Salì a Rovato, un treno regionale veloce che portava a Venezia. Capelli grigio sporco, unti, color del cielo di un fine agosto eccezionalmente afoso. Una quarantina d’anni d’uomo, di stazza notevole, calzoni tenuti su da bretelle che sembravano tiranti, la pancia che pareva gonfia d’acqua. Trascinava due borsoni carichi e ansimava. La carrozza era semivuota; ben per lui che quando si sedette teneva da solo due sedie per chiappa. Depositò le borse e respirò, profondo, a bocca aperta. Come un pesce fuori casa. Il sudore gli colava dalla fronte e trovava strada ai lati delle guance, scendeva curvando sul mento e lì s’incontrava, sgocciolando sui calzoni. Di tanto in tanto s’asciugava con un fazzoletto già umidiccio, una passata sul doppio mento e la faccia, e poi, una ripassata sul collo. Allungò le gambe; i piedi erano gonfi, le stringhe delle scarpe slacciate. Prese un’espressione seria, lavorativa; tirò fuori dai borsoni dell’Esselunga decine di DVD, filmcassette e li ordinò, in precario equilibrio verticale. Visconti con Visconti; il cinema francese della Nouvelle Vague; i russi; il cinema western; gli americani che piacciono agli europei. A Brescia salirono forestieri di pelle scura con altri borsoni. E se a Verona, i passeggeri diretti a Venezia avessero poi riempito la carrozza, e chiesto a Cecco Pedrinazzi di spostare quell’armamentario del cinema mondiale? Lui l’avrebbe fatto, con pazienza, i suoi tempi. Di carattere era dolce, non era malmostoso. Tanto aveva fatto l’abitudine: la gente gli stava alla larga; forse Cecco puzzava: il sudore d’estate gli fermentava addosso, ma non era del tutto una sventura, per lui, perchè quell’odore, forte, teneva lontano gli imbecilli, che di cinema non sanno niente. Cecco Pedrinazzi non si poteva dire che avesse un mestiere vero e proprio, a dirla tutta. A chi glielo chiedeva rispondeva che era commesso viaggiatore. Viveva da solo a Rovato, un trilocale al quarto piano, lasciato dai genitori, entrambi deceduti. Trasformò il salotto in una saletta cinematografica: un grande schermo, persino una cinepresa usata acquistata a Roma, che dava un che di professionale all’ambiente di casa. Ai festival del cinema di Roma, Torino, Bergamo, lo vedevano arrivare con i suoi borsoni carichi; lui che si appostava vicino alle biglietterie dei cinematografi, con filmcassette nelle mani, comportandosi come gli strilloni dei giornali. Ormai, la truppa dei cinefili lo conosceva. L’autorità giudiziaria, già due volte lo denunciò per vendita illegale di filmcassette. E così si era industriato a smerciare cinema video al telefono, sui treni, che per lui era l’altra passione, oltre le pellicole, il grande cine. Andava matto per le rotaie dei treni, i paesaggi che correvano, che cambiavano, s’ingobbivano sui colli, e di nuovo s’apparecchiavano in altre pianure: case, capannoni, città, e le stazioni ferroviarie. Apriva il suo taccuino-agenda e telefonava. Teneva clienti un pò ovunque. Una signora di Pordenone collezionista di cinema muto sovietico, lo schiaffeggiò l’anno prima davanti alla Sala Grande, a Venezia, perchè per sbaglio, Cecco le aveva rifilato un edizione pirata dell’opera prima di Sergej Michajlovic Ejzenstein, che in realtà, per uno scherzo crudele di un suo amico cinefilo di Desenzano, allorchè la signora a casa inserì la video cassetta, scoprì che non era Ejzenstein. Ma “Quel gran pezzo dell’Ubalda tutta nuda tutta calda” in italiano, pure parlato. Da allora, Cecco Pedrinazzi non si fida più degli amici cinefili; brutta gente, diceva lui, vogliono rubarmi i clienti. Non amano il vero cinema, non conoscono l’etica. Cecco Pedrinazzi, oltre al cinematografo, scriveva versi, senza dirlo a nessuno. Oddio, non erano proprio poesie, ma istantanee brucianti annotate a casaccio su un taccuino marrone. Ne aveva comperati tre, tutti marroni, sperando di riempirli, fitti fitti, una parola dopo l’altra. Per dire che? Per raccontarle a chi? Forse solo a una ragazza che non conosceva ancora, una tipa paziente, esitante e silenziosa, che non faceva troppo caso alle sue cosce che si sfregavano, e che lo avrebbe ascoltato parlare di Fellini, di Zurlini, senza sbadigliare, stritolandosi l’indice di un ricciolo di capelli che gli arrivavano in faccia. Una bottiglia di vino giallo paglierino sul tavolino all’aperto, Cecco seduto come un Buddha, la cravatta slacciata che parlava parlava, nonostante diffidasse di ogni parola che gli partiva dalla bocca; lei che, d’improvviso rompeva il ghiaccio e metteva in luce angoli di sè, con Cecco già innamorato perso. Due uccelli, Cecco Pedrinazzi e la ragazza, appesi a un filo della luce che guardano il mondo dannarsi, due che hanno scavato una nicchia d’aria che li protegge, sospesa, frizzante di complicità.
Cecco Pedrinazzi arrivò a Venezia, e con fatica trascinò i borsoni nella calca, alla stazione. L’umidità afosa si poteva tagliare con il coltello. Quando raggiunse i gradoni che s’affacciavano sulla vecchia Venezia, puntò a sinistra verso Lista di Spagna, dove stava il suo albergo. Vide una signora, una turista con un mini elicottero per farsi vento, e la invidiò. Sentiva di avere le mutande inzuppate di sudore. Non vedeva l’ora di toglierle, di strizzarle. In Rio Leonardo conosceva un’osteria, sull’angolo, che i turisti dimenticavano, dove poteva fermarsi a bere un’ombra di Tocai, e mangiarsi un piattino o cinque piattini d’acciughe. Moriva di fame. E della dieta se ne fregava. Se non mangio qualcosa, pensò, stramazzo tra la folla, e chi mi tirerà su? Si ricordò, per darsi coraggio, all’improvviso, la casa di campagna di suo nonno, in Franciacorta. Il tetto di coppi slabbrato, su cui s’appoggiavano corvi beccacce piccioni. Lui si rifugiava lì dentro, da bambino, e nascondeva bigliettini sotto i mattoni vecchi, tra la spazzatura e la terra cruda e i mozziconi di sigarette del nonno. Restava per ore a guardare dove finiva la pianura e cominciavano i colli, tra il fischio di una littorina, il canale grigio ferro, il tempo che in campagna va a rilento, tempo speso in surplasse. Dove sul letto di una pianura gelata e i colli in lontananza, s’aggrumava la nebbia come zucchero filato, mentre Cecco Pedrinazzi, mezzo addormentato se ne stava rannicchiato nel suo nascondiglio. Lontano da un mondo, che lui già sapeva feroce, e nel canale di fianco alla casa sbattevano, incessanti contro la chiusa, bottiglie di plastica, detersivi, una schiuma bianca, densa, che pareva la schiuma da barba del nonno.
Cecco Pedrinazzi è il nome inventato di un personaggio vero, incontrato anni fa in un viaggio in treno. Non so se teneva davvero dei taccuini dove scrivere poesie, ma certo poeta lo era, comunque, a suo modo.
Commenti
Qualcosa di simile la facevo da ragazzo, mi serviva a pagare il sarto che allora si usava per vestire a pelle. In effetti il dispensatore di gioie ai suoi clienti era lui, e il “tutta nuda” era proprio la richiesta del mercato. Io avevo un compito, come dire… Di trovarobe. Quant”e bella giovinezza… E quel che segue.
È morto il regista Bernard Tavernier, il sorriso timido, il grande cinema francese che con lui è un’altro che scompare che mi faceva correre al cinema. È morto il regista “sbircio” che sapeva farmi piangere, ed è successo, senza ritegno, con il film “Round Midnight” con attore-musicista Dexter Gordon, sassofono tenore, e che racconta il suo blues di jazz, e che è un testamento, un bellissimo funerale su una musica, il jazz, la sua grande stagione, al tramonto. La sceneggiatura è tratta dalla storia vera di un giovanissimo francese, appassionato di jazz, poi critico musicale, che andava ad ascoltare jazz, fuori dal jazzclub, la musica che usciva dalle grate, le finestre, perché era troppo giovane, e solo a fine concerto, il buttafuori gli permetteva di entrare. Tavernier ha filmato un struggente film sul jazz, musica troppa umana, tanto sensibile, che non ha più pubblico, e come racconta, il sassofono di Dexter Gordon “is the end of a love affair”, la fine di un amore; luoghi di jazz chiusi, diventati altro. Nuove colombe si alzeranno in volo, pure nuove cornacchie, ma è un Tavernier di meno.
Si, soprattutto per chi ama il Jazz, gran film “Round Midnight”!
E Tavernier lo amava e su quell’amore costruì un film eccezionale, da cineteca..
Il tutto Marino è diventato ora, qui, l’occasione per rivisitare il tuo bel “cameo” su “Cecco Pederzani”, che ci avevi regalato appena prima che partisse il Covid!
Nostalgia …….
E finalmente il ritorno al cinema! Al buon cinema, domani, a Milano, dopo tanto tempo, la prima dose di vaccino, che non vedevo l’ora.
Sono riuscito a farmi battere da mia figlia che ha 23 anni, non ancora compiuti, ed è stata vaccinata ieri. Nel Regno Unito, a differenza che da noi, il richiamo Pfizer ci sarà tra 11-12 non tre, o sei, come da noi.
11-12 settimane intendevo. Mi scuso.
È nelle sale cinematografiche il film “Minari”, sceneggiato e diretto da Lee Isaac Chung, regista coreano. Un filmone imperdibile. La storia di una famiglia d’immigrati coreani alla ricerca del sogno americano nelle pianure dell’Arkansas. Circa due ore di grande cinema, che va visto sul grande schermo, non sulle piattaforme che è come vedere il mare su una scatola di fiammiferi. Un film che racconta l’America profonda, pure cruda, con delicata e struggente poesia, con il cuore in Oriente, e la testa e il bagaglio della letteratura americana:
Flannery O’Connor, Davis Grubb, John Steinbeck. Film commovente, pure divertente, con bravissimi attori, una sceneggiatura solida. Si esce dal cinema con un tesoro negli occhi e una ricarica al cervello.
Grazie Marino
Grazie a lei Mario Zigatti. La dignità di quell’uomo, appassionato di cinema, incontrato per caso sul treno, volevo darla a mio modo, pasticciato, certo. Grazie ancora.