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MARINO PASINI

IL VENTO QUESTO SCONOSCIUTO. Una storia torbida

Sassuolo è stata capitale mondiale dei pavimenti e rivestimenti in ceramica, piastrelle da calpestare, rivestimenti per bagni e cucine, migliaia di aziende, lavoratrici che catturavano al volo, sui rulli, le piastrelle con minime imperfezioni, che s’intossicavano lavorando la ceramica. Sassuolo era la città delle piastrelle, famosa nel mondo, come famoso è il cremonese che strizzava oltre duemila tonnellate di latte fresco ogni anno alle vacche, altre lavoratrici che si consumavano, per sopperire alle richieste. Poi, a Sassuolo, divenne il numero uno il cavalier Squinzi e la Mapei, colosso degli adesivi chimici, ci montò la sede, il quartier generale della produzione di colla, per posare ceramica cinque per cinque sui bagni con idromassaggio e vascone, a mò di piscina domestica per il giusto relax. Sassuolo divenne casa Mapei. Anche se continuò a produrre camionate di piastrelle e piastrelloni rettangolari lunghi tanto, di granito ceramicato cotto a milleduecento gradi, che non gli facevi un graffio neanche se ci passavi sopra con un carro armato, che a sollevarli, quei lastroni ammazzi la schiena. La Mapei ciclista vinse trofei e baci e lanci di champagne alle gare del Tour de France. Vinse in serie A partite con città di oltre un milione d’abitanti, quando Sassuolo ha meno residenti di Lodi, e poco più di Crema. Per dire che quando i soldi girano, tante faccende prendono a girare, anche senza che tiri il vento.

Eugenio Rovescali, metà della giornata a Bagnolo Cremasco la trascorreva al telefono, al telefax, con ditte di Sassuolo. Era la fine degli anni Settanta. Acquistava e vendeva partite di ceramica di seconda scelta, di prima commerciale, pavimenti per negozi, rivestimenti con fiorellini, paesaggi, tombe egizie. Una signora di Casaletto Ceredano volle tutta la casa in finto marmo bianco di Carrara, che pareva di entrare in clinica, o in un frigorifero; una famigliola di Rubbiano che venne in ufficio tutta assieme, anche con la nonna, decise per colori accesi, piastrelle firmate dallo stilista Versace. Se capitava che mancavano, durante la posa, le tre o quattro piastrelle firmate da Gianni Versace, era un guaio. Bisognava aprire tutte le scatole sul bancale e controllare, telefonare al fornitore. Eugenio ricordò la piazzata che ricevette dalla famiglia di Rubbiano, soprattutto la moglie, il marito taceva. Senza la firma di Versace non saldo il conto, disse. Sono una che paga, quindi pretendo il giusto. Fu proprio  quella volta, quel piccolo stupido guaio, la scatola “firmata” che non era arrivata a destinazione, che Eugenio sentì per la prima volta la voce di lei. La voce di Giovanna Schiavoni, professione impiegata d’ufficio. Fu lei a risolvere la questione, e le piastrelle firmate Versace, dopo due giorni arrivarono con un corriere rapido. Eugenio, da allora, cominciò per lavoro, a parlare spesso con Giovanna Schiavoni. Scherzavano al telefono come vecchi amici; Eugenio chiedeva se a Sassuolo c’era il sole, Giovanna, se valeva la pena spendere una gita fuori porta a Crema. Dove andrai per le ferie l’estate? Che ne dici dei Rolling Stones? Il tennis? Giovanna non sopportava gli uomini volgari, i film angosciosi, chi maltrattava gli animali. Eugenio, le donne astemie e il festival di Sanremo. L’azienda presso cui Eugenio lavorava cambiò poi proprietà e diversi fornitori. Eugenio dimenticò la voce di Giovanna. Un pomeriggio, ricevette una telefonata in ufficio. Era lei, Giovanna Schiavoni. Eugenio, come stai? Tutto fila liscio, o quasi? Una semplice telefonata tra colleghi. Eugenio pensò che lo squillo di Giovanna aveva anche uno scopo commerciale: un tentativo per rientrare come ditta fornitrice. Ma fu un gesto gentile, lei aveva quella bella voce, che Eugenio ben ricordava, calda, sanguigna, pronta allo scherzo. A Eugenio le emiliane piacevano un sacco, non erano mosce e diffidenti come le impiegate lombarde, che per necessità doveva contattare. Passò una settimana. Eugenio dovette richiamare Giovanna, per delle piastrelle di ricambio di un vecchio ordine, che mancavano a un cliente; e con una decisione che  sorprese prima di tutto lui stesso, le chiese se potevano sentirsi, parlare al telefono, anche fuori dall’orario di lavoro.

Ciao, sei sola? Possiamo parlare? Come stai? Non seppe mai, Eugenio, come stavano le cose, non fino in fondo: pezzi di vita di lei, anche ingombranti che lei non raccontò, non a lui. Ma arrivarono al dunque, perchè Eugenio voleva vederla, guardarla in faccia. Entrambi si volevano annusare, come fanno i cani. L’appuntamento che decisero fu per un sabato sera, a Sassuolo. Era inverno, un vento gelido che spazzava cartacce nel parcheggio del capannone industriale, uno dei tanti che ci sono in quella città-capitale di piastrelle. Per Eugenio non fu facile trovarlo, il parcheggio, anche se Giovanna gli rifilò indicazioni precise: ma era buio, i capannoni in una lunga fila, anche se non tutti uguali. Lunghi rettangoli anonimi, parallepipedi con plinti in calcestruzzo e tetti di eternit. Non c’era poesia in quel paesaggio notturno industriale, il silenzio rotto dai tir che passavano sulla statale poco lontana. Nell’enorme parcheggio dove sostavano le auto di Eugenio e Giovanna, non c’era nient’altro, solo un deposito di rottami di ferro in un’angolo, e un aiuola con tre alberelli. Eugenio arrivò prima di lei, in netto anticipo; Giovanna dopo una decina di minuti, lui in piedi fuori dall’auto che osservava i capannoni che sembravano non finire mai, rimpiccioliti in prospettiva, qualche luce che brillava in collina. La serata era tersa, ma il vento gli sferzava la faccia. Era aria da neve. Eugenio non ricorda come accadde, ma fu come stappare una bottiglia di spumante, sbattuta dal trasporto. Sembravano due animali. Non importò il freddo, e non pensarono neanche di tenere il motore acceso, per scaldarsi un pò. Due furie, impacciate con il maglione, lo zip dei pantaloni, il reggiseno da sganciare; Eugenio ebbe un’indecisione, se tenere o no su i calzini. Non scendeva il sedile della Fiat 127 dove era seduto Eugenio, e mentre si trasferirono dietro, lei sopra di lui, Eugenio notò un fascio di luce intenso picchiato sulla 127, che  illuminava l’auto, come se entrambi fossero su un divano a due posti, nel salotto di casa. C’erano due carabinieri con una torcia puntata in faccia a Eugenio. Come avevan potuto non sentire neanche il rumore dell’auto in arrivo? Con un guizzo, Eugenio e Giovanna si misero seduti, affannandosi a vestirsi più in fretta che potevano. L’imbarazzo era alle stelle, mentre Eugenio aprì la portiera e rovistò nel cruscotto alla ricerca del libretto di circolazione. Che scassamaroni, pensò Eugenio, proprio sul più bello. Con tutta la strada che aveva fatto per arrivare in quello slargo industriale, con quel freddo polare. Invece che neve, cominciò a piovere, pioggia mista a neve, ghiacciata. I due carabinieri stettero per più di cinque minuti nella loro auto, con i fari accesi, le luci che ruotavano come al luna-park. Lei era molto preoccupata; lui molto meno. Quando tornarono, restituendo i documenti, dissero che no, nel parcheggio non si poteva sostare. Era privato, dell’azienda “Quadrotto Srl”. , anche se non c’era un cancello. Andatevene da un’altra parte. Andate a casa, disse l’altro carabiniere, che è notte.

Eugenio, allora aveva 28 anni, con una stempiatura che iniziava in fronte, massiccio ma in forma,  già un pò di peluria sul petto, e qualche pelo che gli spuntava sulla schiena. Una macchia rosa, piccola, dietro l’orecchio sinistro. Sempre in giacca sportiva, o in giacca di lana, calzoni intonati e ben stirati, quella sera non indossò la cravatta, ma il fazzoletto che spuntava dal taschino, a quello non volle rinunciare. Nemmeno alle scarpe nere lussuose che gli erano costate un botto. Aveva una Fiat 127 che andava cambiata, ma si vestiva da figurino. Eugenio, i numeri estetici del discotecaro che cucca, li aveva, a parte l’auto, che contava non poco nella somma delle qualità; poi, faceva il timido, lo scontroso con le commesse, le dattilografe del River Club di Soncino. Non sapeva mai cosa raccontare, figurarsi imbastire un approccio. Come tutti i suoi amici, nessuno escluso, si sarebbe fatto tutte le belle ragazze di Crema, pure in trasferta, giù a Credera, o su a Capralba,  gli andava però quasi sempre buca; ma come i suoi amici, nessuno escluso, voleva innamorarsi. Era anche credente, in Dio, ma non sempre. Certi mesi non saltava una Messa; poi capitava di averne abbastanza delle lodi al Signore, alla Madonna, le pene, il corpo di Cristo, le signore che tornavano dopo la confessione tribolate con le mani intrecciate, lo sguardo basso; ma gli succedeva che in discoteca, la musica a martello finiva per stufarlo; le risate sceme si spegnevano amare, come la schiuma dalla birra, ancora incollata al bicchiere, ma che perde quota. A Eugenio veniva voglia d’inventarsi una fede solida, un Dio presente, amico, un conforto. Qualcosa che non perdesse quota. Non sapeva bene cosa volesse da certi strazi in cui precipitava; tutto era confuso, c’erano dolcezze, urti violenti, discorsi che giravano a vuoto,sentiva che il romanzetto di formazione stava già sfiorendo, senza maturare sul serio. Sapeva essere onesto, generoso; poi capitava che niente sopportava, niente ascoltava, smarrito come il ruggito del mare.

Giovanna Schiavoni, con la sua voce affabile, cordiale, nascondeva ben altro, dei segreti di cui Eugenio era estraneo; anche un orgoglio feroce, se provavi a giudicarla, a puntarle il dito contro. Piccola di statura, tutto in lei, fisicamente, era proporzione. Dio l’aveva creata con una sorta di dosaggio armonico e preciso dei componenti. La statura che era sotto la media, la infastidiva, e per slanciarsi metteva tacchi alti; i Levi’s mostravano forme sode. Una trentenne con una strana e cupa sensualità. C’era dell’ambiguità inconsapevole in lei? Eugenio, poi, pensò questo, anni dopo, quando era riuscito a fatica a cacciare il suo ricordo sott’acqua, spezzoni di lei, il suo respiro, dita, le mani curatissime e gelide come pezzi di ghiaccio. Giovanna in un letto di una casa, in vacanza a Ostuni, non lontano dal mare. E il sangue, quello era sangue che si vedeva sulla fotografia della “La Gazzetta dell’Appennino”. Una pagina intera del giornale, che Eugenio fotocopiò a Sassuolo, in biblioteca. Andò a Sassuolo per due giorni, una notte in albergo. Ci andò mesi dopo che lei era morta, cercando di capire, di scoprire, di rispondere alle continue domande che gli spaccavano la testa. Fu trovata strangolata il 7 luglio 1978. Eugenio avevo visto solo due volte Giovanna (la seconda a Viadana, vicino al ponte sul Po), ma aveva scambiato con lei ore di telefonate, anche di notte. Fu rintracciato dalla polizia, ma dimostrò che quel giorno, il 7 luglio era in ufficio, nell’azienda dove lui lavorava, c’era un collega che poteva testimoniare.

A Sassuolo, Eugenio scoprì poche cose sul conto di Giovanna: il grosso stava scritto sul giornale. Aveva l’hobby della danza, il flamenco; era separata dal marito, Francesco Pasti, che lei aveva denunciato per molestie dopo la separazione. Il tribunale gli aveva intimato di non avvicinarsi più all’appartamento dove la coppia viveva insieme; poi, dopo la separazione ci abitò solo lei, ormai ex-moglie del Pasti, il marito-stalker. Lui, però, aveva un’alibi di ferro: quel 7 luglio era in Svizzera con il camion, faceva l’autista di mestiere.

In vacanza a Ostuni, Giovanna andò con un’amica, c’era scritto sul giornale, ma questo Eugenio lo sapeva, ne era al corrente. Le telefonate tra Eugenio e Giovanna si erano fatte meno frequenti. Capitavano giorni di fila senza  sentirsi. E quando lui chiamava, spesso il telefono squillava, ma lei non rispondeva. Raramente lei richiamava, anche se avevano deciso di rivedersi. Ci vedremo, vedrai, te lo prometto, diceva Giovanna, ma in questi giorni non posso. Quello che Eugenio non sapeva, era chi fosse l’amica, Alessandra Neri. Il giornale mostrava una faccia scarna, capelli cortissimi, un bel volto, ma due occhi spaventati. C’era scritto che era tossicodipendente, aveva già avuto guai con la giustiza per consumo di eroina. Il giornale diceva anche che tra le due donne c’era una relazione. Scovarono delle lettere appassionate dell’amica.

Eugenio fu convocato dal titolare dell’azienda, che con gentilezza fredda  disse che era scocciato:  un suo dipendente coinvolto, pure se di striscio, in una brutta storia: c’era scritto così sul quotidiano di Cremona. Era pubblicità pessima, disse. Ma non lo licenziò. Eugenio non volle sapere altro di Giovanna; ci sarebbe stato un processo, più avanti, ma nel frattempo ci teneva a chiudere gli occhi, a dimenticare. Un amico gli prestò per una settimana la casa in montagna, a Dorga, Val Seriana. Si portò dei libri, ma leggere non riusciva. Passeggiava per ore, per stancarsi e conciliare il sonno, che non arrivava. Continuava a domandarsi di Giovanna, la immaginava nell’auto, non con lui, ma con l’amica, e restava a guardare il soffitto fino a che veniva il chiaro. Dopo due notti così, finalmente la terza notte, intorno all’una, si addormentò di sasso. Si alzò presto. Una colazione robusta; poi, andò nel bosco. Qualche nuvola galleggiava sospesa sulla Presolana. Ma Giovanna chi era?  Ricordò una sua lettera dei primi di giugno. Giovanna si scusava, o s’inventava delle scuse, chissà: sua madre che cadendo si era rotta un  braccio, il telefono di casa difettoso, ma ora è a posto, disse, chiamami quando vuoi. E la frase: “quando ci vedremo ti spiegherò. C’è una questione spinosa che vorrei condividere con te”. Cosa voleva dire con “questione spinosa”? Ricordava il minuscolo tatuaggio che Giovanna aveva sul dorso della mano destra, una piccola croce; lui le aveva baciato il dorso della mano, succhiato le dita; si erano baciati con una certa violenza, e il ricordo ancora lo turbava.

Eugenio raggiunse il centro del paese, nel cielo si ammassavano nuvole nere, il vento fischiava, scuoteva le fronde degli alberi, si approssimava il temporale; un vento che spazzolava l’erba matta, poi taceva di colpo, come se dovesse riprender fiato. Eugenio alzò gli occhi e vide un falco, sospeso nel cielo, come se fosse appoggiato sulla mano del vento, le ali spalancate nel segno della croce. Un istante e il falco era sparito giù in picchiata, verso la montagna, in mezzo a un dirupo.

MARINO PASINI

20 Giu 2020 in Senza categoria

8 commenti

Commenti

  • Una storia intensa di passione, e la donna emiliana ne è l’emblema. L’Emilia che ho conosciuto non era atea perché comunista, ma perché già intrisa di una sua religosità: il sesso. E quando incominciavo ad apprezzare concretamente, che mi fanno i miei genitori? Mi portano via! Ma il sesso pervadeva tutto, e le mura della cantina del condominio di Via Azzura a Bologna dove abitavo e dove i ragazzi della palazzina a quattro piani si rifugiavano lontani da occhi indiscreti ne erano… impregnate?
    Penso che c’entrino in qualche modo gli Etruschi che abitavano la piana, altrimenti perché?
    Certo, la tua storia vera contiene molto di più, eppure di Bologna ricordo questo: ero arrivato bambino anoressico e ne sono partito adolescente grasso, ero abulico e ne sono uscito laborioso per semplice contagio da prossimità, ero arrivato bambino timido, e l’ho lasciata con tanti rimpianti che sapevano di colline in precoce fioritura spiate nella semioscurità, che propio lo volevano che si raccogliessero i loro primi fiori.

    • In Emilia la temperatura sessuale, se misurata, se fosse possibile farlo, direbbe che è terra bollente. Ci metto la mano sul fuoco. Forse anche Adriano, la metterebbe, e la sua mano è più utile della mia. E’ generalizzare, certo ciò che dico: anche in Lombardia ci saranno focolai bollenti. Le eccezioni ci sono sempre. Poi, anche in Emilia esisteranno le persone frigide, o fredde, o astemie, di vino e desiderio sessuale, ma queste qui non le ho conosciute. E tutto, insisto, è una questione privata.

  • Ho dimenticato di ringraziare Francesco Torrisi, redattore e editor che mette i cerotti ai miei svarioni, e forse mi recapiterà per queste storielle noiose tanto, il vinello dell’Istituto Stanga in confezione natalizia di “Cremascolta”. Ma va bene, trinco di tutto.
    Devo il racconto a Cesare Pavese, un rifacimento di “Tra donne sole”, che scrisse vendicandosi di una sua passione “la donna dalla voce rauca”, Tina Pizzardo, torinese, che quando lui stava al confino (cioè in vacanza, secondo Berlusconi, come capitò ad altri antifascisti, mangiando a sbafo) si trovò un’altro, e Pavese ne soffrì parecchio. Un’altro debito c’è l’ho con Goffredo Parise, al cui confronto la mia schifezza scritta impallidisce; il testo di riferimento, pubblicato postumo è “L’odore del sangue”. Parise è stato un grandissimo narratore, Pavese un poeta, e un intellettuale di prim’ordine, ma che amava stare sul lato buio del marciapiede.

    • Marino non mi vergogno di dire che da Franco sono stato incerottato dalla testa ai piedi!

  • Tranquil, Marino, niente “pisarelo” dello Stanga, io socio GasTelleone, bevo l’ottimo Marzemino di Le Spinee (rifacendomi a “Don Giovanni” di Wolfgang Amadeus !) e magari te ne passerò una bottiglia in ….premio!

  • Mi ricollego alla temperatura della terra d’Emilia da te citata. Il tuo affresco è bello perché parla di ardore erotico ma anche di capannoni idustriali. La celebrazione continua della sesualità del popolo emiliano non è disgiunta dalla loro laboriosità e godimento. e per questo mi ricollego agli Etruschi loro progenitori, alle fucine di Festina, attuale Bologna, alle loro messi con le quali aprirono ai commerci con i Greci, e tutto sommato l’inizio della nostra civiltà lo potremmo far partire da lì. Ma restando all’oggi il ricordo forte che ho è di gente allegra, bar e botteghe di barbiere dove si rideva e si schiamazzava (non a caso i terroni del nord, che poi il nord ognuno lo fa partire dal fiume che vuole). Lavoravano tanto, erano poveri, ma si concedevano delle botte di vita in tutti i sensi, non solo sesso, anche cucina, e perché no, un embrione di turismo.
    Un episodio: la mia amichetta del IV piano Robertina era figlia di un muratore, monoreddito, tre figli. Così poveri che quando traslocarono il papà per recuperare dal balcone il filo per stendere i panni passò dal balcone vicino, avendo già restituito le chiavi. Eppure una volta al mese in estate noleggiavano una seicento familiare con autista e pr una domenca andavano al mare! La pasta era rigorosamente, ogni giorno, fatta in casa, e i mitici tortellini e cannelloni, sono la sintesi di economia, laboriosità e opulenza: in fin dei conti uova e farina e tutti i ritagli macinati delle carni più varie, altro che prosiutto o brasato, e anche mortadella, che per questa eccellenza chiamiamo bologna, e tanto lavoro di glutei per tirar la pasta a velo (già, non è un lavoro di braccia, ma di bacino, come il gioco del flipper descritto da Eco per capirci). Che poi questa ginnastica dicevano gli uomini servisse alla loro donne anche come training…
    Bei ricordi mi tiri fuori!

    • L’Emilia l’hai descritta proprio giusta, per quello che è, anche nel nostro immaginario che sempre pesantemente ci mette lo zampino. Sesso, cibo e allegria. Quando salgo le valli bergamasche e bresciane, come l’altro ieri, c’è un’ammasso di fabbriche, fabbrichette, gnari e fonne che sgobbano, capannoni, capannoncini, e mi sa che il sesso, se non sono sovraumani debba venire un pò stanco, la notte. Lo so, perchè quando mi dannavo dal ferramenta a caricare e scaricare bancali, mi addormentavo anche con il giornale del mattino che leggevo la sera, figurarsi con il resto. E poi i lombardi sono un pò scontrosi di loro, mica tanto allegri, e nel cremonese che ha dell’ottimo cibo grasso, se li senti parlare tirano la frase con una parlata stracca, come se fossero addormentati in piedi. Sgobbano da sonnolenti: sembrano afflitti da un lavoro da malavoglia, da pigrizia asiatica, diceva Giorgio Bocca. L’Emilia non è così, e visto che in questo blog c’è chi crede nei dischi volanti, pure nella probabile fine del mondo se diamo l’utero in affitto ai “pederasti”, vien voglia di spogliarsi le scarpe e correre a piedi nudi di là dal confine, oltre Piacenza che è emiliana per decisione politica, e godere del buon vivere reggiano, modenese, bolognese. Gente che ama la vita, forse più di noi lombardi. Viva l’Emilia. Tiè ai bigotti!

  • Bravo Marino, ma si può sempre rinverdire o imitare! Bologna è lì che attende! Vero, ha avuto il primato della violenza notturna; non Palermo, non Napoli, non Roma: Bologna! Forse la grande affluenza ha deviato l’antica immagine di città goliardica, universitaria per eccellenza, in eccellenza dell’eccesso violento. Una volta l’eccesso si esprimeva nel cucire di notte le mutande alla statua del Nettuno (cosa che richiede abilità da commando!), adesso l’eccesso resta fine a se stesso.
    Eppure un giorno che per lavori al Rizzoli ci sono tornato accompagnato da mia moglie e un’amica, e le ho lasciate libere di girare per tutto il giorno, le ho trovate alla sera che avevano gli occhi scintillanti, come bambini dopo il paese della cuccagna.
    Bologna è esplicita, non la devi scoprire, perché non si copre, e se lo facesse, peggio ancora, perché la coperta stessa ha un preciso riferimento sessuale nel lessico brios-erotico.
    Quindi attenzione alle parole!

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