
Eppure merita tutta la nostra attenzione. Preciso subito che la rispetto perché la politica non può pretendere di sostituirsi e riscrivere le sentenze della magistratura. Ma dalle pieghe della motivazione emerge una considerazione che assume un forte rilievo politico sino a sfiorare una questione nevralgica del nostro sistema democratico. La trattativa di apparati dello Stato con i boss mafiosi c’è stata, osserva la Corte. E risulta ben documentata. Però non risulta che coloro che l’hanno condotta (gli ufficiali del Ros) abbiano ricevuto input politici da esponenti di governo o dalle alte cariche istituzionali.
A DIRLA IN BREVE, fu una “improvvida iniziativa” di alcuni ufficiali dei carabinieri, quindi di un pezzo di apparato “esecutivo” dello Stato, iniziativa che però non configura gli estremi di un reato. Il giudizio di legittimità di questa “trattativa ”riposa nel fatto che fu ispirata dalla “salvaguardia della incolumità della collettività nazionale” e dalla “tutela di un interesse generale, e fondamentale, dello Stato”. Se questo è il passaggio decisivo
della sentenza – la “ratio decidendi” come direbbero i giuristi – se ne ricavano implicazioni davvero opinabili. D’ora in poi,
se alcuni ufficiali o funzionari di apparati dello Stato, ispirati dall ’obiettivo pur lodevole di evitare nuove attività criminali
particolarmente efferate, dovessero intavolare negoziati con esponenti della criminalità organizzata, distinguendo boss da perseguire e boss da tutelare, sarebbero pienamente giustificati e non punibili.
Non importa se agiscono di loro propria iniziativa. Non importa se questo loro negoziato taglia fuori tutti gli altri apparati e mette in pericolo altri ignari servitori dello Stato (magistrati, forze di polizia, intelligence) impegnati a tempo pieno in una lotta senza quartiere contro la mafia.
Io sono del parere che la mafia vada combattuta senza tregua e a ogni livello istituzionale. Sono del parere che vada non solo combattuta con efficaci strumenti repressivi, ma anche contrastata con ampiezza di strumenti preventivi: culturali, sociali,
economici.
Ma assecondiamo per un attimo il ragionamento che sembra sotteso alla sentenza di Palermo.
Siamo sicuri che, nel caso in cui uno Stato decida di avviare una trattativa con gruppi criminali, questa iniziativa possa essere decisa e gestita in autonomia da singoli pezzi di apparati dello Stato, senza neppure che ci sia (questa è la conclusione della Corte di assise di appello di Palermo) una indicazione politica da parte di esponenti di governo che se ne assumano la responsabilità politica di fronte ai cittadini?
E, soprattutto, siamo sicuri che sia legittimo che singoli apparati agiscano di loro iniziativa senza alcun coordinamento con le altre strutture interne dello Stato, anzi mettendo a repentaglio la vita di altri servitori dello Stato tenuti all’oscuro?
C ON S ID E RI A MO quindi pienamente legittima la coesistenza tra il comportamento di ufficiali dello Stato che con la mafia negoziano in proprio (per lodevoli finalità, s’intende) e la integerrima condotta di magistrati, come Falcone e Borsellino, che con la mafia non sono venuti a patti e per questo ci hanno rimesso la vita? Come si concilia la pretesa che rivolgiamo a imprenditori e negozianti di assumere un atteggiamento di massimo rigore nei confronti della mafia, senza nessuna concessione al pizzo e alle richieste estorsive, se poi lasciamo liberi singoli ufficiali e funzionari dello Stato di venire
a patti con i boss? Una classe politica non distratta da giochi di potere e balletti di poltrone dovrebbe rispondere a queste domande, che sono cruciali per la concezione che abbiamo dello Stato, per lottare efficacemente contro la mafia, per garantire un’alta qualità della nostra convivenza democratica.
GIUSEPPE CONTE
Commenti
Un dilemma delle due giustizie di antigonica memoria: istuzionale umana o innata nelle cose, divina? Se aggirando la legge salvo una persona, se uccidendo fermo una nefasta sequenza di eventi, cosa è “giusto”? Come ricoprire cariche apicali pretendendo di non sporcarsi le mani? Allora tutto sta nel livello di maturità civile, e per fortuna non siamo nelle condizioni che obbigarono uomini apicali nel loro stato a sopprimere gli affetti più cari- Ed è storia.
Il fine giustifica i mezzi? Mentalità di destra, non per niente nel programma elettorale della Meloni c’è la tortura. Regeni è stato orrendamente torturato fino alla morte. Secondo l’Egitto un fine, e questo fine é il mantenimento di un regime. Culture, geografie, politiche ancestrali di fiammante nostalgia magari in agguato anche da noi? Il famoso detto: “Suo principio cardine fu che chi detiene il potere, nella forma di repubblica o di principato, deve ricorrere a tutti i mezzi per garantire il benessere e l’integrità dello Stato. Concetto che è stato ridotto alla celebre massima: “Il fine giustifica i mezzi” (formula mai pronunciata da Machiavelli).” Qualche anno fa ne abbiamo parlato molto, credo in commenti ad un mio post, mi pare.
Mi risulta davvero difficile discettare sul tema che, partito dal post assai concreto (lettera del Presidente Conte, susseguente alla sentenza di assoluzione emessa dalla Corte di Assise di Palermo) e’ transitato al tema generale assai del “fine che giustifica i nezzi”, senza reinquadrare il tutto nella realtà fattuale siciliana, dalla nomina del Prefetto speciale antimafia Dallachiesa (dotato appunto di poteri speciali) eliminato, tolto criminalmente di mezzo, assieme alla moglie e alla scorta (pochi mesi dopo il suo insediamento), alle due stragi con le quali furono analogamente tolti di mezzo (via ecclatante strage) i Giudici Falcone e Borsellino.
Il solo parlare di “trattativa” tra lo Stato, nelle sue ufficiali articolazioni politico/amministrative e la criminalità organizzata mafiosa, è non senso rispetto alle basilari regole del vivere civile in una Repubblica Costituzionale quale la nostra!
Ebbene noi siamo convissuti in questo “non senso” con due sistemi (quello dello Stato democratico e quello della mafia) che si sono fronteggiati, contrapposti, fino alla situazione attuale nella quale tutto lascia dedurre che un “sistema” si sia “assimilato” nell’altro a seguito di una “trattativa” la cui ….opacità è stata mantenuta a garanzia di efficacia.
Sai Francesco, abbiamo visto come Conte abbia offerto l’assist alle destre che segneranno a breve un gol mica da ridere. E qui forse il fine e i mezzi c’entrano eccome, anche se dare un significato ai secondi diventa di difficile interpretazione.. Rispetto al primo mi sembrerebbe legittimo chiedersi il perché. Ragioni sacrosante o il solito personalismo del bambino che pesta i piedi? Rispetto ai mezzi quelli lo abbiamo visto tutti. Ora, senza indagare o analizzare troppo, magari qualunquizzando, non sembra anche a te che la mafia perseveri dove il bacino di utenza della destra raccoglie più consensi? Ora, facendo vincere le destre, non si offre ancora la sponda ad un malcostume che non si riesce a sradicare? E credi forse che la letterina di Conte serva a smuovere le coscienze di chi dall’intreccio tra mafia e politica ha tutto da guadagnare? Se il fine di Conte era questo, con quali mezzi affronterebbe il tema? Secondo me certamente non portandoci ad elezioni e facendo vincere le destre. Concludo: Conte, sbagliano il fine, che é inevitabile, ancor di più ha cannato i mezzi. Si chiarisca le idee quel quasista di Conte.
“Quasista”?!? Nelogismo da quasi o correttore selvaggio? Mi è nuovo!
Cmq la tua analisi mi offre un punto di vista totalmente diverso dal mio.
Io nutro grosse aspettative nell’uomo Conte e mi auguro nel profondo di nn sbagliare.
Per mia natura ho un approccio da ….. bicchire mezzo pieno e, nella palude della classe politica così come si è evidenziata dal trionfo dei vaffa prima, all’astensionismo poi, fino alla sceneggiata dell’elezione del Presidente della Repubblica, ripongo nel lavoro di ristrutturazione da movimento a partito che il Presidente Conte si è caricato sulle spalle le residue speranze che la nostra democrazia parlamentare possa riprendersi dignità e credibilità presso i cittadini ( sempre ammesso che loro/noi ci mettiamo, come dovuto, del nostro!)..
E vediamo come si arriverà a queste elezioni!
Quasista é proprio un neologismo, neppure inventato da me. E diciamo ricorrente, oltre che azzeccato. Anch’io ti auguro di non sbagliarti, ma la prova non l’avremo prima del 25 settembre, anche se per me c’è già.
Flat tax, pensioni, promesse mirabolanti, tutti gli economisti europei allarmantissimi per i nostri futuri conti pubblici. Tutti comunisti? Grazie Conte.
Questa poi Ivano!?!
Grazie de che?
Per i 9 punti?
Per nn aver voluto votare l’inceneritore a Roma, inserito proditoriamente, e mantenuto provocatoriamente nel decreto aiuti dove non c’azzeccava per niente?
Draghi cercava solo un pretesto per attuare la sua exit strategy per ……fare come Schettino!
Ma anche tu guardi il dito invece che la luna?!?
Ma dai!
Dai Francesco, anche l’extrema ratio va bene nell’emergenza. Di fatto Roma e il Lazio il problema rifiuti non l’hanno mai risolto. I rifiuti li fanno smaltire ad altri. Troppo comodo. Copio un parere confronto con i dati di Milano: “L’obiezione solitamente mossa a chi è contrario all’inceneritore è che Roma è troppo grande e troppo popolata per gestire i suoi rifiuti puntando solo sulla raccolta differenziata. «Perché allora nella città metropolitana di Milano, che ha gli stessi abitanti di Roma e la sua stessa estensione per chilometri quadrati, la differenziata si attesta oltre il 65%? – si chiede Roberto Scacchi – La verità è che a Roma la differenziata è ferma al 43-45% da sette anni. La prima cosa che il Comune dovrebbe mettere all’ordine del giorno è l’aumento di questa percentuale per abbattere le tonnellate di rifiuti da mandare in discarica. Ma a Roma c’è sempre stata opposizione al porta a porta, semplicemente perché implica molto più lavoro rispetto alla raccolta stradale dai cassonetti. Dal 33% si è tornati indietro al 30% perché la precedente giunta ha dismesso il sistema in alcuni quartieri della città, dov’era incardinato da decenni». Vallo a dire alla Raggi.
So bene, Ivano che Roma Comune è un covo di vipere , a suo tempo ci e’ naufragato addirittura anche Alemanno, che pure ….fiammeggiava!
Io cmq non sono un tifoso della Raggi poranima , è gia’ tanto che sia ….sopravvissuta ( e cmq non è tra i personaggi 5* di qualità per i quali si sta spendendo il Pres Conte!) e ritengo davvero scandaloso che nella capitale non si riesca a organizzare una raccolta differenziata, decente (così come, del resto nemmeno un trasporto pubblico urbano, decente ed una manutenzione della viabilita urbana, decente!).
Forse funzava solo ai tempi del SPQR, ma non era tanto ….democratico, il contesto!!!
E alle dichiarazioni (mi riferisco alla lettere del Presidente Conte, oggetto di questo post che sto commentando) sono seguiti fatti concreti, molto concreti: l’ex Procuratore Scarpinato sarà presente a Palermo, come candidato nelle file del Movimento 5*, alle prossime elezioni politiche.
Per capire l’importanza politica, sociale di tale candidatura e le conseguenze che la sua elezione (che cordialmente mi auguro!) in Parlamento potrà portare, riporto di seguito il testo integrale dell’intervista fattagli da Giuseppe Pipitone, così come pubblicata oggi dal Fatto Quotidiano:
TITOLO: Roberto Scarpinato: “Mi candido contro la politica dei clan”
L’ex procuratore – In corsa a Palermo. Non solo lotta alla mafia: il magistrato voluto dai Cinque Stelle spiega il suo impegno contro gli interessi di pochi e in difesa della Costituzione
Di Giuseppe Pipitone
19 Agosto 2022
Dottore Scarpinato, perché ha scelto di impegnarsi in politica?
Per due motivi. Il primo è che nel gennaio scorso ho cessato di essere un magistrato a seguito del mio pensionamento e ho quindi riacquistato un diritto prima incompatibile con il mio ruolo. Il secondo è la consapevolezza che se tu non ti occupi della politica, la politica si occupa comunque di te.
Che intende?
Gli antichi Greci, inventori della democrazia, ritenevano un dovere primario di ogni cittadino occuparsi della politica, cioè della vita della Polis, perché avevano capito che non esistono vie di salvezza individuali. Se la Polis si ammala a causa della degenerazione oligarchica e autoritaria del potere, si ammalano anche le vite dei singoli.
Lei ritiene che oggi si stia rischiando una degenerazione del potere?
Siamo in una fase regressiva dello stato democratico che alcuni politologi definiscono come il ritorno della clanizzazione della politica. Il moderno stato costituzionale nasce dal superamento dei clan, cioè dei gruppi di potere locali che prima si contendevano a proprio esclusivo vantaggio le risorse dei territori. Oggi, venuti meno i grandi progetti collettivi, la contesa politica reale rischia di regredire a competizione tra clan sociali, gruppi di interesse, ristrette oligarchie interessate solo a spartirsi le risorse collettive.
Quali sono i motivi di questa regressione della politica?
Una pluralità concorrente di cause, alcune endogene legate cioè alla storia nazionale, altre esogene dovute a fattori di carattere internazionale. Quanto alle cause nazionali, basti ricordare che lo Stato italiano è sorto con molto ritardo rispetto ad altri stati europei, e, anche per questo motivo, ha sempre sofferto una fragilità strutturale. Ancora più fragile è la nostra democrazia, sempre a rischio di involuzione autoritaria. La nascita della prima Repubblica è stata tenuta a battesimo da una strage politico mafiosa, quella di Portella della Ginestra che ha segnato l’incipit della strategia della tensione, e si è conclusa nel sangue con le stragi politico mafiose del ’92 e ’93 che hanno rischiato di mettere in ginocchio lo Stato. Tra la prima strage e le ultime si è susseguita una sequenza pressoché ininterrotta di stragi con finalità politiche che non ha uguali in nessun Paese europeo, nonché una lunga serie di omicidi politici talora dissimulati sotto altre causali di copertura e come suicidi o incidenti.
Quali riflessi hanno avuto questi fatti nell’evoluzione politica italiana?
Questi e altri eventi dimostrano che nel nostro paese la lotta politica si è svolta su un duplice livello. Al livello palese e legalitario delle competizioni elettorali, della dialettica parlamentare e istituzionale, delle manifestazioni di piazza, si è intrecciato il livello occulto di una lotta politica condotta dietro le quinte dalle componenti più retrive delle classi dirigenti da sempre tenacemente ostili alla Costituzione e che non hanno esitato a mettere in campo la violenza stragista, nonché l’alleanza con le mafie ed altri specialisti della violenza, per condizionare a proprio vantaggio il gioco politico e per sabotare l’evoluzione democratica del paese.
È in questo contesto che si colloca la sistemica attività di depistaggio delle indagini sulle stragi?
Quasi tutte le indagini sulle stragi sono state caratterizzate da depistaggi posti in essere da apparati statali, con varie coperture politiche, finalizzati a coprire gli esecutori e impedire di individuare i mandanti e complici eccellenti. Il fatto che i depistaggi siano stati ripetuti anche per le indagini del ‘92 e ‘93 e abbiano continuato a susseguirsi sino a epoca recente, dimostra come questa modalità occulta di lotta politica non sia archiviabile come storia del passato e come il presente sia figlio del passato.
In che modo tutto questo influenza il dibattito sul fronte delle riforme della giustizia?
Alla luce di tale peculiarità della storia nazionale segnata da una criminalità di settori significativi delle classi dirigenti che nel tempo si è manifestata nello stragismo, nei patti occulti con le mafie e nella corruzione sistemica, è evidente perché in Italia la questione giustizia sia inestricabilmente intrecciata alla questione dello Stato e della democrazia, e non sia riducibile – come in altri paesi europei di democrazia avanzata – a mera questione di tecnicalità e di risorse. E si spiega anche perché in Italia la questione giustizia dalla seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso sia sempre rimasta al centro del dibattito politico: caso unico al mondo. I miei colleghi stranieri non riescono a comprendere come e perché in Italia si arrivi a rischiare una crisi di governo per temi come la riforma della prescrizione che altrove interessano solo specialisti di settore e sono relegati ad argomenti secondari. Ho dovuto fare loro un breve riassunto della storia politica nazionale per spiegare quale era la vera posta politica in gioco dietro l’apparente tecnicismo della questione.
Perché la questione giustizia è diventata centrale a partire dalla seconda metà degli anni Settanta?
Dalla fondazione dello Stato Unitario sino agli anni Settanta non vi sono stati contrasti tra la politica e la magistratura. Tale armonia protrattasi per più di un secolo, era dovuta nel periodo della monarchia liberale e del fascismo a un ordinamento che sottoponeva il pubblico ministero alla direzione della politica, e al fatto che nei primi venti anni successivi alla nascita della Repubblica, la nuova Costituzione che garantiva l’indipendenza e l’autonomia della magistratura, era rimasta in larga misura lettera morta. I vertici degli uffici giudiziari si erano formati culturalmente nel periodo precostituzionale e, tranne poche eccezioni, mantenevano un atteggiamento di sostanziale sottomissione alle direttive politiche. A partire dalla seconda metà degli anni Settanta, a causa della complessiva maturazione democratica del Paese e del ricambio generazionale nella magistratura, la nuova Costituzione diventa diritto vivente. Cessa la lunga stagione dell’impunità dei potenti, iniziano i primi processi che coinvolgono personaggi ai vertici della piramide sociale e ha inizio la narrazione di Palazzo di una guerra della magistratura contro la politica. La storia della ostilità del Palazzo nei confronti di magistrati come Giovanni Falcone, oggetto di campagne di delegittimazione, emarginato e ridotto all’impotenza dopo che aveva osato alzare il livello delle indagini oltre il livello della mafia militare, è emblematica e riassuntiva di mille altre storie similari.
Quale è la situazione attuale?
È in corso un inquietante processo di restaurazione del passato di cui si colgono tanti segnali. Nella patria del Gattopardo, il passato rilegittimato e giustificato, un passato di convivenza tra Stato e mafia, un passato di occulte transazioni tra Stato legalitario e Stato occulto, un passato di rimozioni e di amnistia permanente tramite amnesia collettiva, sta tornando ad essere la cifra del presente e del futuro.
Quali sono i segnali che ha colto?
Ritornano in campo da protagonisti della politica personaggi condannati per collusione con la mafia e per altri gravi reati. Si celebra nelle aule del Senato la memoria di vertici dei Servizi Segreti, come il generale Gianadelio Maletti, condannato per avere depistato le indagini sulla strage di Piazza Fontana. Si normalizza la cultura dell’omertà giustificando come motivazione eticamente condivisibile la scelta di non collaborare con lo Stato dei mafiosi stragisti irriducibili e depositari di segreti scottanti che chiamano in causa i complici eccellenti delle stragi del ’92 e ’93, autorizzando così con la riforma dell’ergastolo ostativo la loro fuoriuscita dal carcere solo alla condizione che sia provato che hanno deposto definitivamente le armi. Si approvano leggi che riportando indietro l’orologio della storia ai tempi del primo Novecento, ripristinano il trionfo della gerarchia nella magistratura e introducono surrettiziamente forme di controllo e di condizionamento della politica sull’attività giudiziaria.
Lei perché ha scelto i 5 stelle? In passato aveva mai avuto proposte da altri partiti?
Non avevo mai ricevuto proposte da alcun altro partito. E a dire il vero non sono io che ho scelto i 5 Stelle, ma loro che hanno scelto me, proponendomi una candidatura. Per me si è trattato di una scelta difficile e sofferta.
Perché?
Dopo trent’anni di stress e di rinuncia a una vita normale dovuti al mio impegno in prima linea sul fronte dell’antimafia che mi ha procurato tanti nemici e odi, avevo programmato una progressiva fuoriuscita di scena e di dare priorità ai miei affetti familiari.
E invece?
Una parte di me aveva bisogno di pace e tranquillità, ma alla fine ha prevalso l’altra parte, quella che ha fatto propria la lezione degli antichi greci alla quale ho accennato all’inizio di questa intervista: se la Polis si ammala, se la democrazia avvizzisce, se la prepotenza si autolegittima rivestendosi della forza della legge, se l’ingiustizia sociale diventa normalità quotidiana e se non hai l’anima del prepotente o del servo, non vi sono vie di uscita e di salvezza individuali.
Cosa le ha detto Conte per convincerla ad accettare?
Mi ha assicurato che la questione mafia, cancellata in questa campagna elettorale dall’agenda degli altri partiti, sarebbe rimasta invece centrale in quella dei 5 Stelle, come del resto dimostra sia il fatto che la scuola di formazione politica del Movimento è stata inaugurata a Palermo con un seminario sul tema dei rapporti tra mafia e politica proprio mentre altri celebravano il ritorno in campo di Dell’Utri e Cuffaro o restavano silenti, sia l’impegno profuso dai 5 stelle in Parlamento per mettere a punto una riforma dell’ergastolo ostativo che scongiurasse il rischio di una fuoriuscita dal carcere di pericolosi boss mafiosi. Inoltre l’attacco concentrico e incessante di quasi tutto l’establishment di potere nei confronti dei 5 stelle per le riforme promosse allo scopo di ridurre le sacche di impunità dei colletti bianchi, come la riforma della prescrizione e la legge Spazzacorrotti – un attacco che ha spesso travalicato i limiti della fisiologica critica politica, trascendendo in forme di bullismo mediatico – è dal mio punto di vista, un segnale significativo che non sono integrati e omologati nel sistema e che quindi hanno una capacità di proposta e di mobilitazione politica che può muoversi nella giusta direzione come forza di resistenza contro le manovre dirette a ripristinare una giustizia classista forte con i deboli e debole con i forti.
E cosa ha chiesto lei a Conte prima di accettare la candidatura?
Ho detto che mi consideravo come un candidato indipendente e che, quindi, mi riservavo il diritto di esprimere sempre le mie idee e di manifestare il mio eventuale dissenso da scelte che non dovessi condividere. L’indipendenza ha segnato tutta la mia pregressa carriera di magistrato e mi è rimasta cucita nell’anima. Una indipendenza che è garanzia che la funzione pubblica – magistrato ieri, forse parlamentare domani – viene esercitata nell’esclusivo interesse e al servizio dei cittadini, facendo barriera insormontabile a interessi e pressioni di gruppi di interesse.
Va bene Francesco, l’intervista é piena di buoni e lodevoli propositi. È anche ben condotta e interessante, anche se il rierimento alle polis é forse enfatico. Sappiamo tutti che la democrazia ad Atene era comunque oligarchica. Si dovrà aspettare Pericle per garantire un sostentamento altro a chi intendeva occuparsi di politica abbandonando il proprio lavoro. Altri magistrati si stanno comunque candidando, anche se non se ne conoscono, almeno io, le ispirazioni. Volendo invece calcare la mano si potrebbe ironizzare che anche i 5* qualche volta ci azzeccano. Con simpatia.