Mio figlio, il secondo, si trasferisce al mare per un lungo periodo di telelavoro, l’ultimo della vita si spera e si suppone, e mi chiede un consiglio su un audiolibro per accompagnare il lungo viaggio in macchina, visto che la compagna è priva di qualsiasi senso musicale, anzi, trova le note fastidiose (constatato a un concerto, orrore!) E così, visto che in letteratura sono scarsi tutti e due, penso sia meglio farli partire da un classico, di qualcuno che scriva soggetto – verbo – complemento oggetto.
Inevitabile approdare al vecchio Ernest.
Altrettanto inevitabile la ricerca sul mio lettore e far riaffiorare qualche brano.
Che gran bastardo, ma come ho fatto a farmi abbindolare dalla sua ripetuta “celebrazione continua della vita”?
Ma si è suicidato per questo? Perché alla fine si è dovuto guardare in faccia?
Non credo proprio, direi che semplicemente si è logorato nella fuga e ha finito il carburante, e che l’alcol non renda proprio felici è risaputo, che gli affetti siano meglio delle passioni altrettanto.
Così torna il vecchio quesito: ma chi non soffre, ha davvero qualcosa da esprimere?
Credo di essermi espresso già su queste pagine con dati scientifici sulla vita e la morte dei geni e con un’estensione della ricerca alle famiglie. Il nesso è innegabile: suicidi, malattia mentale, stramberie varie…
E siccome la creatività è la molla con cui caricano il loro ingegno, anche nell’atto estremo non hanno cadute di stile, tutte soluzioni diverse!
Il metodo Hemingway (fucile-alluce-grilletto) è in ogni buon manuale delle decisioni finali, ma ce né per tutti gli habitat e le disponibilità! E per il botto finale le più maneggevoli pistole poi si sprecano.
Ma torna la fantasia al governo con i sonniferi di Cesare Pavese, il cappio di Davis Foster Wallace, l’acqua del fiume, ben zavorrata, per Virginia Wolf e altri, la precipitazione domestica di Primo Levi, e così anche per Franco Lucentini, l’arma bianca per Emilio Salgari, prima sciabola – fallimento, poi rasoio, e idem, ritualmente alla giapponese, per Yukio Miscima.
C’è poi la serie degli autoavvelenamenti con gas: quello da cucina per Silvia Plath, scarichi d’auto per Anne Sexton e John Kennedy Toole, il sacchetto di plastica in testa di Jerky Kosinsky (CO2 autoprodotta col respiro, che fermezza!)
Vien lunga, la chiudiamo qui? Sì, perché se poi allarghiamo il campo ad altre arti, e a gesti “minori” di autolesionismo, non la finiamo più!
E allora, visto che credo fermamente che il nesso genio-gesti “insani” non sia solo statistico, che per aver qualcosa da dire bisogna sentirne l’esigenza, come un fuoco che brucia, un fuoco sacro, in poche parole ci chiediamo: ma ne vale veramente la pena?
E chi si gode la vita in modo semplice, dovrà mica vergognarsi per essere un povero di spirito!
No, e infatti non lo è, e in senso pratico la sua vita è molto più utile di quella di chi ce la dipinge pizzicando le corde profonde della nostra sensibilità. Ma vedi caso l’artista lo finanziamo noi tutti, come fenomeno, non nei singoli casi, ed è una figura eterna!
Giriamo allora la frittata: queste anime roventi, se non si esprimessero così, che farebbero? Non voglio dire che sarebbero pericoli sociali, ma in ogni caso sarebbero un mollusco senza conchiglia, un inutile scherzo della natura. Perché altro non credo che saprebbero fare. E forse nella produzione artistica assistiamo alla forma di automedicazione più opportuna, per il “genio” stesso, che ci dà cosaì godimento.
E gli “altri”? Individui di classe B?
Ma perché, per amare il calcio (io non capisco come si faccia, ma sono strano), è necessario segnare il goal in prima persona?
Penso che il problema sia pedagogico innanzitutto, perché il cattivo apprendimento per canali “normali” di trasmissione del sapere è una costante altrettanto comune, e chi ha l’incarico di far crescere le piantine deve avere l’occhio allenato al riconoscimento di questi individui, e non mi sembra che la scuola abbia fatto grandi progressi. Certo, quando frequentavo l’Università di Losanna ero molto colpito dalla freccia che indicava il dipartimento per lo studio dei bambini prodigio, ma sappiamo che generalmente lo sprint iniziale si riassorbe nella crescita in normali prestazioni dell’adulto. Non è quella la singolarità, è emotiva!
E scotta.
Anche se non riusciamo a tracciare un identikit del “creativo seriale” dobbiamo quindi continuare a coltivarne lo sviluppo, in quanto socialmente utile, per spirito di solidarietà limitarne forse gli eccessi, e per i “normali” cosa che ho sempre sostenuto, alzare l’asticella dell’appagamento, lasciare un buon margine di insoddisfazione, in modo da allargare la base di produttività, anche intellettuale.
Son fuori strada? Ditelo voi!
Ma se non riesco a chiarirmi le idee, perché sto scrivendo allora?
Geniale risposta: “Ma perché è domenica!”
Commenti
Sto elaborando. Per ora “bravo”.
Le anime roventi, come le chiama Adriano, artisti, musicisti, poeti, pittori, narratori suscitano curiosità anche come personaggi in qualche modo sopra le righe. Afflitti da ipersensibilità, narcisismo, noia: il dubbio se dedicare più tempo all’arte, alla scrittura o alla vita; l’altro dubbio se sono mediocri o valenti; la tentazione di esistere: come se il loro esistere abbia un valore, mentre per un ciabattino, anche no. Questo è ciò che si pensa, la narrazione, il mito, che sostituisce spesso la realtà, di uno che scrive, di qualcuna che fa installazioni artistiche.
Il suicidio era più praticato, fra i giovani studenti universitari, scrittori e poeti, negli anni dell’avvento nazifascista nel mondo. Non solo ebrei: anche tedeschi “ariani”. Un’umore del tempo carico di brutti presagi. I tempi cambiano.
Oggi, c’è una sfilza di suicidi sotto i treni, in paesaggi non da cartolina, e linee ferroviarie di campagna. Si ammazzano vecchi, donne sole, alcolizzati, giovani, gente anonima che non suscita la curiosità di nessuno. Non sono Hemingway.
Ritengo, per come la penso, che intorno all’Arte, alla letteratura, esiste tanta robaccia e personaggi che farebbero bene, come direbbe mio padre, a caricarsi sacchi di cemento sulle spalle, o pulire i cessi dei supermercati, per guadagnarsi da vivere. O lavorare dal ferramenta.Non è un caso, che chi si è dedicato alla letteratura dopo una vita di lavoro duro, sporco, di rinuncie e umili origini, si comporti spesso in modo differente, scriva storie differenti, da chi l’ha avuta morbida, la vita.
Quando dico “alzare l’asticella dell’appagamento, lasciare un buon margine di insoddisfazione, in modo da allargare la base di produttività, anche intellettuale” di cos’altro parlo Marino? Per appagamento intendo proprio in primis economico, che in altro pezzo ho chiamato pappa pronta. I denti del lupo boisogna sentirli nelle chiappe!
Indubbiamente il suicidio non é un privilegio. Io ho come tutti un elenco non affollatissimo di persone comuni morte suicidate. Tentato di pubblicare qualche riga che ho conservato tempo fa che forse andrebbe controcorrente. In sintesi: che coglioni, ma chi vi credetete di essere? Cosa credete, che la vita per gli altri sia sempre facile? Ma anderebbe ripensato tutto l’approccio alla vita. Problema filosofico, anche spicciolo, da essere comprensibile per tutti. E questo escluderebbe la compassione.
Sta lì il problema.
Il problema sta nella pappa pronta che la vita a un certo punto fornisce col successo. E allora “che coglioni, ma chi vi credetete di essere?” come tu dici. Ma se di loro, come di gladiatori abbiamo bisogno, forse qualcosa non quadra in noi. Penso che dovremmo fare uno studio sui diari dei loro partner, per sapere chi sono. Vedi caso la riflessione mi scatta dopo la rilettura di “Verdi colline d’Africa” in una versione corredata dal diario dell’allora moglie Paolina, citata come PHM. Tutta una storia dfiversa! Un diario di mattanza per il puro gusto sadico-infantile di uccidere. La sua migliore fu ultima, credo IV, emersa alle cronache da un report africano pubblicato dai figli lo sfruttava palesemente, ben tollerando la relazione con una ragazza nera del villaggio, tanto che le fregava? Anzi, dal diario emerge che stava ben attenta a non fargli spendere troppo denaro, forse già pensando “al dopo”. Povero pirla.
Data la stura mi parte l’occhio su altri classici: che guazzabuglio!
Sarebbe interessante trovare per ognuno una partner narrante.
Resumé di Dorothy Parker
I rasoi fanno male;
I fiumi sono umidi;
l’acido lascia tracce;
Le pillole danno i crampi.
Le pistole sono illegali;
i cappi si rompono;
il gas ha una puzza tremenda;
Tanto vale vivere.
Geniale! Del resto se si vuol ben guardare, a colpèo sicuroi resta solo il treno (un bel fegato, e aolora chi ce l’ha forse riesce anche a vivere). Le benzodiazewpinbe ad esempio non danno certezza di moprte, ma alta probabilità dsi invalidità per prolungata anossia cerebrale. I vecchi barbiturici non si trovano più. Ed ecco che nasce un mercato internet dei kit suicidio ! In qual
e paese nordico è stata autorizzata la prima autonasia poer “infelicità assoluta e ingovernabile”? Sul perché quella civiltà vichinga sì e noi no ci ricolleghiamo alla vertenza: perché son figli di una natura matrigna!
Credo di averlo scritto molto tempo fa, e che non ho caricato, a commento di un post di Livio Cadè, personaggio che tutti ricorderete. Mi viene in mente rileggendo la riga delle 5.000 parole, Vangeli, Tao e altri libroni che forse è una citazione dal suo testo.
Suicidi ed egoisti
MA CHI VI CREDETE DI ESSERE?
“ E fieramente mi si stringe il core,
A pensar come tutto al mondo passa,
E quasi orma non lascia”
Ma lo capiremo, se coscienti, solo l’attimo prima della morte. E i suicidi, curiosi, lo sanno, per questo la anticipano. Sono riflessioni elaborate, prima o dopo, comuni a tante culture, spazi e tempi, Tao, Bibbie, Vangeli, come se la mente umana, nella sua evoluzione, avesse scritta da subito l’inevitabile strada di questi raggiungimenti. O semplicemente gli uomini si scopiazzano perché le idee non sono di proprietà. O tutti i cervelli del mondo sono in grado di elaborare, in tempi evolutivi diversi, gli stessi concetti, biologia o chimica, idee o sogni in alchimie più o meno raffinate. E magari uguali, in tutte le epoche, raccontate con linguaggi diversi, ma sempre con un comune denominatore: essere mortali. E non è questione di oriente o occidente. E’ come se l’uomo non fosse in grado di elaborare altro, accomunati alle diverse latitudini da un percorso comune, e obbligato. E per questo tutti vittime, nel bene e nel male, degli stessi meccanismi che in epoche diverse o geografie si innescano, e che vietano o nascondono la dimensione astratta o poetica contrapposta alla prosa della nostra vita. Nessuna poesia. Così che si passa il tempo nel ”sarebbe bello”. Viviamo nei sogni, nei desideri, nelle nostre volontà deliranti da combattimento che si antepongono sempre a questo o a quello, in un rimando sine die di liberatorio distacco, come se il contingente, il quotidiano avessero quella necessità di definizione o soluzione immediate, perché la vita è così. Non si ha tempo di aspettare perchè la morte incombente ha bisogno di risposte, che se anche istintive, ci danno l’illusione delle uniche possibili. Viviamo nella presunzione della nostra unicità, e se si raccontiamo altre vite si riscontra alla fine che esempi, testimonianze, teorie non vanno oltre le nostre sporadiche riflessioni o numeriche esperienze, oltre i nostri filtri o chiavi di lettura, in una linearità sempre vagheggiata perché la conquista di oggi è subito la negazione nella circostanza di domani. Le nostre esperienze e quelle degli altri. Siamo solo in balia degli eventi. Senza imparare niente, danoi e dalprossimo. E allo stesso tempo è difficile circoscriversi in un fluire, diciamo cosmico, consolatorio, anche se della Storia del pensiero tutti siamo protagonisti, magari inconsapevoli, quindi delle particelle che potrebbero, inserirsi nel tutto. Perché se escludessimo gli altri dovremmo bandire anche noi stessi. Immaginate se ognuno di noi non esistesse, con le relazioni tessute, i figli fatti, le cose fatte e le parole dette. Verrebbe da chiedersi se l’equilibrio del mondo sarebbe lo stesso. E dal momento che esistiamo, senza quella compagna, sorella, fratello, amico, saremmo gli stessi o saremmo altro? E gli altri sarebbero uguali senza di noi? Del resto non è forse vero che il protagonismo, di pochi, è la peggior piaga del passato e del contemporaneo, del tempo di sempre? Perché auspichiamo tutti, ora, a differenza di un tempo, di far sentire la nostra voce più alta di quella degli altri, mai uguale. E magra intenzione è credere che comunque, evitando snobismi, si debba iscrivere tutti nel novero della costruzione del mondo, anche quando si crede di non aver portato nessun contributo alla sua edificazione. E l’intrufolarsi sembrerebbe meschino, ma crediamoci a questa magra consolazione. Altrimenti non c’è altra scelta che il protagonismo, poche righe prima sospettato di essere sempre particella impazzita od inutile mattoncino del creato, o costruito che sia. Anch’io voglio fare la storia, perché non è costruzione degli altri. Quindi la verità di ognuno, se cercata, espressa ha il valore di tutte le altre. Se invece si abdica in nome della rassegnazione o peggio dell’indifferenza, e neppure ci si confronta con le 5000 parole di altri, si abbia il coraggio intellettualmente onesto della sottomissione dichiarata. Per questo io non credo alle religioni, alla cultura, che effimere come tutte le costruzioni dell’uomo, mai rimandano all’unicità che siamo, cioè l’io e la negazione dello stesso in una continua alternanza. Perché di balle ce ne han sempre raccontate tante. Perché sempre è tutto vero, come è altrettanto vero il contrario. Abbiamo bisogno del male per capire cos’è il bene, ma mai è automatico, e barcamenarsi tra le conquiste o le negazioni di oggi è l’unica strada dove gli inevitabili piccoli traguardi vanamente ci avvicinano alla meta finale. Perchè allo stesso tempo, illusoriamente, ci allontanano. Non ci si scappa da una visione duale del mondo. Siamo capaci di distinguere il bianco dal nero ma lo spettro solare di colori ne contiene sette . Quante ne cogliamo? E tutto è sempre irrisolto. Si ricomincia, ci si arresta nella grande fatica della vita ordinaria che poi è quella che ci ruba tutto il tempo lasciandoci fiaccati, esausti. Perché il pessimismo storico quando mai è vinto dall’ottimismo individuale? E la coscienza di sé ne è la prima vittima. Perché tanto annichilimento che toglie respiro alle individualità? Perché non essere in grado di dire “io sono”, in spregio o complementare alla molteplicità? Perché la consapevolezza di ognuno nega la coscienza degli altri? Se delego la ricerca della via, quella degli altri diventerà per forza la nostra. Verrebbe da citare il solito Leopardi, ma vi sono epoche dove anche la ragione ragiona solo vittima dell’indifferenza, se non nella ricerca della sopravvivenza per se stessi. Cerco di ragionare, ma se ragiono solo per me stesso, riesco a contribuire alla soluzione delle tribolazioni del mondo? Contano solo le nostre, non quelle. Perché non capire che tutti siamo iscritti nello stesso elenco? E il pessimismo storico, già anticipato, non gioca un ruolo fondamentale nella ricerca di senso? O in alternativa, è possibile astrarsi dal reale per vagheggiare una possibile età dell’oro mai esistita, prima individuale e poi generale? E’ possibile superare la Storia, anche quando questa racconta solo la sua fine? Forse sì, rinnegando gli antichi maestri, dopo aver fatto tabula rasa, perchè chi ci crede che 5000 parole o milioni di libri possano contenere tutta la saggezza del mondo? Ad una lettura poetica o intellettuale parrebbe proprio di sì. Ma alla luce del pane quotidiano no. No, perché tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. E non c’è pragmatismo possibile, siamo istinto, passioni, debolezze. Bianco o nero, punto. Siamo solo capaci di riduzionismo senza capire che il senso è molto più complesso dei limiti di ognuno. Difficilissimo da trovare, se non quando sul letto di morte, o sentendola arrivare, si possa dire: ma allora, era tutto qui? Perché non l’ho capito prima? A quel punto sarà troppo tardi, ma finalmente sarò protagonista di me stesso, e riconoscendo tutti i colori, al mistero della vita opporrò solo le mie povere membra, ma che concretezza, che verità. Io, Io, Io. Per questa ragione i suicidi, consapevoli dell’attimo fuggente da fermare, sono sempre esistiti, esempi di un ego smisurato che antepone spasmodicamente la realizzazione di sé alla determinazione degli altri, come esistono gli omicidi, anche questi delirio di chi crede che un no ricevuto equivalga alla nostra completa negazione, così che la negazione dell’altro risulta l’unica chance all’affermazione di sé, anche se alla fine la negazione inevitabile di se stessi. E per tutti non bastano la saggezza del mondo, né il Tao, né i vangeli, e tutte le filosofie, perché i rari o tanti contrappesi pesano sempre poco in quel vagheggiare armonie di cui è colmo il racconto dell’uomo. Colmo, ma così colmo da inglobarlo tutto, perché ciò che non ci appartiene deve appartenerci. Perché mai come ora la voracità è la cifra stilistica di ogni azione. E il suicidio diventa così la massima espressione di un sé smisurato, non quello spettacolare da paginone in cronaca, ma anche quello nascosto, nel chiuso della propria casa, al riparo da indotti ripensamenti come quando dal parapetto di un ponte la mano salvifica di uno sconosciuto ci trattiene, almeno per poco, che magari poi ci si ripensa, come nel veritiero pensiero comune che vuole che da lì non ci sia ritorno. Ma non è così, chi ha tentato un suicidio ci riprova, fino all’esito finale della partita. Perché poi, la morte prima o dopo capita a tutti. E se è il prezzo da pagare allora suicidiamoci tutti. Perché io credo che tutti ci aspettiamo, almeno l’attimo prima della morte, di capire tutte le cose, che comunque non potremo mai testimoniare, e nella tomba ci porteremo il nostro segreto che se non condiviso sarà servito solo a noi stessi. Insomma, non esiste via possibile, se non una, quella di capire solo nell’ultimo istante, nella solitudine, ma senza farne esperienza. Se non servirà a noi non sarà d’aiuto a nessuno. Suicidi egoisti.
Ricorda aspettando Godot: Impiccagione a fini di eiaculazione. Chi lo sapeva che sarebbe divenuto un gioco di società? Ecco il punto: un gioco per pancie piene e piedi caldi nelle pantofole!
Signor Macalli, illeggibile e incommentabile.
Comunque chi sta bene al mondo non serve. L’immobilita’ di un status quo significa che si vorrebbe fermare il mondo fregandosene di chi sta peggio che invece ha bisogno di mobilità per migliorare la sua condizione. Che vuol dire estendere i privilegi in modo che non siano più tali. Non dico tutti ricchi e felici, ma ridimensionare le sperequazioni sarebbe molto civile.
Hemingway era trabordante, come uomo. Durante la guerra di Spagna era frequentatore assiduo degli hotel dove si riunivano i corrispondenti esteri. Lì, teneva banco, e litigava anche. Mentre i contadini, i minatori delle Asturie crepavano in battaglia.
Qualche volta ha voluto anche provare l’ebrezza del combattimento, ma solo in senso adrenalinico.
Adriano, come tagliarselo via per far dispetto alla moglie.
È evidente che serve un riequilibrio tra ricchi e poveri, ultraricchi e poveracci. Lo capirebbero anche i sassi. Ma, la destra politica rifiuta anche minimi aggiustamenti. La povertà è una condanna che ti sei meritato, da cui non sai uscirne; la vita è una giungla, sopravvivono solo i forti e i furbi; tuttalpiù, se ti serve una mano, il ricco potrà dartela, solo se ti comporti bene, ti accontenti, e ringrazi, e per ringraziare sostieni il ricco nei suoi fastidi. Lo voti. Sembrano regole sciocche, ma sono leggi non scritte dell’armadio mentale dei falsomoderati, dei fascisti che fingono di essere solo conservatori; dei falsiriformisti, falsigarantisti, tutti spalleggiatori dei padroni “della meloniera”, padroni delle ferriere. Come i proprietari di villa Laura, a Levanto, case e parco annesso, che frequentano raramente, perché hanno troppe case. E come si fa? Ci pensano i guardiani, i giardinieri, la famiglia portinaia a tenerla viva, villa Laura. Chi sta bene al mondo, serve a quelli che stanno maluccio, per alimentare i loro sogni. Se non ci fossero i supericchi, bisognerebbe inventarli, che la vita sarebbe noiosa. I privilegi, il lusso sono molto amati, rispettati dai poveracci. È l’amara realtà.
Basta vedere la discussione innescata dalla proposta di tassa sulla successione di Letta. D’altronde lo capisco anche. Molti genitori fanno figli imbecilli e quello è il modo per superare il senso di colpa per il loro fallimento di educatori. Bill Gates, ma dopo il divorzio si vedrà, avrebbe predisposto come eredità per i figli una bazzecola rispetto all’ingente patrimonio. Allo stesso tempo a sinistra, Illy, Carofiglio trovano scandaloso un mondo di pochissimi ricchi, l’1% della popolazione italiana, trovi indecente la proposta di cedere qualcosa oltre i 5milioni di reddito, dimentichi che nella Storia in molti hanno perso tutto senza lasciare neppure le mutande. La ciclica giustizia sociale, semai riescono a far mente locale. L’obiezione è: insomma, si fa presto ad avere tutto quel reddito o deposito o immobili, basta avere un appartamento in centro a Milano è già si supera il milione di euro. Magari gli si dovrebbe chiedere come han fatto ad averlo e come fanno a mantenerlo, e se a corollario hanno altro, che è probabilissimo o scontato.
L’accenno a Ernest Hemingway, il giudizio duro su di lui, costringe a ricordarlo per quello che è stato, almeno per me. Come non ricordare che da ragazzo leggevo Hemingway con passione e ammirazione, e sogni e desideri che fluttuavano dentro i suoi racconti? che la sua smania, inquietudine, era della gioventù di tanti?
Se c’è uno scrittore che mi viene in mente, nei pomeriggi milanesi, anche ora che la pandemia ha aperto un po’ le restrizioni, nei bar affollati di giovani che al crepuscolo s’incontrano, ridono e bevono, e gira una voglia di vivere smaniosa e seducente, è lui: è Hemingway. È come se fosse seduto lì, al bar Radetzky, o a quello di fronte, o nei bistrot vicino all’Università Cattolica; sulla Darsena dei Navigli. Lo ricorda molto bene un giornalista sopravvissuto alla strage di “Charlie Hebdo”, Philippe Lancon in “Le lambeau” (a brandelli).
Hemingway, scrive Lancon, in “Paris est une fete” (Festa mobile, in italiano, che rispecchia l’originale inglese, pubblicato postumo, A moveable feast), attira i lettori dentro il labirinto ubriacante della nostalgia, anche lo specchio, senza compassione, però, dei fallimenti. Un libro della giovinezza, un ricordo malinconico della voglia di vivere che si è perduta, del tirar tardi, le notti bianche, da un locale all’altro. La Parigi di quando si aveva vent’anni, e ci si sentiva indistruttibili, nella città dell’amore e degli incontri, che è bella anche quando piove.
Ho rivisto Hemingway, pochi giorni fa, in una coppia giovane, su una terrazza di Montevideo, di una vecchia copia del “National Geographic” piena di polvere in cantina, seduti a un piccolo tavolo, il vino nei bicchieri, lui di schiena e lei che lo guarda diritto negli occhi e gli sorride. Sotto la terrazza scorre il fiume notturno della città che non dorme. Le luci delle auto, stelle insonni e brulicanti che corrono sull’asfalto.
Bello ciò che scrivi, e la sua maniera di scrivere scarna, senza subordinate, è stata realmente innovativa, ma te lo trovi poi dietro le righe umanamente inaccettabile. Certo, mica per il dissesto della sua vita, si può essere anche passionali, mica per la smoderata voluttà, si può anche essere un’icona di edonismo, ma per l’ipocrisia, la crudeltà verso il mondo animale soprattutto. Ma comn si fa ad abbattere il vecchio cavallo e farne un’esca per accoppare (termine tuo) un orso e un’aquila? E 23 iene in Africa! buone a nulla anche come trofeo?
Ho avuto un nemico solo nella vita, sì, credo l’unico, e un giorno l’ho visto torturare una mosca con la sigaretta accesa, credendosi inosservato. Non ho potuto far di più che prender la mosca e buttarla fuori della finestra, ma ho capito un mio grande errore: affermare che non esiste il diavolo. Ecco la sua rivalsa: è venuto a trovarmi come rivale dopo tutte le volte che l’avevo “sfidato”! E improvvisamente quel giorno in cui ho scritto queste cose ho riconosciuto nel nostro autore solo un diavolo ciucco marcio. Povero diavolo. E ci mancherebbe che non fosse un genio della parola! Ma era il DIAVOLO!
Poi magari mi passa, tranquillo.
Mi ritrovo a “andare contro corrente”!
Ma io credo che il mondo abbia assolutamente bisogno, per recuperare qualche prospettiva speranza di ri-trovare il suo assetto di equilibrio, di gente che sappia “star bene al mondo”!
Che sappia perseguire obiettivi di vita migliore, sostenibile sia per i “respiranti” che per i “vegetanti” (e la collaborazione tra le due specie è irrinunciabile!) e non si faccia tentare dalle “vie brevi” dell’abbandono della vita, magari in modo “eroico”, epico addirittura!
Perfettamente concorde, e lasciamo i fari dell’umanità al loro ruolo tormentato. Non si dice forse infatti “gli manca qualche rotella a quello lì”? Il mio titolo era un’afferrmazione per assurdo! Ma poi si può anche essere pazzo senza esser crudele con le povere iene, e magari con le donne. Far vibrare le corde altrui… mbe, no, questo richiede portare le proprie al limite della rottura, e questa è la tipizzazione el fuoriclasse comunicativo, ma sofferente. Ma parliamo sempre e comiunque di vasi difettosi, che prima o poi perdono acqua. Vi siete mai chiesti perché un autista è spesso un genio matematico? Nion è distratto da altro, come noi versatili e piccoli pliurivalenti! Essere multifunzioni riduce la funzione specifica e specialistica. Pistorius con le sue appendici in fibra di carbonio era più veloce di tanti normodotati, ma portalo su terreno sconnesso dove noi agevolmente passeggiamo, e vedi che succede! Questo è il genio: un minus habens superdotato (ossimoro quantomai azzeccato), che poi può essere di buona o di cattiva indole, e questo per me dà l’empatia o repulsione.
E parlarne mi inizia a cjhierire le idee
Chi sta bene al mondo, come i Letta, Gianni, Enrico, occupati in faccende, fasende in campagna, affari, equilibri politici, predicozzi, in città, si dividono sui nemici da sconfiggere. Per Gianni, e’ il levare i lacci e i lacciuoli, e la persecuzione giudiziaria che impedisce “la libera iniziativa privata”, che in Italia bisogna tradurre in cavoli propri usando la propria fantasia e abilità; per Enrico, sono le 4P: povertà (non la sua), privilegi (anche suoi), pregiudizi (degli altri), paura (di tutti).
Il Capo di Gianni sventolava le tre I, tra cui Internet e Inglese (la terza è scambiabile: innovazione, iniziativa, incantare, imbroglio, imprenditorialità); Enrico, le quattro P. Siamo agli slogan, irrinunciabili, oltre il proprio status, pure quello, condiviso, l’essere bene-stante.
Una volta era l’avanguardia intellettuale, si lamenta Luciana Castellina, la locomotiva; ora, scrive Enrico Letta, sono le élite “per far procedere a una buona velocità il treno”. Da cittadino comune, sono interessato ai dettagli, le sfumature. Non la predica. Mi pare che Enrico Letta, che condivide con Matteo Renzi almeno due cose: essere bene-stanti, e estimatori di Emmanuel Macron, il tentativo è quello di tenere insieme più roba: un filo con il passato della sinistra storica comunista (la mania di battersi il petto: l’autocritica); la passione per la modernità spinta (la sfida tecnologica; i predicozzi sul futuro sostenibile e l’innovazione); e l’imbarazzo di essere troppo bene-stanti in un mondo di troppe povertà.
Forse, la sinistra ha dimenticato la giustizia sociale, non per i predicozzi, perché i suoi rappresentanti non sono più come Pio La Torre: sono illuminati liberal preoccupati giustamente dei diritti civili, che non sanno niente delle difficoltà di arrivare alla fine del mese. Questo è.