Prima e dopo l’Avvento, il Natale, e il 31 dicembre, la festa pagana se cadeva in domenica, servivo Messa al santuario di Santa Maria delle Grazie. Era “la ciésa bianca dale Grasie”, nel quartiere della Santissima Trinità, centro storico di Crema. La chiesa è esternamente anonima, dentro una profusione di affreschi di Gian Giacomo Barbelli. L’Adorazione dei Magi. La Fuga in Egitto. Angeli che parevano caderti addosso, sarebbe bastato crederci, aprire le braccia, guardando all’insù. La perpetua spazzava il pavimento, toglieva con energia la polvere. Fervevano i preparativi per il giorno della nascita del Nostro Signore. Nella ciésa bianca erano più del solito le signore in preghiera agli angoli; e per l’occasione speciale c’era la magia dell’organo a inondare la chiesa, insieme all’incenso, che sniffavo, inebriato. Era la festa, la domenica, di lì a breve il Natale,i dolci, i tortelli, le luminarie. Anche mia madre sembrava più agitata del solito, e tirava di lucido le nostre scarpe per le feste. Caricava d’acqua calda il mastellone Moplen sulla terrazza di cemento, scaldando il pentolone sulla stufa; poi dovevo stare accovacciato nel mastellone, mentre mi passava con energia il sapone per i panni, quello grosso, sulla schiena. Diceva che avevo il fango fin nelle orecchie. e forse era vero. Padre Cigolla mordeva il sigaro spento e camminava avanti e indietro; doveva averne viste di cotte e di crude in Ecuador, in Uruguay. Avrà visto i lebbrosi? Crema era per lui un isoletta felice, o forse, una noia. Lo vedevo consumare le scarpe nel lungo corridoio che immetteva nello scalone del Seminario, dove i novizi, gli apprendisti preti si rincorrevano, la veste nera lunga lunga fino alle caviglie. Certe volte giocavano a pallone nel cortile rettangolare di cemento, dove oggi i professori della scuola per Ragionieri, il Pacioli, parcheggiano l’automobile. Tra gli spettatori, insieme ai padri comboniani, a volte c’erano il Muto, Pierino l’operaio e Gusmaroti che abitavano in fondo al cortile, nelle due casette con annesso orto, che si possono vedere dal Campo di Marte. Pierino lavorava alla Ferriera. Gusmaroti faceva da tuttofare nella struttura: mensa, pulizie, sostituzione lampadine. Il Muto che credo fosse anche sordo, mi salutava calorosamente spalancando la bocca e agitando le braccia. Voleva solo dire che mi aveva riconosciuto e salutarmi con affetto; gli stavo alla larga, diffidavo, scappavo di corsa. Io e il Muto ci incontravamo spesso, bighellonando nel quartiere; abitavo nella via delle tre chiese, Via Suor Maria Crocefissa di Rosa. Essere trafitti dalle rose, che strana cosa, pensavo. La sensualità trabocca nel cattolicesimo. Castigo e peccato, e perdono. Spine e rose. Tormento e estasi.
Nel corridoio del Seminario c’erano appese grandi fotografie incorniciate delle Missioni. Preti con la barba bianca, i sandali, il volto sorridente, anche stanco, padri delle chiese missionarie circondati da vecchi donne bambini quasi uno sopra l’altro, per starci nell’obiettivo. Una ragazza con un cesto di banane sulla testa. Sguardi curiosi di bimbi arrampicati sugli alberi. Vecchi sdentati. Una volta domandai a Padre Cigolla se avesse mai visto ragni giganti, animali tropicali con due teste, se teneva una scimmia per amica. A Crema, se non capitava un circo di passaggio, non si vedevano mai i ragni giganti, le scimmie, e a Natale il sole restava un desiderio; c’era quasi sempre il gelo, l’umidità vigliacca e certe nebbie stizzose che non se andavano mai, neanche per le feste. Così, guardavo le fotografie nel corridoio dei padri comboniani e pensavo ai Mari del Sud, al Corsaro Nero, a Lucrezia a cui avevo messo una lucertola viva nella tasca del grembiule per dirle che ero pazzo di lei. Pensavo alle ostie non ancora benedette, forse non ancora, che stavano nella credenza della sagrestia e che avevo sottratto, un pacchettino d’ostie che avevo ingoiato di nascosto una domenica mattina, così sarei stato protetto dal corpo di Cristo per anni e anni a venire. Fino al prossimo Natale, di sicuro.
Commenti
Si Marino, il Natale smuove anche il fondo dei nostri ricordi (l’immagine finale del pacchettino di ostie, “concentrato salvifico” per gli anni a venire, mi ha ….fatto morire!) ed io, li in via Alemanio Fino (si, la suor Maria etc non c’era ancora!) ci venivo spesso, magari in bici da Borgo San Pietro dove abitavo, perchè ci stava mia nonna Angelina. E qualche volta da piccolino mi ci ha portato a vedere la meraviglia degli affreschi del Barbelli (la tele non c’era ancora e tanto meno smartphone et similia e gli affreschi nelle chiese colpivano ancora la fantasia delle menti semplici!) li, nella Chiesa dei Comboniani.
Per il vero ho ancora nelle orecchie gli strilli degli ambulanti in quella popolosa vietta: “strasè dunè/ as os fer rot, pel de dunei”, oppure “capppellaio, beretti, baschi e cappelli da pulire”, per non dire di quello che mi incuriosiva di più, con la sua cassetta esibita appesa al collo e appoggiata sulla pancia: “sapone e lucido Brill, crema da barba e cartine”!
Il pranzo di Natale lo si faceva li, da mia nonna, al secondo piano (sembrava di salire, salire chissà dove, per quelle scalette strette e buie! Al primo ci stavano le “signorine Manetta”, una pimpante crocerossina, l’altra Maestra elementare, da lei ho fatto “la prima” a 5 anni!).
Dalla Nonna, stufa a legna accesa a paletta e in tavola, in sequenza: “i salati”, gli agnolotti in brodo fumanti, il cappone, la frutta e il panettone con lo spumante (un goccino anche al piccolino!).
Affiorano e si rivivono sensazioni di grande serenità, ritmi mobidi, il piacere di trascorrere assieme, in sempice letizia una festa, a metà tra il religioso e il laico, tra la chiesa e la famiglia, senza turbamento alcuno nel pensare al futuro che ci aspettava.
Buon Natale, dai!
Io sballottato con padre in divisa e mamma in anonimi abiti stile UPIM Roma, ma forse in quei giorni di qualche sartoria, tutto ciò non l’ho visto. Non ho sentito alcun calore dei cugini, numerosi, di sei schiuse materne e una paterna (ma erano ugualmente sei visto che le due famiglie si erano doppiamente legate per vie di figlie). Eppure quell’albero che sapeva di vero pino, quelle candeline vere, rosse, quel presepe fntasioso per un nucleo di sole tre persone incastrate a forza in una città estranea, li sento ancora. Il cinghiale che sobbolliva in pentola in stufato, lasagne nel forno a gas, e il pesce per la vigilia, che chi sa come arrirvava a Roma. Non è una magia la potenza di questa festa? Proprio quel che volevo manifestare esponendola dal punto di vista agnostico: una profonda festa dell’uomo, se altro non ci sappiamo vedere. Bravo Marino, grazie a te c’ero anche io al santuario di Santa Maria delle Grazie.
Una descrizione, Marino, magistrale.
Io ho altri ricordi (abitavo a S. Bernardino da ragazzo), ma in comune abbiamo una frequentazione del mondo religioso, ma non sono mai arrivato a rubare un pacchetto di ostie, “pur non ancora benedette!
Buon Natale,
e non dimentichiamo di festeggiare col festeggiato.
Marino, le sante particole (cioè, le particole sante in itinere) le hanno rubate anche due miei amici chierichetti a don Madeo, il nostro parroco.
La signorina Roderi, santa donna alla quale abbiamo volonterosamente favorito l’ingresso in paradiso, ci aveva detto, preparandoci alla prima comunione, che per tutte le parrocchie il mistico impasto era preparato dalle Ancelle (che eran sempre le più belle, come ci dicevano le bambine che facevano le elementari da loro, a noialtri delle elementari di San Pietro, aggiungendo linguacce alla visitors) e che poi le pie Madri smistavano le confezioni nelle varie sacrestie, tra le quali quella del Duomo, a cui i chierichetti avevano il permesso di accedere.
Pochi giorni dopo l’involontaria soffiata catechistica, i due precitati avevano fatto il colpo con notevole ardimento, mostrando poi agli altri sodali di dottrinetta il santo maltolto. Il furto diede molto lustro agli autori, almeno tra noi del Duomo in quella fine degli anni Cinquanta. Anche perché i due eroi furono munifici, consentendo a ciascuno di noi un generoso assaggio dell’azzima refurtiva.
Certo, se non facevi il chierichetto eri tagliato fuori dalla sacrestia e da simili imprese. Molti di noi ci rinunciavano perché si vergognavano dei pizzi da indossare, viste le locuzioni in vernacolo che venivano indirizzate a turiferari, accoliti e caudatari.
Ancora oggi ricordo il senso di inadeguatezza e privazione di quando allora (avevo sei anni) non ero stato in grado di rubare l’ambito bottino, diversamente da quei due. Come quando nella vita perdi un’occasione importante, che non tornerà più.
Per cui, sappi caro Marino che ti ammiro davvero molto.
So che è un commento fuori tema rispetto al Natale.
Ma era anche per non esagerare con la bontà dei santi ricordi.
Ammettiamolo, un po’ cattivi lo eravamo anche allora.
Ringrazio tutti. Ora la ciésa dele Grasie, è diventata gialla, non è più bianca, come l’altra del quartiere, barocca, che non frequentavo mai, perchè la mia era quella affrescata dal Barbelli. La chiesa dei preti “rozzi”, i comboniani, che avevano vissuto nelle Missioni, dove non si sprecavano neanche le briciole del pane, come mi ricordava Padre Cigolla. Mi piaceva quel prete, grosso, alto, una faccia segnata, che pareva quella di un boxeur malmesso, e una risata grassa. Quando durante la Messa gli versavo con l’ampolla il vino bianco frizzantino nel calice, Padre Cigolla non si decideva mai a tirar su il calice, segnale convenuto, cioè: basta vino, vai al tuo posto di fianco all’altare. Una volta, decisi di andarmene con l’ampolla, mentre lui per un istante restò in piedi confuso, perchè il vino che versai, lo considerò troppo poco, ma dovette continuare le procedure, la Messa doveva continuare. Il compito delicato era quello di suonare nel momento giusto i campanelli che tenevo a terra, quando ero inginocchiato di fianco all’altare; guai a sbagliare. Padre Cigolla mi avrebbe tirato le orecchie, dopo. Lui aveva un’aria severa, quando si scocciava, e grande e grosso com’era mi incuteva timore, a volte. Quando non volli più saperne di fare il chierichetto, anche di andare in chiesa, lui brontolò, mia madre mi rincorse intorno al grande tavolo in legno rettangolare, che occupava gran parte del salotto-camera da letto, per me e mio fratello. Cercò di colpirmi con la scopa dalla parte del manico: vai a Messa, manigoldo, mi urlò. Via Suor Maria Crocefissa di Rosa era allora una via popolana. C’era Pùlver, ‘l stràser; c’era un ortolano timido e silenzioso con gli occhiali spessi e la madre anziana sempre vestita a lutto. Moretti, l’imbianchino. Una volta al mese arrivava un vecchio con l’Apecar, una gabbia con dentro due galline vive, che mia madre faceva scorrazzare nella terrazza interna della Provana, a metà della via, per un’intera mattina. Guardavo le galline e correvo intorno a loro; poi, mia madre con un’azione decisa, prendeva la scopa e pigiandoci sopra il piede, dopo averle afferrate, le strozzava il collo, con la scopa a terra, il sangue che colava, io che protestavo. La domenica pomeriggio, andavo in trasferta, all’oratorio del Duomo, dove ora vendono i tappeti, i quadri, le offerte delle Missioni, per il cinema western. Comperavo le stringhe di liquirizia e certe volte le avvolgevo nei capelli lunghi di Antonella, una che mi piaceva, con la faccia da indiana, che avrei voluto baciare, anche mordere, darle pizzicotti. D’estate andavamo sotto il ponte del fiume Serio, a guardare i giovanotti che si buttavano dal ponte, a prendere il sole, a mettere i piedi nell’acqua e gettarla addosso alle ragazzine. Non sapevo nulla dei paesi, dove non mettevo mai piede; la nostra parentela diffusa non oltrepassava Santa Maria della Croce e San Bernardino. Ancora oggi, quando passeggio per la Via delle tre chiese, che sbuca nella chiesa barocca di “Santa Trinita”, sento i canti delle Ancelle, ombre lunghe della sera che conosco; anche l’odore di urina del pisciatoio (a cui contribuivo), lo sento ancora, nel vicolo di fianco a palazzo Premoli, anche se ora non è più frequente che qualcuno slacci la patta dei pantaloni e fa scorrere il liquido giallastro tra il muro e l’asfalto, di fretta si allontani come facevamo noi, che credavamo di essere padroni del territorio. Ma non eravamo padroni di niente; eravamo ragazzi beffardi, ma impauriti, come gli occhi dei cani randagi.
Scusami, Marino, se approfitto del tuo “Natale cremasco”, per ricordare un nostro comune “amico” cremasco che se n’è andato proprio in questo clima natalizio 2019: Carlo Alberto Sacchi.
Ciao, Alberto: tra i tanti sedicenti intellettuali del nostro tempo, tu sei stato un vero intellettuale e, come i veri intellettuali, per nulla saccente, ma ironico e auto-ironico. Sei stato un intellettuale “impegnato”, ma non hai mai impugnato la bandiera manichea: l’unica arma a cui hai fatto ricorso è stata la cultura, in particolare quella speciale forma di cultura che è la poesia.
Ti ricordo quando hai, tra i pochissimi cremaschi, colto la forza rivoluzionaria della cultura underground americana (che io ho conosciuto grazie a te). Una cultura rivoluzionaria – nel senso più nobile del termine – che tu dimostrato di avere come redattore dei due numeri del giornale della Fuci di Crema. Ricordo uno stralcio di una tua “lettera ai partiti”: “Voi contate balle. Le avete sempre contate. Le conterete sempre, se qualcuno non comincerà a cambiare le cose. Balle in buona-fede, per la libertà-uguaglianza-santità-dignità-eccetera; balle in mala-fede, per la spartizione della torta; a guardarvi, provocate la nausea”. E questo prima dell’esplosione della contestazione a Crema.
Ti sei sempre battuto contro le ingiustizie sociali, ma sempre con la leggerezza del poeta. Un poeta innamorato del nostro dialetto cremasco. In una delle tue poesie dialettali, scrivi (utilizzo la tua … traduzione italiana): “Sulla mia tomba, nella terra, solo il mio nome e – a esserne degno – una croce,: piccola, di legno”.
Già una “croce”. Tu non eri un credente (che mi ricordi), ma le tue poesie sono intrise di spiritualità e di religiosità intense. Nella tua raccolta “Poiein” (una sorta di autobiografia spirituale) “dio” risuona spesso:
Berto
nessuna traccia di dio
nel tuo deserto
Mio dio,
non farti pregare,
è di te
che ho bisogno.
E ancora:
Lasciamo morire, Signore Iddio,
lasciamo morire
a modo mio
Io ti verrò incontro con una maximoto
con gli occhi perduti nel vuoto
con gli occhi perduti nel vento
a tracolla una vergine chitarra
splendente e bruna
nella bisaccia
una fetta di luna
La mia anima stanca
ti sta cercando, mio Dio
e vuol, vedersi
volare via.
Grazie, Berto, della tua poesia, la poesia di “Un cervello lucidamente ateo/” e “Un cuore sinceramente religioso”.
Ciao, Berto!
Saluto anch’io molto volentieri, con affetto la partenza di Carlo Alberto, che tristemente apprendo, ora qui da Piero. Eravamo universitari negli stessi anni, in quella bella, ricca esperienza “quasilaica” della FUCI di Don Agostino. Certo lui Carlo Alberto era una gran bella testa, diversamente da me leggero, quasi evanescente con la mia chitarra, ma con Don Agostino ognuno giocava il suo ruolo in un contesto di intelligenza, solidarietà, parità nelle occasioni e nel riconoscimento. Vero è che assieme, lui con quel suo modo così sensibilmente profondo di affrontare la vita ed io, all’incontrario goliardico quasi démodé, tante belle cantate assieme , magari in dialetto (quello delle sorelle Bettinelli), le abbiamo fatte e a lui credo abbiano fatto comunque bene!
E poi, giusto a Natale, dopo aver provato, con le giuste cadenze, con Don Agostino “…apparuit, appa/aruit, quel genuit mari/iia…” andando a piedi dalla FUCI verso la chiesa di Borgo San Pietro dove avremmo cantato, Don Agostino mi diceva “… e te col signur a che punto set? Dai Kuntem se che ta cunfèse!” E poi, sempre camminando “Ego te absolvo….” e poi a cantare a “San Piero”, perchè anche nel “Borgo”, in quella chiesa (che era poi accidentalmente quella della “mia” parrocchia) così disadorna di orpelli luccicanti, si sarebbe celebrato il “Santo Natale”!
Big abrazo, Carlo Alberto!
Ancora qualche confidenza, Carlo Alberto.
Ho tanto desiderato vederti all’Hospice appena ho saputo qualche giorno fa che sei arrivato a Crema, ma non avrei mai immaginato che la morte ti avrebbe ghermito così in fretta.
Ora, da ieri sera, sto rileggendo le tue poesie: così ho l’opportunità di dialogare ancora con te.
Nei tuoi componimenti vedo, seppure spesso con un tono ironico, un’anima tormentata, sofferta, un tocco… leopardiano. Leopardi, anzi, lo citi tu stesso: Il momento sempre sbagliato. L’inappagabile desiderio di non essere /mai nato./ I versi di Giacomo, come se fossero miei./Berto, chi sei?
Tanta amarezza: volevi colorare/una parte/pur piccolina/dell’universo/non soffrire mio Berto:/hai perso
Tanto dolore: Fui angelo ieri/Conchiglia//Meraviglia//Stupore/Oggi sono il fiore/La rima fasulla/Domani il dolore/Domani nemmeno il biancore/Del Nulla
Hai scavato fino in fondo nella tua coscienza. Hai riflettuto a lungo sulla tua esistenza umana, sulla tua fragilità (che è la fragilità dei mortali), sulle tue inquietudini, sulla tua sete di assoluto. Così leggo: Con mani tremanti, mio dio,/padrone e signore,/ho lasciato i miei tormenti/il mio umile dolore/sul tuo freddo altare./Offerta/e voto.
Basta con la pena di volare,/basta col sogno,/basta col bisogno di assoluto,/ basta con la condanna dell’infinito./Semplicemente tu/mio piccolo/superbo/lontano/Iddio
Le tue immagini poetiche trafiggono. Mi hanno trafitto: Le mani, Signore,/mi hanno inchiodato/è tardi/per abbracciarci
E ancora: Questo di me/non mi sono mai perdonato:/aver sognato ed amato/il momento e l’assoluto./Fede e chimera…..
Non ho, e tu lo sai, alcuna competenza letteraria, ma ciò che leggo è un Leopardi del nostro tempo.
Un Leopardi dopo Nietzsche, nel tempo della “morte di Dio” (cuore mio/non vale/ essere triste/non vale/aver amato/Colui/che non esiste.
Non sei più, Alberto, tra i vivi, ma per me e per quanti hanno avuto la fortuna di conoscerti, continuerai a parlarci, a pungolarci, a non perdere il vizio di interrogarci.
Come faceva Socrate.
Già, nella tua poesia vi è molta filosofia. Una filosofia non accademica, ma che giunge direttamente all’anima.
Verrò, te lo prometto, sulla tua tomba col… tuo solo nome e con una piccola croce di legno.
Anch’io ne approfitto. Ho conosciuto pochissimo Carlo Alberto, conoscenza capitata decenni fa quando giovane aspirante artista esponevo i miei lavori. In verità ho sempre diffidato dei poeti, mondo per me estraneo e spesso incomprensibile, come diceva Nietzsche. Ma quando questo mattina ho letto anche un solo verso che riporta Piero ho avvertito un’assonanza di pensiero che in poche parole riassume il mio sentire di tanti momenti:
” Mi hanno trafitto: Le mani, Signore,/mi hanno inchiodato/è tardi/per abbracciarci”. Mi sono sembrate parole straordinarie come io non avrei saputo dire, magari ispirate da sentimenti diversi, inutili da indagare se non in un privato non raccontabile, non necessariamente intendo. Parole che ho sentito mie. Grazie Carlo Alberto, scoprirò altri tuoi versi. Un forte abbraccio alla grande amica Graziella che lo ha accompagnato in questi anni.
Purtroppo, ho conosciuto Carlo Alberto Sacchi solo in una occasione. Ero ragazzetto, e due volte la settimana tenevo un programma in una radio privata di fronte alla piscina comunale (che ancora non c’era), di musica e culturame vario. Sacchi scrisse una lettera, non ricordo più se a me, alla radio, una lettera carica di passione, d’entusiasmo, voglia, fame di cultura, progetti, idee. Era troppo per me che m’interessano più che altro le ragazze. Venne in radio e lesse alcune sue poesie; poi, l’ho perso di vista. Era già insegnante, forse, e credo anche cronista locale. Il centro di Crema è una via che si attraversa in dieci minuti, con un pò di sdradette che fanno da affluenti al corso principale; ma può accadere che ci si perda di vista anche per anni; che non ci si incontra mai. L’entusiasmo si stempera; succede; gli stimoli nella piccola città, se non si ha una batteria in tasca e il cavo da caricare da qualche parte, si torna a casa svuotati come dopo aver scaricato sacchi di patate, anche se non si è sollevato alcunchè.
Come dice Piero Carelli, Sacchi era un vero intellettuale, onesto, sensibile, curioso, senza spocchia. Gli intellettuali sono per un terzo detestati, per un terzo disprezzati, e per l’ultimo terzo sono un di più incomprensibile: così per molti italiani, cremaschi inclusi. Poi, gli intellettuali, perlopiù si detestano a vicenda, si guardano storti l’un l’altro. Meglio raccontare al mondo che frequenti che sei un medico, un taxista, un insegnante, un idraulico, un giornalista, che hai una start-up, ma non dire che sei un intellettuale, per non fare brutta figura, per non mettere fuori asse nessuno, non essere guardato di sghimbescio. L’imbarazzo, la diffidenza è dietro l’angolo. Meglio scappare, se si ha quella malattia lì nelle grandi città, dove si trova pane e companatico e auditorio, per forza dei numeri; mentre nelle piccole realtà capita che ci si eclissa, ci si nasconde, stanchi dei numeri bassini, i luoghi carica-batteria che non ci sono. Ho pascolato a lungo fra gente semplice, e mai e poi mai, avrei detto loro che avevo quel morbo lì. Li avrei messi sul chi va là. Avrebbero cambiato il loro atteggiamento nei miei confronti. Non so se ciò è accaduto anche a Carlo Alberto Sacchi, poeta, intellettuale. Non posso saperlo. Mi sarebbe piaciuto chiederglielo. Ho scovato un frammento di una lirica di Rocco Scotellaro. Chissà se gli sarebbe piaciuta. Boh. Sperèm.
“Dai sentieri non si torna indietro / Altre ali fuggiranno dalla paglia della cova / perchè lungo il perire dei tempi / l’alba è nuova, è nuova”.
La vita ricomincia sempre. Questo è sicuro.
L’ho conosciuto alla fine del ’71, all’inizio dell’ultimo anno di liceo. In terza B eravamo abbastanza “vivaci” e i nostri diciott’anni ci portavano anche a rapporti non sempre ossequiosi verso chi stava in cattedra.
Ricordo quando il preside Palmieri è venuto in classe a presentarcelo, come docente temporaneo e “giovane professore”, squadrandoci bene, come a dirci di portargli rispetto nonostante l’età (lui aveva ventotto anni).
Se la cavò benissimo, meglio di altri insegnanti di maggior anzianità ed esperienza.
Da me e dalla mia compagna di banco, ciao Prof.