Ananda Kentish Coomaraswamy (1877-1947) è stato un valente direttore di musei americani e soprattutto uno tra i piĂš grandi storici dâarte attivi nel XX° secolo. Le sue opere hanno contribuito a far conoscere e apprezzare lâarte orientale in Occidente, al punto dâaver saputo influenzare lâestetica del Modernismo Inglese. Partendo dal presupposto che lâarte medioevale europea e quella indĂš sono riuscite a delineare il raggiungimento di una teologia visiva e a far comprendere veritĂ sovrasensibili, grazie alla comparazione delle diverse culture religiose (induista, musulmana, buddista e cristiana), lo studioso cingalese ha derivato le analogie che corrispondono alle esigenze primarie dellâuomo.
La ricerca della veritĂ , identificata nel binomio sacro-bellezza, ha da sempre avuto per oggetto Dio. Tale presupposto è distante dalla concezione moderna di arte basata sulla predilezione âdi effimeri soggettiâ. Lâavvenuto passaggio dalla ricerca delle conoscenze primarie ad âuna superstizione inutile, nella misura in cui il suo effimero e tragico soggetto è lâanimale âuomoâ ha prodotto il venir meno della funzione principale di utilitĂ , un tempo unica strada maestra e sapienziale riconosciuta al processo artistico. Tale percorso ignorava la successiva distinzione tra le belle arti e le arti applicate, per cui pittura, architettura, carpenteria, musica e ceramica non costituivano generi diversi di poetica o di produzione artistica ma percorsi paralleli, strade orientate alla conoscenza della filosofia perenne. Ogni tradizione conservava le indicazioni di accesso che conducono alla via maestra (marga): la raffigurazione egizia della porta del Sole, la figura del Pantakrator rappresentata nellâocchio di una cupola bizantina, lâequivalente per mezzo del quale lâindiano dâAmerica abbandona il suo Hogam, lâapertura del pi cinese, il paranco della iurta dello sciamano siberiano, il foro del tetto sopra lâaltare di Giove, tutte porte attraverso le quali si evade dallâuniverso conosciuto. Nellâarte tradizionale lâesperienza mistica, il supporto alla meditazione, il riconoscimento della natura simbolica nelle dimensioni quotidiane rappresentano altrettante possibilitĂ offerte allâartista e al fruitore di affacciarsi allâorizzonte metafisico.
Oggi una decadente trasformazione ha portato al deterioramento imposto dalla speculazione economica che favorisce lâinteresse dei mercanti dâarte, galleristi, intermediari, il cui mestiere consiste nel procacciare clientela, fama ma anche sfruttamento degli autori. Per contro la produzione privilegiata dagli antichi maestri non era finalizzata alla ricerca spasmodica di tematiche innovative ma perseguiva un adeguamento, il piĂš fedele possibile, ai canoni tramandati dalle precedenti esperienze generazionali poichĂŠ lâarchetipo può essere imitato, lâindividuale può esser solo copiato. Unâaura di impersonalitĂ sovraumana circondava queste opere. Non si contano nei templi e nei santuari le leggende che narrano di tele composte da autori angelici o le storie di statue miracolose, di natura divina che un destino superiore e benevolo aveva fatto pervenire in dono alla comunitĂ dei fedeli. La carenza di autografi, la mancanza di prestigiose attribuzioni non assillavano lo spirito egotico degli artefici e degli estimatori ma avvaloravano la funzione di pubblica condivisione e il fine di utilitĂ salvifica che i lavori artistici erano chiamati a compiere.
Lâaiuto strumentale veniva assicurato dalla celata presenza del daimĹn nel processo ispirativo. Una volontĂ immateriale eppure facilmente percepibile aveva guidato la mano mentre reggeva il pennello del pittore, lo scalpello dello scultore, la sgorbia dellâebanista, permettendo la riuscita di un apax che sapeva risvegliare lâazione contemplativa, trasformando lâopera in preghiera. Per questo nei musei era necessaria la conservazione, lâesposizione ma soprattutto la spiegazione al pubblico delle opere dâarte antiche di cui spesso era andata persa la capacitĂ di una piena comprensione.
Per Coomaraswamy ogni opera dâarte tradizionale costituisce un supporto per la concentrazione. Allâattento osservatore si aprono vere e proprie porte destinate a far accedere ogni pensiero limitato ai grandi misteri che regolano le armonie del cosmo. Esiste una assimilazione tra il conoscente e lâoggetto del conoscere. Non è forse detto anche nelle Upanishad che âsi diventa della stessa sostanza del soggetto sul quale si fissa il pensieroâ?
âSe un poeta non è in grado dâimitare le realtĂ eterne, ma è solo capace descrivere i capricci della natura umana, anche se le sue rappresentazioni saranno tra le piĂš attraenti e realistiche, non vi sarĂ posto per lui in una societĂ idealeâ.
Ogni artista è un demiurgo poichĂŠ crea, dĂ forma a ciò che non è. Ripete ritualmente una azione che ab immemorabili sta allâorigine della vita. Nel saggio âPerchĂŠ esporre le opere dâarteâ la validitĂ che legittima una iconografia non è il ricorso a riprovevoli raffigurazioni di cose banali e qualsiasi, nemmeno i sentimenti dellâartista o i caratteri umani sono temi degni di raffigurazione, ma la descrizione delle azioni attribuite agli Dei e agli Eroi. Come per Platone il compito dellâarte è quello di saper cogliere la veritĂ primordiale, rendere udibili i silenzi, quindi lâarte vera âè fatta di rappresentazioni simboliche, significative di cose che possono essere viste solo con lâintellettoâ.
Tali convinzioni per il modo e per il tempo in cui furono formulate non tardarono ad essere avversate dai fautori della critica e dallâaccademismo ufficiale poichĂŠ ponevano in crisi le fondamenta su cui reggeva la cultura sentimentale, estetizzante e materialista che preferiva lâespressione istintiva e astratta alla bellezza formale dellâarte tradizionale. Lâosservazione antropologica dovrebbe aver insegnato che il formalista del neolitico era il rappresentante di culture âprimitiveâ. Nei suoi lavori contemporaneamente erano presenti le necessitĂ dellâ anima e del corpo. Per comprendere le opere dâarte esposte alla nostra ammirazione Coomaraswamy ci insegna che non occorre spiegarle nei termini proposti dalla nostra psicologia e dalla nostra estetica, ma è necessario abbandonare i pregiudizi etnocentrici. Una qualsiasi cultura va intesa solo se si ha dimestichezza con i principi etici che lâhanno caratterizzata. Gli oggetti che vediamo esposti sottovetro nei nostri musei originariamente non erano tesori da vetrina ma manufatti dâuso comune, oggetti pratici, unicum, dietro i quali si potevano sentir pulsare le vibrazioni del costruttore. Non rappresentavano i risultati usciti da un lavoro seriale o i prodotti di una catena di montaggio perchĂŠ lâimpegno e le tensioni dellâartefice non sono paragonabili allâefficientismo asettico di una macchina. Câè quindi da chiedersi se gli articoli in vendita presso i nostri negozi siano fabbricati da uomini veramente liberi o derivino da processi servili. Lo scultore e saggista Eric Gill ha fatto notare che nella nostra contemporaneitĂ risulta evidente una grossa aporia: âSi ha da una parte lâartista che mira unicamente ad esprimere la propria personalitĂ ; dallâaltra lâoperaio senza alcuna personalitĂ da esprimereâ. Con il distacco della cultura dal lavoro e la separazione del lavorare per vocazione dal lavorare per necessità è venuta meno la figura dellâartigiano ponte fra la materia e lo spirito. La vera sensibilitĂ dellâesteta non dovrebbe limitarsi a gioire per lâutilitĂ e la bellezza dellâopera ma trovare completezza nella capacitĂ di comprensione, nello scoprire la ragion dâessere, cogliere ciò che essa può esprimere.
Oltre al ruolo riservato alla cosiddetta âmentalitĂ primitivaâ anche la definizione di folklore, da parte dello storico dâarte allievo di GuĂŠnon, merita qualche cenno. âPer ËfolkloreË intendiamo l’intero e coerente corpus culturale che è stato tramandato, non nei libri ma dal passaparola e in pratica, al di lĂ della portata della ricerca storica, sotto forma di leggende, fiabe, ballate , giochi, giocattoli, artigianato, medicina, agricoltura e altri riti e forme di organizzazione sociale, in particolare quelle che chiamiamo tribali. Questo complesso culturale è indipendente dai confini nazionali e persino razziali e di notevole somiglianza in tutto il mondoâ.
Se per Vladimir Propp nei racconti popolari russi si celano importanti retaggi storici, per Coomarawamy i giganti delle fiabe sono i titani della mitologia, gli stivali delle sette leghe corrispondono ai passi di Agni o del Budda e Pollicino configura il Figlio, che Eckhart definisce âpiccolo ma cosĂŹ potenteâ. Il contenuto del folklore è quindi metafisico. âLâinattitudine a riconoscerlo è dovuta principalmente alla nostra profonda ignoranza della metafisica ⌠ma fintantochĂŠ è possibile la trasmissione del contenuto del folklore è anche disponibile un terreno sul quale si possa edificare la costruzione della piena comprensione iniziaticaâ.
Commenti
I commenti sono disabilitati per questo contenuto