La memoria di Ermanno non era in fila, in ordine, come le schede a sacco del suo cassetto al reparto contabile. Le etichette in stampatello rispettavano l’alfabeto. Banche, bilancio, cassa, finanziamenti, ratei. Nella testa di Ermanno l’ordine era solo apparente, una maschera, certi ricordi vigliacchi gli si mescolavano come il mazzo di carte per la briscola, prima della partita. Qualcosa aveva smosso il fondo e la polvere, dove stavano quei depositi appesantiti dal tempo trascorso, e il ricordo di Anna gli tornò a nutrire, inaspettato, le questioni spinose irrisolte, anche se ormai era cibo buono solo per i piccioni. Di anni ne erano trascorsi tanti, troppi. Non sapeva più se Anna intrecciava le doppie punte dei capelli, un pò sfibrati, con l’indice della mano destra; non sapeva, non poteva dirlo se baciava, ancora, succhiando il labbro inferiore, poi sfiorandolo con la lingua, o se le piace raccontare a suo marito, perchè certo sarà sposata, i piccoli guai della giornata mentre fa l’amore. Chi può dirlo? Le cose, anche, cambiano. Noi, e cambiano i compagni di vita. Ma le abitudini persistono, e questo disturbava il pensarci di Ermanno. Come il ricordo di quel pomeriggio, in Porta Romana, alla Libreria del Giallo, il posto dove si erano incontrati per caso, e curiosando tra i libri si sorpresero a parlare di Raymond Chandler, Dashiel Hammett. Avevano letto gli stessi libri, e Anna conosceva pure un romanzo di Cornell Woolrich, Si parte alle sei, che Ermanno si portava in tasca pure al lavoro, letto e riletto più volte. Per Ermanno, sembrava che tra loro due ci fosse una strana improvvisa magia, come un’inaspettata vincita alla lotteria. Fuori dalla libreria restarono ancora un pò, a parlare dei loro autori preferiti, poi camminarono insieme, e lei lo sorprese invitandolo a pranzo, in Via degli Orti, alla trattoria da Oreste. Anna studiava economia aziendale; Ermanno lavorava come impiegato, amava i gialli e suonava il sax, il sassofono baritono, era matto per il jazz. Diventarono una coppia. Dopo un mesetto dal loro primo incontro, Ermanno che abitava a Crema, mentre Anna stava in affitto con altre due studentesse in un appartamento in una laterale di Porta Romana, si dettero appuntamento alla Libreria del Giallo, dove si erano visti la prima volta. Quando lui arrivò nel Corso, molto in anticipo, non trovò più la Libreria, ma al suo posto un bar, Piccolo Bistrò, quattro o cinque tavolini all’aperto. Era primavera inoltrata. Qualche rondine saettava come Stukas in picchiata. Le telefonò. – Anna, non c’è più la libreria, ma un bar al suo posto, arrivi? – Lei era in ritardo, sempre lo era, disse che stava per arrivare, che il bar andava benissimo, potevano prendere un caffè.
Non sapeva come, ma Ermanno ricordava la luce di quel pomeriggio il rumore del tram, il traffico sul Corso, persino il suono delle campane della chiesa. Milano, a Ermanno piaceva molto. Pensava di trasferirsi, a Milano, voleva costruirsi un futuro, anche per il jazz, faceva finta che non ce l’avesse già, ma continuava a rimandare. Milano: certe persone hanno scritto in fronte chi sono, i bauscia col parrucchino e i capelli nero pece, che a settant’anni si vantano di aver visto il Milan a San Siro seduti, poche scragne dietro al Berlusca, poi al dopopartita tra un rigore che non era rigore, prendersela con le tasse e gli zingari; ma i torinesi si sbagliano. Milano non è un concentrato di brutta periferia, lusso e superficialità. Milano la si scopre piano piano. E’ chiese appartate in piazze che quasi le voglion nascondere, è giardini silenziosi nel soffocare del traffico; una città che non ti guarda in faccia, ma può pesare le qualità. A Ermanno piaceva vedere gli studenti sciamare fuori dalla Statale, la Cattolica, parlottare nei chiostri, come ciuffi di fiori, mazzetti di vita che si offriva all’aria. Nella cittadina di Ermanno, non la passavi liscia, se ti davano un ruolo, non te lo scrollavi neanche a cambiare la pettinatura.
-Finalmente – disse Ermanno. Anna arrivò a passi veloci e si sedette di botto a un tavolino all’esterno del Piccolo Bistrò, respirando forte. – Scusa, ma ero al telefono con mia madre, mi stava raccontando dei problemi dell’acciaieria di papà. – Anna aveva indosso una camicia bianca con il bavero rialzato, infilata dentro a jeans attillati. Intrecciò le gambe e poi con un sorriso stronzo le spalancò a fisarmonica, per tirare il fiato o per farsi perdonare, chissà, venti minuti di ritardo per Anna era la norma, che Ermanno se ne facesse una ragione. Incominciarono a raccontarsi, Ermanno della sua band che suonava ai matrimoni, e forse si aggiungerà un pianista, uno bravo, e pensava di chiedere al Bistek, di Trescore, per il jazz del lunedì, fare un vero concerto. Anna gli diceva dei suoi progetti, una casa in campagna, le galline, voleva anche una mucca, libera, senza la condanna di esser schiava del latte, che le fa morire prima del tempo. Intanto lei lo canzonava, gli scuoteva il ciuffo che cadeva sugli occhi di Ermanno, un pò arretrati, cerchiati e caricati di scuro, d’insonnia aggiunta, neanche che fosse stato testimone di qualche spavento ormai fossilizzato, in una tristezza d’infanzia. Lei gli dava dei colpetti ai fianchi, come fanno i boxeurs, per costringerti ad abbassare la guardia. – Sei fissato con il tuo jazz, disse lei. -Perchè non lo suoni qui? Sì, perchè Ermanno si era portato il sassofono a tracolla. Lo portava spesso quando s’incontravano; anche perchè era stupido, e dimenticava i profilattici, ma Anna, che era previdente, di profilattici ne aveva sempre un paio nella borsetta. -Sai, Ermanno, stavolta li taglio. – Taglio cosa? rispose lui che stava pensando se suonare o no in quella piazza, seduto al tavolino, la gente che passava, il rumore dei tram. – Mi faccio da maschio, con capelli cortissimi, – e staccò la mano intrecciata nelle doppie punte, per sfiorare un capezzolo sulla camicia azzurra di Ermanno. Anna era una ragazza già donna. Si uniformava alle regole sociali in gruppo, e non si era persa niente del percorso di educata crescita: mai uno screzio a scuola, un ritorno a casa con in corpo bicchieri di troppo. Ma nell’intimità complice, era di una sensualità spinta. Consapevole. Poteva cuocere chiunque e poi impiantarsi in silenzi rocciosi. Anche con Ermanno non si poteva mai dire come andavano gli incontri. Poteva scappare un litigio, così, senza alcun preavviso, una ragione. Ermanno voleva con lei una storia in pianta stabile, ma la loro passione fu alla fine breve, fuggevole. Ma in quel pomeriggio d’estate, Ermanno pensava solo se fosse il caso di suonare qualcosa, anche per ischerzo, per farla contenta. Anna per lui era un dono, un piatto di nespole che voleva depositare nel tempio che Ermanno si era costruito con getti di malta, un forato dopo l’altro, un muretto quasi diritto, un giubileo, ore entro cui Ermanno aveva rovesciato il suo salvadanaio di monete d’argento. Ermanno non sapeva che quel tempio si sarebbe crepato, andato in frantumi, sbriciolato.
Cominciò a suonare le prime note di “Round Midnight”, ma venivano strane. -C’è troppa luce. Senza il buio il jazz stona, fa schifo. -Fai il prezioso, disse lei. – Il jazz ha bisogno della notte, è suono di città, del malessere, della gente sola che vaga sperduta, senza sapere dove andare. – Ecco, aveva parlato come un libro stampato, un vizio di Ermanno, che Anna mal sopportava. Anna s’irritò e si alzò in piedi. -Sei un musone, disse, e non stava ridendo.
Ermanno scardinò il ricordo di Anna con la furia che prende quando si rovistano i cassoni di vecchie fotografie e lettere, alla ricerca di una chiave, un perchè. Ermanno non era granchè come sassofonista, e se partiva con il dizionario parlato, si sarebbe tappato le orecchie pure quel comunista che prima delle elezioni locali passava e ripassava per le vie della cittadina, e con il microfono a braccio tuonava contro il capitalismo, i padroni. Così, Ermanno aveva poi bruciato tutto, imparò a parlare asciugato, e ora bianco di capelli, sapeva pure qualche barzelletta e fischiettava canzonette. O forse era stata la sera alle Rosse, in corso Garibaldi, a rovinare tutto? Lui aveva insistito perchè era l’unico concerto italiano di Lee Konitz, e mentre mangiavano il risotto con il locale pieno, stracolmo, gente in piedi che guardavano nel loro piatto, Anna era nervosa, si capiva che lì dentro soffocava. E fu a bruciapelo, che Anna gli chiese, proprio mentre Konitz suonava “A Night in Tunisia”, – Stai con me per il mio corpo, o per come sono dentro? Una domanda carogna, in quel momento, Lee Konitz mai visto prima, a meno di dieci metri da lui; Anna quando era irritata, si faceva intrattabile; ma Ermanno doveva concentrarsi, masticare il riso, e trovare una risposta adeguata. -Per tutte e due le cose, -rispose, convinto di averla scampata, detta giusta. -Sei un bugiardo e uno stronzo. – Anna si alzò, si fece largo, e uscì dal locale. Lo piantò in asso, proprio la sera di Lee Konitz.
Ermanno terminò di suonare. Al Bistek, la decina circa di spettatori, applaudì senza convinzione. Il contrabbassista disse a Ermanno: mi affretto, e aveva ragione: abitava a Brescia, c’era strada da fare, fuori era buio, un freddo cane. Fu intorno a mezzanotte che vennero giù i fiocchi di neve, tanti, che s’appoggiavano sull’asfalto come se la pavimentazione stradale fosse un materasso, ci fosse gente a dormire, e non una colata di bitume nero. Nevicava nella notte come se almeno il cielo volesse dir grazie a quelle schiappe di Ermanno e friends jazz band, che andavano bene pure le note sbagliate, gli accordi scordanti. -Via, via – disse Fiorenzo il batterista, che sparì con la sua Mini Minor. Ermanno restò ancora un paio di minuti a guardar cadere la neve silenziosa, a fumarsi una sigaretta. Pensava all’estate, che sempre viene l’estate, annunciata dai tulipani, che gli piacevano, fiori ingenui, accoppati dai diserbanti, e quei tulipani che la scampavano, schiaffeggiati dalle auto in corsa. Non serviva rimestare le vecchie canzoni, le casette in Canadà, gli anni, i bottoni strappati e poi ricuciti.
Commenti
Non fosse che per l’atmosfera Jazzistica (Night in Tunisia, Round midnight, Lee Konitz, Il Bistek) mi sono gustato il tuo racconto breve, come sempre, ritengo, a base autobiografica!
E la poesia tristemente coinvolgente della conclusione con quel “via, via” (l’omaggio a Paolo Conte ti fa solo onore!) nella “casa del Jazz ne noijartri”, fumando una sigaretta (io non fumo, ma ….capisco!) con fuori la neve che scende, è finale che non ha niente da invidiare al finale di …. Casablanca. Bravo Marino!
Mi scuso per una cioppata, neanche l’unica: intendevo i papaveri, non i tulipani.
E’ si, di questa non mi ero accorto Marino, fuorviato come sono stato dai miei di tulipani, con i bulbi interrati a tardo autunno e che spuntano ad annunciare si, ma ….. la primavera!
Ti ringrazio Francesco, perchè so che a te il jazz piace, e muove il sangue nelle tue vene. Volevo ricordare Lee Konitz, morto ad aprile di coronavirus. Volevo scrivere qualcosa che riguardasse anche la mia storia, che logicamente non importa a nessuno, ma chi scrive, pure da schifo, anche se parla dei dischi volanti, o disegna a spanne il futuro dell’umanità è sempre influenzato dai suoi tic personali. Dai cattivi o buoni rapporti con i figli, se li hanno, con la propria dolce o amara metà, il compagno o la compagna di vita condivisa. E’ tutto una questione privata, anche se fai finta di non darla a vedere, e citi il filosofo antico, più vecchio di Belzebù, prrendendola larga. E più di tutto, questa roba di racconto breve è l’amore per una cosa mezza trapassata, con un piede nella fossa, il jazz, che è libertà, musica che non sopporta i confini. I muri. Il jazz non sopporta i fascisti, i nazionalisti, i gradassi, gli ottusi. E’ musica che si mischia, senza paura, e non sopporta i tiranni di qualunque colore.
Con questo caro Marino annulli il divario delle nostre età ed esperienze: mi saldi al periodo in cui vissi a Milano con un amico e me ne andavo in giro la sera ad ascoltare musica. Già, avevamo deciso che l’Università è una struttura diffusa, come diremmo ora, e visto che degli amici ci mettevano a disposizione un appartamento vuoto con le reti senza i materassi e con il tesserino si mangiava in mensa per quattro lire, fatto il pieno alla Mini con la benszina di contrabbando, rossa-rossa, di cui si portava da pazzi dietro una seconda latta, perché costava la metà del distributore, anatomia la preparammo a Milano. Così era, come esce dalla tua penna.
Ooooh, amici miei, qui tra voi sto davvero bene!
Il mio incontro col Jazz è avvenuto ….di sponda, attraverso i dischi, quei bei padelloni di vinile presi da Gianvi (a dire il vero li comperava Biagio, ed io li ascoltavo da lui!) nel negozietto di via Mazzini, dove stazionava ospite fisso “Pusal”, che …..”Coltrane, l’è trop cerebral!”, con un unico ascolto “dal vivo” alla “Gioventù musicale” nella sala del Folcioni, quella con l’organo dietro, con il “traditional” della “Milan College”!
E poi è arrivato il “Modern” con “Fontessa che riusciva anche a farti andare d’accordo con mamma Iris (bacio!) e la signora Francesca (la mamma di G.Franco, l’amico del cuore!) e poi Gerry Mulligan ed il suo concertone al Manzoni, a Milano, con una grande orchestra Jazz che suonava ….. con gli spartiti!
E da assessore (erano gli ’80!) sono riuscito a togliermi lo sfizio di portare il grande Manusardi alla palestra del pergoletto e di riempirla anche, a pagamento, costo zero per l’assessorato!
Si, Marino, il Jazz “…..jazz, che è libertà, musica che non sopporta i confini ” !
Amo il jazz!
Guido Manusardi, rispondo a memoria, Mario Piacentini, e il cinema di Woody Allen, nonostante la brutta storia che getta una lunga ombra su di lui, il jazz sempre presente. Il ragtime, lo swing, le orchestre, il jazz che si contamina con la bossanova, il blues, le perle al pianoforte di Bill Evans, la tromba strozzata di Chet Baker. C’era un tempo che se andavo all’estero cercavo il buco, il locale intossicato di fumo che faceva jazz. A Milano c’era il Capolinea, locale storico, in Via Ludovico il Moro, e non lontano l’Isola Fiorita, dove Tiziana Ghiglioni, Laura Fedele ci mettevano la voce. Alle Scimmie di Via Ascanio Sforza, capitava Emilio Soana alla tromba.
A Crema c’è gente seria come te, Francesco, come Adriano che ha chiuso gli occhi e puntato il dito venendo a Crema, ma poteva finire a Lecco. E Piero Carelli, lo cito anche per cognome, perchè è un intellettuale serio e la cremaschità, lo dico, gli sta stretta, e meriterebbe un’altra platea, dove gli stimoli sanno seminare e fermentare e creare querce robuste e scambi fra le persone. Al Bistek, un lunedì c’era, a memoria, Tino Tracanna al sax alto, Claudio Angeleri, Paolino Dalla Porta al contrabbasso e suonarono per due ore, nonostante lo scarso pubblico del paesone che siamo, incluso i dintorni, perchè si allenarono per un concerto in una città più grande, da farsi qualche giorno dopo, e la registrazione del Bistek finì su Radio Tre.
Caro Adriano, prima o poi dovresti e potresti regalare racconti della tua movimentata gioventù, e storie d’ordinaria medicina, perchè le storie personali sono la Storia collettiva. Nel decalogo dei grandi giornali americani, ogni fatto collettivo parte da un angolo singolare, una piccola storia privata. L’età universitaria, quell’età giovanile mischiata di speranze e illusioni….conta molto, per chi ha avuto fortuna di frequentare un ambiente studentesco, che sia a Milano, Torino, Genova, Padova, o Bologna. Poi, è nata la mania del decentramento, e c’è mancato poco che pure a Mondovì nascesse una minifacoltà universitaria, perchè tutte le cittadine volevano qualcosa, un blasone, un corso per cui organizzare un convegno comunale e dire alla popolazione: anche noi abbiamo l’università! Senza campus, la sera a giocare a tresette con il morto nell’unico bar aperto nella piazza. A Mondovì.
Ciao Marino. Mi stuzzichi con l’incitazione sulle mie storie! E in effetti l’ultimo libro che ho pubblicato, “Storia e memorie dell’epopea medica” Aletti editore 2017, è composto in modo del tutto nuovo: la storia parte dal paleolitico con le perforazioni craniche, e va avanti fino al futuro. Per ogni tema c’è la relazione tecnica, un brano letterario inerente, commentato, mio, altrui, pezzi di autobiografie, diari… e poi un ricordo personale di cura di quella malattia, di sopralluoghi sul territorio dei fatti, cose strane, a volte mezze avventure estere. Nella casa del chirurgo di Rimini ad esempio ho ritradotto il graffito di un paziente sul muro, per scoprire… che la storia della Medicina tramandava una bestialità!
A parte un primo premio vinto a Roma per la saggistica non mi sono curato di “spingerlo” perché sono stufo di chiedermi ancora se la sala sarà piena o no e tutto il pandemonio per organizzare. Mi è capitato di avere gente fino in strada come di parlare avanti a sette-otto persone. Se mi dici come fare te lo regalo. Magari ci vediamo a un bar.
Grazie, Marino, per gli apprezzamenti (incoraggiamenti) ai non più giovani come noi.
Quello che posso dire è che tu hai talento da vendere. E da vendere a una platea ben più vasta!
Caro Piero, per essere uno scrittore vero, come tu sai, bisogna avere la grammatica, prima di ogni altra cosa. E non ce l’ho. Più che di scrittori, in Italia, mancano i lettori. E l’umiltà, il guardarsi allo specchio non deve mai mancare. Non smettere di studiare, di leggere. I falegnami, per esempio, il legno lo lavorano sempre. Anche la festa. L’editoria è zeppa di mediocri che si vantano di essere scrittori. E di buoni lettori, di acquirenti di libri, in Italia, ce ne sono pochi. I populisti, che da noi non mancano, preferiscono i go-kart ai libri, o le gare di Formula Uno. Forse bisognerebbe, per chi scrive, imparare a dare una mano di malta ai muri, cambiare le maniglie scassate alle finestre; gli elettricisti a leggere Proust; i contadini, la sera, prima di coricarsi, dedicarsi al “Mondo dei vinti” di Nuto Revelli, che li riguarda. Ostrega, sarebbe un’altra Italia. Così anche la politica, forse, sarebbe una faccenda seria.