Il 1956 è un anno lontano. Che gliene importa ai giovani nel tempo della pandemia, con un futuro incerto, lavori precari, dei patrioti ungheresi che volevano ritirarsi dal Patto di Varsavia? Cosa importa a un ragazzo che incarta polli fritti in un baracchino di un supermercato, di rivoltosi di oltre cinquant’anni fa, che sognavano uno straccio di democrazia, elezioni libere, non esser più satelliti che giravano intorno all’Unione Sovietica? l’URSS, il sole dell’avvenire? 1956 è la storia di una menzogna che la sinistra comunista italiana s’inventò, costruì, per viltà, perchè l’ideologia andava protetta, a qualunque costo. La rivolta sacrosanta degli ungheresi sull'”Unità”, il quotidiano del PCI fu bollata come “terrorre bianco, banditismo, controrivoluzione, fascismo”. Il direttore del quotidiano, allora Pietro Ingrao, telefonò a Palmiro Togliatti, il capo del partito, perchè aveva dei dubbi, dell’imbarazzo, ma anche Ingrao si sdraiò sulla linea, non provò a scartarsi da ciò che pensavano Togliatti, Amendola, Alicata, Longo, Napolitano. Non tutti accettarono quella menzogna. Antonio Giolitti, Italo Calvino e altri se ne andarono dal partito, per protesta. Il direttore di “Paese Sera” Gianni Rocca, telefonò urlando, in lacrime all”Unità”, dicendo che lui non ci stava a bollare come fascisti un popolo ungherese che voleva un pò di libertà, di democrazia. E lasciò anche lui il partito. Non erano scelte facili, il comunismo era vissuto dai militanti come una religione, una fede intensa, e lo strappo costava.
Nel 1956, in Italia vinsero i viola, vinse lo scudetto la Fiorentina. Firenze impazziva di gioia. Albert Sabin scoprì un vaccino ancora più efficace contro la polio. In Belgio, a Marcinelle morivano 237 minatori, di cui 139 immigrati italiani, al posto sbagliato in un momento per loro letale. Tanti sacrifici per soffocare la propria vita in una dannata miniera. Nessuno a tirarli fuori vivi. Da quelle profondità uscirono solo carcasse, sogni spezzati. Famiglie in ginocchio, che piangevano osservando camionette portar via corpi di un sogno andato marcio. Anna Magnani vinceva l’Oscar per “La rosa tatuata”; e forse mia madre l’avrà saputo, del premio della Magnani dalle pagine di “Confidenze”, da un trafiletto del “Torrazzo”? Mia madre, al cinema c’è stata una volta sola, per vedere “Via col vento”, una domenica pomeriggio. Mi raccontò un sacco di volte, come un disco rotto, che mio padre non aveva un soldo in tasca, e le toccò pagare l’ingresso per entrambi. Non sapeva, lei, di essere stata in anticipo sui tempi: una donna moderna, lavoratrice, sartina, per necessità, che va al botteghino e paga per il fidanzato, ancora in prova alle officine Lancini. Brigitte Bardot, quell’anno cominciò la sua avventura sugli schermi, lanciata da Roger Vadim, rincorsa da una cinepresa, oltre che già da nugoli di maschi che le giravano attorno come moscerini: una ragazza slanciata di una bellezza che la gioventù rende spavalda, e non ancora con nugoli di cani e gatti che le gireranno attorno sul viale del tramonto, il volto come la corteccia di una quercia, appesantita e stanca di tante faccende.
Il 23 ottobre del 1956 i carri armati sovietici entravano in Ungheria, e non solo per rimettere in piedi le statue abbattute di Stalin, ma per soffocare il primo esempio di socialismo democratico sbocciato nell’Europa dell’Est.
Ferenc Puskas aveva 29 anni quando morì per la prima volta. Aveva la stazza di un boxeur, corpulento, roccioso, piuttosto che l’agilità prevista per un attaccante di football. Era cresciuto a Kispest, allora periferia, prati, un sobborgo di campagna alle porte della città, di Budapest. Oggi, Kispest è parte della capitale, ci arriva la metropolitana; le fotografie mostrano parcheggi e condomini, palazzoni alti undici piani e più, i tetti piatti, un pò di verde attorno per inverdire i contorni, stemperare il grigiore. Il padre di Ferenc fu un buon calciatore dilettante, e spronava il figlio. Abitavano vicino allo stadio del “Budapest Honvéd”, una squadra di calcio della città. Honvéd, in ungherese significa “difesa della propria terra”. Una faccenda da far buttar fuori il petto, oggi, ai populisti ungheresi, che sul mito Puskas ci ricamano. Puskas apriva la finestra di casa e davanti aveva uno scorcio della tribuna dello stadio. Per allenarsi, a volte, correva per andare o tornare da scuola, per prendere il tram. Gran mangiatore fin da ragazzo, con quel fisico robusto, pareva non adatto a giocare come attaccante; invece, quando partiva con la palla al piede, difficile tenergli testa, e i marcatori a uomo, li saltava con facilità. Li lasciava in bambola.
Ferenc Puskas, ancora molto giovane, fu chiamato in nazionale, e in breve tempo divenne il più apprezzato goleador ungherese. Nel 1953 contribuì a battere l’Inghilterra per 6 a 3 in un incontro decisivo. Fu l’incontro del secolo, per l’Ungheria, Puskas fu portato in trionfo da tutta la squadra. Gli dedicarono persino un francobollo, per quella partita.
Ma quando l’agenzia France Press (AFP) annunciò che Puskas, il più grande giocatore, il Dio del pallone, il “booming canon”, perchè quando sparava bordate contro la porta, “bucava” la rete era morto, furono molti a Praga, Sofia, Berlino Est, a restare in silenzio, ammutoliti. Puskas ucciso dalla polizia, o da un colpo fortuito durante la rivolta di Budapest nel ’56. La notizia rimbalzò su molti giornali in Occidente. Le migliaia di persone che in Europa dell’Est ascoltavano segretamente “Radio America” ascoltarono la notizia della sua morte. Una classe liceale di Berlino Est all’ultimo anno, vicini al diploma, decise di restare in silenzio, in memoria di Puskas, e in solidarietà dei rivoltosi ungheresi, durante una lezione di scuola, rifiutandosi di rispondere alle domande dell’insegnante di letteratura tedesca. Venne chiamato il preside, la faccenda divenne seria, diversi alunni di quella classe furono espulsi dalla scuola. Sul socialismo democratico si poteva discutere, ma che Puskas fosse morto durante gli scontri, era inconcepibile. Pareva che il calcio, senza di lui dovesse sopportare un lutto intollerabile.
Ma anche allora giravano le “false notizie”. Puskas era con la nazionale in giro per l’Europa per una tournée di partite amichevoli. Il 28 ottobre, Puskas e Jozsef Bozsik scesero dal treno a Budapest e sentirono improvvisi colpi d’arma da fuoco. “Fu inquietante”, ricorda Puskas. “Nessuno in giro. Quando cessavano gli spari, Budapest sembrava morta. Camminammo a piedi in un silenzio pauroso. Ero riuscito a procurarmi due chili di pane da portare a casa. Quando arrivai davanti all’abitazione mi accolsero come se fossi un risuscitato. Telefonai a un giornale ungherese per avvertire che ero vivo e felice per la rivolta. Fuori casa, poi, quando si seppe che non ero morto, furono in molti che uscirono di soppiatto dalle abitazioni per salutarmi. C’erano corpi di morti per strada, anche qualcuno appeso agli alberi, con un cartello addosso”.
I rivoltosi ungheresi, come in ogni rivolta, in ogni guerra civile, si erano vendicati di anni di soprusi, torture, omicidi da parte della polizia politica, fucilando qualche aguzzino, e affibbiandogli un cartello per ricordare cosa aveva fatto e di quali delitti si era macchiato. Furono pochi, gli episodi di giustizia sommaria, raccolti da giornalisti ch erano sul posto come Indro Montanelli, Jean-Pierre Pedrazzini di “Paris Match”, John Sandovy “Life”. Bastarono qualche fotografia della giustizia sommaria, che certamente ci fu a scatenare la stampa comunista occidentale, quella francese e italiana in testa, che gridarono titoli in prima pagina per accusare “il terrore bianco anticomunista”. La borghesia, i partiti conservatori dell’Occidente applaudivano i rivoltosi, e ciò Togliatti, e i puri e duri comunisti francesi non potevano tollerarlo. I rivoltosi ungheresi dovevano essere manovrati, una congiura orchestrata da parte dell’America, il nemico numero uno del proletariato.
Quando la rivolta ungherese fu schiacciata dai carri armati sovietici, la nazionale ungherese, che era la più forte in Europa e aveva già collezionato trofei prestigiosi, si trovava all’estero. Puskas e compagni, a differenza del popolo ungherese godevano di molti privilegi, avevano soldi in tasca, e venivano tenuti sul palmo della mano dal governo. Non c’era torneo a cui non fossero invitati, fuori dall’Ungheria. Una parte della squadra tornò in patria, Puskas con altri quattro decise di non rientrare in Ungheria. Contattò la moglie, per vie traverse, e le disse di far le valigie in fretta. La moglie di Puskas, Elisabeth, e la figlia Aniko raggiunsero a piedi il confine austriaco e lo superarono. Puskas con tutto il denaro che poteva disporre e che riuscì a ritirare dalla banca ingombrò le tasche e la borsa da viaggio. Nel frattempo, la Federazione calcistica ungherese richiamò urgentemente tutti i giocatori della nazionale rimasti all’estero: dovevano tornare immediatamente in Ungheria. Oltre ad essere nazionali di calcio, Puskas e altri compagni di nazionale appartenevano al team dell’Honvéd, che era la squadra dell’esercito, i giocatori di quella squadra tutti militari, con tanto di gradi e stellette. Se Puskas, che stato promosso maggiore, non fosse tornato in patria poteva essere accusato di diserzione, anche di condanna a morte. Un manager della Federazione fu mandato a Bruxelles per incontrare la squadra, convincere quelli che non volevano tornare in patria, e risolvere la faccenda. L’accordo non si trovò. Puskas volò in Italia. Kocsis e Czibor, andarono in Spagna, al Barcellona. Quelle facce di zappaterra, di nasi schiacciati, di colli larghi e gambe d’acciaio “avevano tradito la patria, il comunismo, avevano scelto il nemico”, dissero i giornali comunisti. La polizia segreta tornata a torchiare gli ungheresi cercò d’intercettare la moglie e la figlia di Puskas, che dopo Vienna e vari passaggi clandestini riescono a raggiungere Milano, dove la famiglia si ricongiunge. “Le bande controrivoluzionarie vengono costrette alla resa dopo i loro sanguinosi attacchi” titolerà “L’Unità”.
Oggi, Puskas che di origine era svevo-tedesco, è un’icona ungherese sventolata dal Premier Viktor Orbàn che pasticcia con la storia d’Ungheria per uso e consumo personale e politico. E l’Ungheria vive un’altro sopruso, la libertà e la democrazia ridotte come i lumini per terra alla vigilia dei morti. il 1956 non è servito a niente. Fuochi, fiaccole o lumini, pure gli ombrelli: il desiderio di libertà, democrazia si accende sempre quando a dominare sono i soprusi, gli impostori, i dittatori.
Commenti
Il limite incerto fra testimonianza diretta e conoscenza storica è quanto di peggio. Certo, io c’ero e tu no, ma di questa cosa, anche se ero quel bambino frastornato di cui recentemente ho parlato, mi sarà arrivata notizia, me e dovrei ricordare come mi ricordo della tragedia della miniera, eppure tutto sfuma.
Quindi grazie per aver riempito questo vuoto, e ai paralleli ci penserò con calma.
Anche io, c’ero, amici miei cari Adriano e Marino, e , non per merito, ma per ….anagrafe, qualcosetta in più me la ricordo, anche se solo ….”di sponda” (avevo 13 anni!).
Il Paese era ancora …. fresco di Liberazione, il Piano Marshall ci aveva permesso a tutti quanti di comprare la pasta all’UNRA, la divisione tra “scudo crociato” ( dal pulpito: “votate un partito che sia democratico e cristiano” e quindi, con Totò ….”è la somma che fa il totale”!) e “falce e martello” era davvero netta, e Guareschi sul “candido” i comunisti li disegnava “trinariciuti”!
Noi ragazzi alla domenica pomeriggio si andava al cinema dell’oratorio, a rimpinzarci di “film di indiani” dove i coloni sui carri in cerchio, sparavano ai “musi rossi”, selvaggi che volevano “scalparli”, fino a che alla fine, ta/ta, ta/ta, ta/ta/ta/ta, arrivava il terzo cavalleggeri e ….tutti in piedi ad applaudire!
Quello che accadeva in Ungheria era filtrato dalla famiglia, dalle notizie al giornale radio, dalla parrocchia, y nada mas! Pochetto per capirci davvero qualcosa.
Puskas e DiStefano (la “saeta rubia”, si perchè Puskas, era approdato poi alle casacche bianche del real Madrid, ironia della sorte! ci avevano ancora il Re e il Caudilljo!) quelli no, quelli facevano parte della leggenda vivente del Calcio, delle figurine Panini (ga l’ho/gal’ho/gal’ho mia!) dei calci alla palla di pezza e ….agli stinchi, con i ginocchi sempre sbucciati, assieme alla Bartali (democristo) e Coppi (comunista)! nell’altro sporto nazionale, da poveri cristi: il ciclismo!
E Marino, al solito, magistralmente ci butta li i suoi tranche de vie, che ….”.mi son sentito/qui dentro/bruciare perchè/ ma alura gavevi vint (prendo a prestito da Jannacci “per un basin”, ma nella fattispecie “tredes”) an”, e la voglia è di ….buttare nel cesso tutta sta cazzo di informatica e ritornare al ….. Diario Vit con annessi Signora Carlomagno e salami, salami, salami!!
Ringrazio Adriano e Francesco. P Ferenc Puskas, che di cognome faceva Purczeld, ma il padre di etnia tedesca decise nel 1937 di modificare il cognome all’ungherese; fu previdente, in anticipo sui tempi; forse intuiva, i semplici hanno un intuito sviluppato, che vivendo in Ungheria, i foresti sarebbero stati malvisti, come oggi accade nelle terre dove il populismo detta legge.
Fu mio padre a parlarmi di questo magnifico attaccante, Ferenc Puskas. Mi trascinava alle partite tristissime del Crema in serie D, o più in basso ancora, scarso pubblico, partite di calcio con la Trevigliese, il Darfo Boario, il Pisogne. Il poco pubblico teneva le radioline incollate alle orecchie per seguire “Tutto il calcio minuto per minuto”, e capitava che se l’Internazionale di Helenio Herrera segnava un goal si sentiva un boato allo stadio di Crema. I giocatori in campo si giravano verso i gli spalti dei tifosi, la palla mica era entrata in porta!
Così mi restò appicciato il nome di questo giocatore ungherese, di cui sapevo niente. Ma la rivolta ungherese del ’56 mi appassionò, e nel tempo ho raccolto un pò di materiale, per farci cosa non sapevo, e per chi poi. Di libri in circolazione ce ne sono, di reportages tanti e notevoli.
Durante l’isolamento per la pandemia mi capitò di vedere un film tedesco, con sottotitoli in spagnolo “La Revoluciòn Silenciosa”, credo mai distrbuito in Italia, un ottimo film, che parlava di una classe liceale tedesca, di Berlino Est, una storia vera, studenti che avevano deciso di scioperare in classe, durante la rivolta ungherese. Pochi minuti di silenzio, durante una lezione, di cui accenno nella storiella che ho scritto.
Nel 1956, le menti migliori del comunismo europeo se ne andarono, stracciarono la tessera comunista. E fecero bene. Come si poteva tollerare la menzogna che girò sui giornali europei della sinistra comunista? Non si poteva. Ma i dirigenti del partito di allora, tra cui Giorgio Napolitano, Enrico Berlinguer, Gerardo Chiaromonte, Alessandro Natta, Pietro Ingrao, Palmiro Togliatti, vergognosamente plaudirono all’invasione dei carri armati sovietici in Ungheria. Non credo che questa cosa pesi, o abbia pesato sulle loro coscienze. Ignazio Silone, un bravo scrittore e onesto politicamente criticò duramente il Patto Hitler-Stalin del 1939. Silone fu insultato dai comunisti italiani, cacciato dal partito. E anche per questi motivi, ricordando uno lungimirante come Silone, non ho mai votato comunista, ma in più occasioni socialista, (eccetto una volta radicale, e un’altra il Partito dei Verdi) nonostante la presenza di un personaggio come Craxi e la sua corte.
Marino, stai dimostrando di avere non solo qualità narrative, ma anche qualità di storico: uno storico attento alle “persone”, ai “tabù” del periodo, uno storico dall’approccio, possiamo dire, “antropologico”.
Sei bravissimo a ricostruire l’atmosfera e l’umanità dei personaggi.
Prima o poi, dovrai cimentarti con tuo libro: no?
Piero, tu hai una bella qualità che è l’umiltà, incoraggiare gli altri. Una qualità nel mondo intellettuale, metropolitano o provinciale che è rara come trovare l’oro setacciando i fiumi, pure quelli seri.