INFINITO vs FINITO
“L’economia circolare è un modello di produzione e consumo che implica condivisione, prestito, riutilizzo, riparazione, ricondizionamento e riciclo dei materiali e prodotti esistenti il più a lungo possibile. In questo modo si estende il ciclo di vita dei prodotti, contribuendo a ridurre i rifiuti al minimo.”
Naturalmente questo incipit non illuda che voglia continuare a parlare di questo serissimo argomento.
No, potrebbe essere interessante, e credo che anche qui se ne sia parlato,
ma vorrei semplicemente raccontare un piccolo episodio che mi è capitato recentemente, che di economia non ha quasi nulla, ma di circolare abbastanza. E di sentimentale di più. Sto parlando dei ricordi in un momento della vita in cui il cerchio sta per chiudersi, anche se, scaramanticamente, ci si augura il più tardi possibile. L’antefatto: era il 1966, quattordici anni allora, Santa Lucia coincidente con il mio compleanno, mio padre mi regala la prima cassetta di legno con colori al olio. Affronto la prima tela con trepidazione e copio un paesaggio urbano di non so quale pittoraccio. Il risultato è pessimo naturalmente (foto di copertina), anche se a quell’epoca non mi sembrò tale. Ad un certo punto, in difficoltà, intervenne mio padre che in punta di pennello tracciò i rami in lontananza di uno scheletro d’albero. Ricordo benissimo le circostanze, la situazione, il tavolo della cucina a far da cavalletto e, verso sera la luce del giorno che svaniva mentre mia madre preparava la cena. E l’emozione. Naturalmente di quel quadretto, la mia prima opera da grande, non rimase traccia. Fino a pochi giorni fa, quando, senza conoscerne il percorso, me lo rivedo fotografato sul cellulare di un antiquario con negozio in città dove da qualche tempo vedevo esposti alcuni miei lavori diventati ormai vintage. Dopo 53 anni. Acquistato ad un mercatino insieme ad altri che sapevo alienati so da chi e da dove, tramite due architetti cremaschi, e finiti sul mercato del piccolo antiquariato naturalmente a prezzi irrisori, come è giusto che sia. Di questi conosco la provenienza e non mi stupisco che nel mercato del “si vende di tutto” possano essere finiti dei miei dipinti o disegni, come di tanti altri ”artisti” cremaschi della mia generazione. E difatti a Crema, da parte di alcuni trafficoni, esiste questo non fiorente commercio. Insomma, questo l’antefatto. Lo sviluppo: rivoglio quel mio lavoro a tutti i costi, bilancio della mia vita, le trattative sono in corso, che non so a quanti anni dalla fine, rappresenta un po’ l’inizio della mia saltuaria storia di pittore consapevolmente senza perseguito futuro. E il cerchio si chiude. Si possono e si devono fare altre cose, magari non fare niente, con la coscienza che i miei lavori non sarebbero mai finiti su un libro d’arte e neppure in un museo, e con la coscienza che tra sette miliardi di persone ben pochi lasceremo tracce. Ma perchè racconto questo? Beh, essenzialmente perchè sto diventando vecchio, e i bilanci di una vita, occupazione quotidiana, anche se rinnovati continuamente, arrivano al punto della conclusione, ma anche perchè con l’età si diventa sentimentali, e tirare le fila potrebbe voler dire, magra consolazione, ritrovare non solo antichi ricordi che scaturiscono da soli, pare che con l’età si retroceda nella memoria, ma anche, fortunosamente, ritrovare quegli oggetti che sono stati nostri e di cui ci siamo liberati e che una circolarità la possiedono, a differenza nostra che certamente non finiremo, in qualità di uomini, su qualche banchetto di cianfrusaglie in aeternum. Siamo di corpo e anima e quadri, come tutte le cose che ci hanno accompagnato forse fanno parte dell’anima, e almeno loro rimangono, mentre e perchè la dissolvenza fa paura a tutti. Viviamo di nostalgie e rimpianti e da vecchi questa rincorsa a ritrovarci è doverosa. Solo le case destinate al tempo mantengo inalterata l’atmosfera polverosa dei ricordi dove il tempo sembra esservi cristallizzato. Quelle comuni invece cambiano continuamente, di passaggio in passaggio, mai a diventare le case di famiglia con oggetti a raccontarne la Storia.
Va in onda da qualche sera su Rai 3, prima di una seguitissima telenovela, un programmino di testimonianze di gente qualsiasi che racconta in pochi minuti, un pensiero, un accadimento, un ricordo , alcune volte con leggerezza, altre con dolore. Riflessioni filosofiche e analisi psicologiche le lascio a chi è più bravo di me. Io lo faccio su questo blog per amici o nemici che condivideranno i sentimenti o li tacceranno di senile retorica. Anche perchè siamo perlopiù anzianotti su Cremascolta e abbiamo passato decenni a collezionare ricordi e cose. Ci si separa malvolentieri dall’accumulo delle collezioni, ben consapevoli che la vita di ognuno circolare non lo è affatto. Quindi si delega alle cose. Posso anche nell’infinito fingermi, ma ahimè, nel finito viverci. Anche tra le cianfrusaglie, pur valendo meno di noi. E scusate la prolissità, ma come diceva Pascal, in questi giorni non ho avuto il tempo per essere più breve.
Commenti
Dico, sembrerebbe che ci siamo messi d’accordo nel feeling dei post! Ma non è invece così, semplicemente un vago pensiero fluttuava fra le circonvoluzioni a tutti e due. E perché in contemporanea, dopo la citazione di Pascal è l’ora di Jung: principio di sincronicità. E perché adesso? E così entra anche Anna con la sua moda: l’influsso dell’autunno. E se ci aggiungiamo un sentore pasiniano… Così funziona il nostro raffinato e deduttivo cervello!
Torno a te dopo questa disquisizione a ruota libera. Atmosfera bella, nostalgica e perplessa, ma non triste. Quale tristezza? Eri nel quadro e ora ne prendi le distanze e lo puoi osservare per intero, con affetto. E, tranne Anna, Mattia, Giorgio, tutti abbiamo dato tante pennellate alla tela da svuotare quasi i tubetti del colore.
Solo un consiglio: non esaltare tanto la tua voglia di possesso dell’oggetto, sale il prezzo!
Condivido il sentimento che anima il post. Sempre più mi capita di cercare il filo che tiene insieme i miei ricordi. E di chiedermi se c’è un filo. Non condivido invece l’idea che l’infinito sia una finzione. Se non esistesse l’infinito non potremmo neppure avere un’idea del finito.
E’ abbastanza vero, però all’idea di infinito, senza dubbio impegnativa e magari inconsapevole, sostituirei l’idea di futuro che contiene in se gli altri tempi coi quali facciamo i conti continuamente. Pur banale, i ricordi, cioè il passato, rappresentano il presente nel momento in cui inaspettatamente si presentano e il futuro nel momento di nuova elaborazione e utilizzo. Poi prima dell’infinito dobbiamo fermarci per forza, magari credendo che si costruisce sempre sulla sabbia dovendo credere di costruire sulla roccia. Ma qui siamo obbligati a farlo, e quasi tutti ne siamo capaci. Tranne che i suicidi dove i tre tempi si riassumono in quel gesto salvifico che forse, davvero, ci consegna all’infinito che è quello che non conosciamo. E qui, mi permetta Francesco, si dovrebbero già trasferire i commenti nell’ultimo post di Adriano, o altrimenti restare qui superando la schematicità a cui ha invitato il nostro ingegnere.
No, no, Ivano, nessuna “schematicità”, ci mancherebbe! Lungi da me la voglia di tarpare le ali alla fantasia, ai voli (magari anche ….pindarici, toh!) ma: sit modus, magari anche in …sciarada, allora!
Bella la tua confessione. Hai l’età, anche tu, che si tirano le somme. I profitti e le perdite.
Non giudico il quadro, non saprei farlo. Ci vedo emozioni intense e malinconia, o forse mi sbaglio. Smile, please, che i ricordi si sbriciolano fra le dita. Ti abbraccio.
Sempre che un suicida abbia in sè l’idea di infinito, di futuro certamente no. No, analisi sbagliatissima. Il suicida ha in sè solo l’idea di “finito”. Ah, ah, ah.
Il”…Sedendo e mirando…” d’avanti alla siepe,diventa un “…Vò comparando…”allo stormir del vento…
“E il naufragar m’è dolce in questo mare”…( Dolce). …Da “L’infinito” di Leopardi
Graziano, il riferimento era proprio Leopardi.
Mattia, Francesco non me ne voglia, ma visto che siamo quasi in tema, perché dopo gli e-book non compaiono anche le mostre?
Ma Ivano sei stato il primo ad esporre alle nostre mostre online!
Imperdonabile, le mostre nel nuovo sistema non compaiono. Matt. dove hai cacciato le mostre? Che poi magari ne abbiamo ampiamente discusso ed è solo una mancanza temporanea, e un mio ricordo soppresso, ma non artificialmente, proprio degenerativamente!
Grazie, Ivano, per questo post che per me è uno dei più interessanti.
A volte ci si trova a fronteggiare la Roba che ogni momento ci assale, l’enorme quantità di Roba materiale e immateriale che ci sommerge, faticando a mantenere il contatto con gli elementi che possono aiutarci a percorrere la nostra storia personale e il filo dei nostri passaggi memoriali.
Credo che i beni culturali siano a volte tra questi elementi, in particolare quelli artistici. È un pensiero terribile quello di dover lasciare la propria biblioteca, i propri libri, certi manoscritti.
I quadri, poi, non parliamone. Vedi la pennellata portata dalla mano di quell’artista, ce l’hai lì, davanti agli occhi per anni. Immagino che i quadri propri, specie se di momenti risalenti, inducano a emozioni specifiche.
Hai ragione, in un mondo in cui tutto sembra circolare e ricircolare in un unico enorme circolo, siamo “ben consapevoli che la vita di ognuno circolare non lo è affatto”.
Certo, dobbiamo veramente voler bene alla nostra storia, ciascuno alla propria, visto che solo quella abbiamo avuto e stiamo avendo. E chi ci vuole riempire della sua, simulando altruismi, ci ruba la nostra.
Della mia maldestra produzione giovanile ho conservato per motivi di rispetto solo un “Cristo incredulo” (cioè un Cristo che pensa: “ma è uno scherzo, mica mi metterete veramente in croce!),. Molto teatrale bruciar le tele per ricordare a se stesso che una nuova vita stava nascendo… Ma ora che vedo che in fin dei conti prima di essere tentato e traviato dagli eventi sapevo da giovane tante cose della vita che solo ora riscopro (sapevo teoricamente, mica nella capacità di uniformare la mia condotta automaticamente e fermamente).
E allora gurdare i quadri con tutta la loro cornice di fattti e cultura d’epoca da lontano fa bene. Ma così ne facciamo un club da vecchi bacucchi, che ne può frregare ai giovani? Tentiamoli con quanto a loro interessa se vogliamo che la nostra schiera di under 40 si infoltisca!
Adriano, un club da vecchi bacucchi? Non è così che siamo? O Cremascolta un cenacolo con intenzionalità educative, didattiche, propedeutiche? Acchiappare i giovani? A parte i pochissimi, sporadici Giorgio, Mattia, anche quando si parla di politica, in un momento in cui tanti giovani green si stanno mobilitando, e non una voca su questo blog, colpa di chi? Non credo nostra. La nostra cultura, le nostre conoscenze, ce le siamo fatte tra coetanei? Quanti libri, o pochi, ci hanno accompagnati da giovani, magari di penne anagraficamente distanti da noi? Quanto abbiamo appreso dai nostri coetanei? O forse non è il caso di smetterla con tanta enfasi generazionale? Vecchi rimbambiti o saggi, giovani coglioni o giovani di buona volontà… perché questi distinguo “temporale”?
Grazie a te Pietro per questo attestato di gradimento. A dopo, per un commento doverosamente argomentato.
E che mai si può vedere, in un vecchio quadro, se non la faticosa contorsione dell’artista? Ammirare un quadro equivale a versare la nostra sensibilità in un’urna funeraria, invece di proiettarla lontano, in violenti getti di creazione e di azione.
Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli. Perché dovremmo guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare le misteriose porte dell’impossibile?
Per troppo tempo l’Italia è stata un mercato di rigattieri. Liberiamola dagli innumerevoli musei che la coprono tutta di cimiteri innumerevoli. La frequentazione dei musei, delle biblioteche e delle accademie (cimiteri di sforzi vani, calvari di sogni crocifissi, registri di slanci troncati) è altrettanto dannosa che la tutela prolungata dei parenti per certi giovani ebbri del loro ingegno e della loro volontà ambiziosa. Per i moribondi, gli infermi, i prigionieri, sia pure. Il passato è un balsamo ai loro mali, poiché per essi l’avvenire è sbarrato. Ma noi non vogliamo più saperne, del passato.
Che la nostra schiera di giovani aumenti. E quando avranno quarant’anni, altri uomini più giovani e più validi ci gettino pure nel cestino, come manoscritti inutili!
La nostra mendace intelligenza afferma che noi siamo il riassunto e il prolungamento degli avi nostri. Guai a chi ci ripeterà queste parole infami!
Ivano, basta fare i nonni-blogger, diamoci una mossa. Da centodieci anni tira la giovinezza (primavera di bellezza).
Caro Adriano, spero vorrai perdonare questo scherzoso (e comunque molto affettuoso, credimi) commento. Ogni tanto mi prende l’impulso di uscire dal perimetro di contegno che dovrebbe contenere le esternazioni di un ultrasessantenne. E proprio l’altro ieri mi ero riletto il Manifesto, da cui ho tratto questo collage. Ovviamente, condivido del tutto il tuo auspicio a una maggior partecipazione di giovani e giovanissimi. E, per farmi perdonare questa intemperanza, cercherò in futuro di impegnarmi nel trattare temi che possano essere più graditi alle nuove generazioni. Chiedo solo le attenuanti specifiche riferite al post di Ivano: non era proprio l’ideale per intonare quant’è bella giovinezza eccetera eccetera. In pratica, è tutta colpa di Ivano.
😁😀😉
Bene signor Macalli, un post alla portata di tutti. Un po’ sentimentale, magari un po’ retorico, ma credo un suggerimento per noi giovani, che con un’alzata di spalle facciamo tabula rasa della memoria perchè tanto di tempo ne abbiamo e ne costruiremo sempre. Se poi non riusciamo a distinguere, selezionare i ricordi importanti, di quelli che ci aiutano a crescere perchè non li riconosciamo come tali, il Suo mi sembra un saggio suggerimento. Come fare a distinguerli? Mi pare di capire che si debba procedere se non sull’onda dei sentimenti del momento in sé, quando il riconoscimento di un aiuto estemporaneo, ad esempio, che sembrerebbe poco significativo, sto parlando delle relazioni, passa inosservato perchè doveroso, quando dopo tanti anni un ricordo diventa importante? Semplice, quando offrono altra lettura. Questo naturalmente vale anche per i ricordi dolorosi. Verrebbe da dire quindi che i ricordi non esistono perchè quando riemergono, tutte le elaborazioni sono possibili, perchè siamo un percorso, senza dubbio, ma siamo soprattutto un risultato che contraddirebbe il continuo divenire del nostro pensiero. Perchè ad esempio si frequentano i cimiteri? Parrebbe di arrivarci sempre con lo stesso pensiero, tanto i morti sono lì e noi dall’altra parte, una separazione impossibile da ricucire, ma naturalmente non è così, nuovi fili intessono relazioni nuove e questi fili sono la rilettura costante del mondo che dovrebbe essere la nostra linea guida. Una nuova pagina insomma, dove niente si dà più per scontato perchè tanto tutto cambia e la tortuosità di ieri diventa la linearità di oggi. Ecco, da questo momento, alla luce di tutto ciò, come Ulisse, tolgo la punteggiatura: signor Macalli mi sembra di capire che questo sia il metodo che Lei consiglia il percorso da seguire contro la fossilizzazione e la testardaggine che connota noi giovani e,ahimè anche voi vecchi il nostro cervello così veloce nel produrre pensieri che mai controlliamo un “ruota libera” che in questo momento è qui ma un istante dopo anche meno ne rincorre altri come quando si fa il gioco delle associazioni, gli psicologi li usano senza considerare che non c’è bisogno di suggerimenti, in questo caso metodologici perchè siamo mobili e imprevedibili cadaveri squisiti ante litteram perchè il primo neurone del mondo capì subito questo grande potenziale ma il nostro cervello appunto se ne è dimenticato di questa capacità perchè si inizia a selezionare arrivano i sentimenti le emozioni i rancori gli odi così che i pensieri in quel presente si selezionano si epurano si rimuovono in base a schemi mentali che sanno solo di cultura indotti condizionati e mai liberi. Ritorna la punteggiatura. Siamo incapaci di pensare allora? Ho proprio paura di sì. Incapaci di tessere nuove trame. Si potrebbe dire, mi pare di capire, che assoluto e relativo si scontrino con mediazione valoriale, perchè subito si deve scegliere quello che sembra funzionale, se non strumentale. E’ utile che in quel momento non si pensi altro modo.
Ma evidentemente non dev’essere così. Mi pare che Lei intenda dire che mai ci si deve fidare dei propri pensieri, perchè non esistono fatti, ma interpretazioni. Grazie.
Provana docet naturalmente.
E non ne faccio naturalmente (si è capito vero?) una questione neurologica da lobo sinistro, lobo destro o altre anatomie.
Mi riconnetto dopo alcuni giorni senza connessione e mi ricongiungo ai miei amici.
Grazie, Ivano, per averci provocato a pensare ai nostri ricordi.
E’ il tempo, il nostro, dei ricordi, considerata la nostra età media (io, poi, in quanto decano del blog, di ricordi ne ho una montagna).
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Posso dire che è da quando ho scritto la mia autobiografia spirituale (la mia Preghiera di un cercatore di Dio) che ho iniziato a intraprendere un viaggio a ritroso dentro la mia vita. Un viaggio – l’ho confessato allora e lo confesso oggi – salutare, anzi terapeutico. Ho messo a nudo me stesso (con se stessi non si può fingere) e sono stato letteralmente travolto da quelli che una volta chiamavamo “peccati”. Peccati prevalentemente di “omissione”. Sono questi ricordi che mi perseguitano: tutte le volte che avrei “dovuto” fare qualcosa e non l’ho fatto, tutte le volte che ho schivato persone che avevano bisogno di me, tutte le volte che mi sono rifiutato di fare volontariato (quello vero, non quello aristocratico della… penna) accampando sempre giustificazioni che non giustificavano, tutte le volte che, prigioniero del mio orgoglio, ho lasciato incancrenire delle relazioni umane, tutte le volte che ho gettato la spugna di fronte a delle difficoltà.
Tutte le volte che…
La verità – quella autentica (non le chiacchiere quotidiane) – la troviamo sol dentro di noi. E così il “senso” della vita che cogli proprio al tramonto guardandoti allo specchio.
“con se stessi non si può fingere”? Ma se è quello che facciamo sempre! Le bugie più grosse son quelle che ci raccontiamo da soli. Non ho mai creduto né alle confessioni né alle autobiografie.
Piero, hai ragione, i ricordi che ci ossessionano sono proprio gli errori commessi, che hanno sempre il sopravvento sulle cose belle che abbiamo fatto. E quando arrivano feriscono molto di più di quanto rasserenino i ricordi belle. Ci riempiamo la vita di sensi di colpa quando si dovrebbe essere così bravi da mettere sui piatti della bilancia il bene e il male. Il bilancio di una vita sembra fatto solo delle cazzate fatte e dette. Quando sempre ci sarà qualcuno che manterrà di noi un bel ricordo.Troppo intransigenti con noi stessi? Può darsi, ma io vorrei imparare l’indulgenza di caso e circostanze che ci portino, lo ripeto sempre, a “voler bene alla propria Storia perchè questa è quella che ci è stata data”, tanto non si torna indietro, anche se capisco che per le persone sensibili tutto sia un fardello ineliminabile e doloroso. Pazienza.
Caro Piero la pulsione a fare un bilancio è caratteristica di ogni età di passaggio, e trauma connesso. Quel che non avrei creduto è che questo passaggio presenile potesse essere più traumatizzante, spersonalizzante, di quello adolescenziale, ma le spalle son comunque più larghe. Certo, questo è particolare perché ci mettiamo in testa di dover chiudere alcuni discorsi, che poi magari non è vero, di dover giudicare la torta glassa e ciliegina compresa, e magari anche questa è in divenire. La mia esperienza del rogo dei quadri, tutti molto simbolici, (tranne il Cristo) ai venti è stata stupidamente plateale, ma in quell’epoca di passaggo, alle porte dell’età adulta, magari la sentivo così. Visto che abbiamo dei giovani fra i membri di redazione/direttivo e nell’uditorio, ma possibile che non ci diciate niente del vostro “passaggio”?
Anch’io credo che ci raccontiamo bugie, ma è l’unico modo che abbiamo per sopravvivere. Sempre indulgenti con noi stessi, sempre impietosi con gli altri. Ma nel momento del disincanto credo che un pò di verità si possa raggiungere. Solo che molte volte è scomoda. Per questo si preferiscono i giochi di ruolo da palcoscenico. E anche i ricordi sono vittime di questi meccanismi. Anche,( o allora ), se quello che dice il signor Cadè chiama in gioco l’Altro che senza indulgenza la nostra vita la potrebbe raccontare con la lucidità mondata dal sentimentalismo verso noi stessi.Ma anche lì…
Anche se,
Scusate, “anche se” senza virgola dopo. Che casino stamattina.
Ho fatto anch’io la riproduzione di un quadro,tanti anni fa,
ma “Sedendo e mirando”ho cominciato a intuirlo una quindicina d’anni dopo…
Pensare che mi sembrava di conoscerlo…
Graziano, la mia domanda era: recuperato il ricordo, è necessario recuperare anche l’oggetto?
Io insisto sul concetto di senso di colpa. I cattolici hanno la confessione con la remissione temporanea dei peccati. E questo per un credente può essere consolatorio.Per protestanti ad esempio no, men che meno per i non credenti, ma è altro tema. Il senso di colpa nasce dalla paura che il peccato, che dobbiamo confessare, sia assolto da Dio, che lo garantisce per Statuto a tutti, ma non dagli uomini. E i ricordi, che ce lo ricordano continuamente, si rinnovano appunto nel senso della colpa e della pena che ci accompagnano sine die. Come se dovessimo continuamente espiare. Possiamo trovare tutte le umane giustificazioni ai nostri comportamenti più o meno gravi, veniali o mortali che siano, come li classifica la Chiesa, ma di fatto, in concreto, noi non rispondiamo a Dio o a noi stessi, ma alla società, al prossimo in particolare. Per questo i brutti ricordi ci accompagnano sempre. Perchè magari Dio perdona, l’uomo no. Sto parlando con Piero naturalmente, uscendo dal tema, ma questa volta non è colpa mia nè di Pietro. E’ colpa di Piero.
NC: fuori tema!
Ricordi scolastici, gran bei tempi!
Non sono credente.
Il mio giudice è la mia “coscienza” che è un giudice più severo di qualsiasi altro.
Naturalmente, ognuno ha la coscienza che nella vita si è formata.
Certamente Piero, la mia era una considerazione generale. E non sto a ripetere cosa penso dei credenti.
Piero, secondo me tu ti fidi troppo dell’obiettività della tua coscienza. Noi, come giudici di noi stessi, possiamo essere molto severi, anche molto crudeli, oppure indulgenti e permissivi, ma quasi mai siamo giusti.
So bene che non esiste una coscienza… obiettiva: i criteri di giudizi sono quelli che ho maturato nel corso della mia vita, grazie alla mia storia, ai miei… maestri, alle mie letture…
D’altronde, la mia coscienza è tutto quello che di prezioso ho.
Diceva il saggio Hegel (quel filosofo che è stato a lungo apostrofato come un reazionario) che la filosofia è come la civetta che vola al tramonto del sole.
Già, solo al tramonto di un’epoca o al tramonto di una vita si può cogliere la “verità” di quell’epoca e la “verità” di quella vita.
E nel mio tramonto vedo tutta la mia fragilità, le mie debolezze. Vedo quanto bene avrei potuto fare e non ho fatto.
La vita è un bagliore di luce dopo un buio eterno e seguito da un altro buio eterno. Avrei dovuto viverla come ciò che di più “bello” c’è al mondo (per me), ma invece, spesso almeno, ho chiuso gli occhi.
Bastava poco vivere quel bagliore in modo più intenso: magari solo un sorriso e tutta la vita sarebbe stata più bella. La mia e quella delle persone che mi sono vicine.
Si può dire “è andata così, era il mio destino”, oppure “è andata così, ma poteva andar meglio” o, infine “è andata così per colpa mia”. Sono quelle che tu, Piero, definisci ‘narrazioni’, e sono tutte espressioni di una insoddisfazione. Ma, io credo, le nostre “fragilità e debolezze” vanno accettate, come si accetta la pioggia o la siccità. In ogni caso, la propria storia personale non si può cambiare e alla fine è meglio far pace con sé stessi e col proprio destino piuttosto che rigirarsi tra rimorsi e rimpianti.
P.S.: anche credere a un ‘bagliore’ tra due ‘bui eterni’ è una ‘narrazione’, una credenza negativa.
Scusate, andava incollato qui.
“Ma nello stesso istante in cui il liquido al quale erano mischiate le briciole del dolce raggiunse il mio palato, io trasalii, attratto da qualcosa di straordinario che accadeva dentro di me. Una deliziosa voluttà mi aveva invaso, isolata, staccata da qualsiasi nozione della sua casa. Di colpo mi aveva reso indifferenti le vicissitudini della vita, inoffensivi i suoi disastri, illusoria la sua brevità, agendo nello stesso modo dell’amore, colmandomi di un’essenza preziosa: o meglio, quell’essenza non era dentro di me, io ero quell’essenza. Avevo smesso di sentirmi mediocre, contingente mortale. Da dove era potuta giungermi una gioia così potente? Sentivo che era legata al sapore del tè e del dolce, ma lo superava infinitamente, non doveva condividerne la natura. Da dove veniva? Cosa significava? Dove afferrarla? Bevo una seconda sorsata nella quale non trovo di più che nella prima, una terza che mi dà un po’ meno della seconda».
La ricerca dura lo spazio di qualche riga. Poi, «tutt’a un tratto il ricordo è apparso davanti a me. Il sapore, era quello del pezzetto di madeleine che la domenica mattina a Combray (perché nei giorni di festa non uscivo di casa prima dell’ora della messa), quando andavo a dirle buongiorno nella sua camera da letto, zia Leonie mi offriva dopo averlo intinto nel suo infuso di tè o di tiglio. La visita della piccola madeleine non mi aveva nulla prima che ne sentissi il sapore; forse perché spesso dopo di allora ne avevo viste altre, senza mai mangiarle, sui ripiani dei pasticcieri, e la loro immagine si era staccata da quei giorni di Combray per legarsi ad altri più recenti; forse perché, di ricordi abbandonati per così lungo tempo al di fuori della memoria, niente sopravviveva, tutto s’era disgregato». Marcel Proust
Morire in pace, forse un privilegio, se non sperando in quell’attimo di riscatto che sarebbe bello essere concesso a tutti come momento di giustizia sociale. Chissà che nel momento della morte succeda di pareggiare gioie e dolori, brutti e bei ricordi, sensi di colpa e giustificazioni, magari “quell’attimo di vera beatitudine” di cui parlava Dostoevskij, che potrebbe essere quel momento, al quale non credo, del tunnel bianco con in fondo la luce di cui parlano i sopravvissuti.Se così fosse sarebbe una consolazione, ma anche una sfiga. Perchè “voler bene alla propria storia” solo nel momento in cui ci dobbiamo congedare?
Il distacco è inevitabile. Credo che avere il cuore in pace lo renda meno amaro. Accettare la propria storia significa congedarsi da questo mondo, l’aldiqua che abbiamo conosciuto, senza tormentarsi. L’aldilà che non conosciamo non può essere la certezza di un “buio eterno”, ma un’incognita. Forse il nulla, forse un nuovo viaggio. Non c’è nessun 5% di sapere che ci illumini.
“Voler bene alla propria storia” è per me un mantra ripetuto in continuazione, ma la strada della pace è lastricata di ostacoli. Che il distacco sia inevitabile a cosa serve? A riappacificarci con noi stessi? Assolutamente no. L’ineluttabilità non è condizione rasserenante, tanto capita a tutti. Io non dubito che possano esserci distacchi sereni, uno è diverso da un altro come lo sono state le vite, i pensieri, le opere che ci hanno accompagnati e non ci sono ricette da dispensare universalmente. E credo che la cultura abbia un ruolo determinante nella narrazione della morte e nell’indirizzarci verso quella. Solo che il cammino diventa pian piano sempre più individuale, e non ci sono regole, filosofie o religioni che tengano. Se tutti abbiamo paura della morte è perchè ci hanno sempre detto, in tutte le culture, come è e come dovremmo prepararci. Come diceva Kant, parlando di morale, che si potrebbe benissimo sostituire con vita e morte, essere di questo mondo “significa anzitutto essere autonomi e non eteronomi, cioè sottomettersi non a vincoli esterni bensì a vincoli che noi stessi ci siamo imposti”. Si dovrebbe imparare la vita, e quindi la morte, perchè se si muore soli, si vive anche soli. E questa condizione o consapevolezza, vivere appunto soli, è l’unico modo per vivere la morte con la rassicurazione che l’elaborazione è solo nostra. Altrimenti è solo un confrontarsi con le vite e le morte degli altri che non hanno nulla da insegnarci. Appunto, solo narrazioni.
Io non ho offerto né ricette né narrazioni. Dicendo che il distacco è inevitabile dico una cosa ovvia. Credo che prepararsi al distacco, cioè imparare ad accettarlo, sia un bene. Ma ognuno reagisce all’inevitabile a modo suo. Che poi non vi sia nulla da imparare dalle vite degli altri, non ne sarei così sicuro.
Che poi signor Cadè Lei sa come si fa ad “Accettare la propria storia significa congedarsi da questo mondo, l’aldiqua che abbiamo conosciuto, senza tormentarsi.”. Non Le sembra un po’ banale quello che ha scritto? Che sembrerebbe una ricettina buona non solo per affrontare la morte, ma anche la vita. Ma, ripeto, come si fa? In genere Lei “specula meglio”. Ha forse dormito bene?
Non c’è nessuno modo per ‘farlo’. Ognuno segue la propria natura. Alcuni esseri sono deformi e malvagi, altri belli e nobili. Chi ha ‘fatto’ tutto questo?
In attesa che Francesco ci richiami: questi ultimi commenti non si attaglierebbero, non attanaglierebbero, meglio al post di Adriano? Qui si parlava di ricordi.
“credo che la cultura abbia un ruolo determinante nella narrazione della morte e nell’indirizzarci verso quella”. La conoscenza non è cultura, ma in larga parte ne è l’humus, la conoscnza è in grado di influenzare il ragionameno. Non gli istinti (che io chiamo motori) primari. L’attaccamnto alla vita è necessario alla conservazione della stessa per l’individuo, e quindi teniamovììcelo così com’è. Il senso di colpa è invece culturale. Più facile tenere a bada un bambino ribelle, o un’intera tribù ebraica in un mondo ostile con un senso di colpa che blandendolo. Quindi piccoli semi di cambiamento culturale, visto che ci siamo perdonati (spero) e che razinalmente sappiamo di non aver più motivi di essere in colpa, possiamo instillarli nel grande fiume della cultura collettiva. Piiccoli, ma fecondi. E non entro nella concezione dii individuo, a mio avviso fallace, altrimenti non ne usciamo. Dai che vi do un tema di sgomento vero fra poco!
Scusa Adriano, ma come si fa a dire che “razionalmente sappiamo di non aver più motivi di essere in colpa”? Credo non vi sia mai stato periodo della storia in cui l’uomo è stato colpevole (o carico di peccati se si preferisce) quanto oggi.
Parlo di colpa ancestrale, di genere umano: razionalmente non c’è motivo di colpa nel nascere uomini. Le malefatte le stiamo facendo, sempre meno di quelle del passato, ma più globalmente disastrose, ma qui non c’è un senso di colpa, casomai una consapevolezza con annesso desiderio di porre rimedi, cosa possibile, salvo che i morti restano morti, ma così si crea una cultura della vita, cosa da fare, anche se costa.
Leggo questo che mi spinge ad altre riflessioni, perchè qui si è parlato fino ad ora di brutti ricordi, nostalgie, rimpianti. Indubbiamente riflessioni di chi è al traguardo della vita, o quasi. Ma esistono anche i bei ricordi: “ Il passato che non passa può anche essere il migliore antidoto a un presente senza poesie, che è già un abisso per sè”. La risposta: “Io sono molto lieto se i ricordi belli allietano la vita delle persone anziane, ma resto sempre sospettoso quando una vita si alimenta solo di ricordi, anche se belli, perchè si riferiscono comunque a un passato. E il passato che non passa, anche se incantevole o commovente, è sempre avvolto da un’ombra negativa che consiste nel precludere il futuro, che è l’unico tempo invitante che può stimolare la vita”.
E la vena ironica no? Quante volte, refrattari alla comicità dei professionisti del ramo, non riusciamo a trattenre una sana risata facendo riandare un episodio del passato! L’ironia esorcizza le colpe, quelle piccine piccine, personali, quelle che ci sono sembrate macigni sull’animo mica quelle etniche o planetarie!
Tra i ricordi che mi inseguono e perseguitano (ne ho già parlato sul questo blog) sono due battute infelici che ho rivolto a due mie allieve, battute che le hanno ferite nell’anima.
Rimarranno sulla mia coscienza fino alla tomba (ognuno ha la sua sensibilità!).