Una parafrasi del celebre verso manzoniano? Con tutta la mia modestia sì, ma il senso dell’assonanza ve lo spiego alla fine. Non mi permetterei mai infatti di abusare del vostro tempo per banali cronache dei miei spostamenti se non fosse per il succo antropologico che ne traggo! E così, dopo un soggiorno marocchino mia moglie e io ci facciamo prendere dalla nostalgia di Castelrotto e dello Sciliar. Riforniti i trolley con indumenti pesanti e si va su, fino al nostro abituale albergo zum Wolf, al lupo, dove per anni con i ragazzi abbiamo trascorso le intere ferie estive; ma intanto son passati subdolamente tre decenni! Trent’anni sono tanti, e pure non ci aspettavamo, ingenuamente, di arrivare di domenica e non vedere gli abitanti con gli abiti tradizionali, proprio quel popolo orgoglioso della memoria che, negli anni cinquanta, faceva saltare con la dinamite i tralicci, per evitare la contaminazione etnica! Zum Wolf, almeno nella facciata, è identico, ma l’interno è stato sventrato e ricostruito. E passi, ma la facciata del palazzo della posta, in piazza, intonacata in tinta unita, e il suo bar storico, il Lamm (agnello) “geometrizzato”, orrore!
Decidiamo di spostarci solo con mezzi pubblici, in libero cabotaggio, e così ci consoliamo con una prima capatina sull’altipiano, sempre maestoso. Il conducente, gentile, ci informa sugli orari… in perfetto italiano siculo. E la sera, un ristorante, non proprio una stube, ma comunque con tanto legno delle pinete alpine. Fame: ordiniamo tagliolini al tartufo. Il ragazzo, biondo-tirolese e con tanto di grembiule tradizionale, ci serve, e inizia a chiacchierare affabilmente, ponendomi una mano sulla spalla. Umh, gesto poco altoadesino.
“Scusami, ma tu di dove sei?” mi informo. “Qui siamo tutti Kosovari!” afferma con orgoglio! “E il tartufo in questa stagione dove l’avete preso, sotto la neve in Kosovo?” “Ma no signore, viene da lì…, ecco, lì, centro Italia!”. Penso sia in buona fede, a sua volta frodato, e così, riguardando meglio le scaglie brune rimaste nel piatto, evito di precisare che so benissimo come si fa a mistificare il tartufo nero con bucce di melanzana disidratate e poi macerate nell’olio tartufato, che a sua volta di tartufo non ha proprio niente, anzi, ottenuto con gli stessi gas odoranti in uso nei nostri giacimenti sotterranei cremaschi. Be’, almeno questi ragazzi per lavorare hanno dovuto imparare due lingue estere! Comunque, nonostante la simpatia, li diserteremo.
E cambiamo orizzonti, su per il passo Sella, fino all’ultima piazzola delle cabinovie. Per il ritorno vediamo che le coincidenze dei tre bus non combaciano, e così un taxi al volo verso Santa Cristina. Tassista di poche parole, ma con accento DOC sicuro. Mi lamento della massificazione culturale, e lui approva: “Sì, diventeremo tutti pezzi da supermercato di questo passo” e poi un consiglio amichevole: “Vuole ritrovare la tradizione? In paese si fermi alla stube della posta, e vedrà. E dica che la manda Bruno!” Il biondo Bruno ha l’accento giusto, in sintonia con le maetose guglie rocciose, ma il “mi manda Picone” l’ha imparato presto anche lui!
Noto nel menù la tartàre. Perdono fratel Franco, la carne dell’Alpe vale pure un peccatuccio! Preparata ineccepibilmente al tavolo da una bionda fanciulla dal visino lentigginoso stile Heidi; ambiente a luci basse, penombra anche per la scarsa luce che filtra dalle tendine delle piccole finestre. Carino… anzi, carissimo! scopro al momento del conto. Ma la tradizione si paga, si sa. Prima di uscire mi complimento per la preparazione. “In queste carni magrissime c’è tutto il profumo del fieno di montagna. Dove vi servite?” E lei mi risponde candidamente: “sono carni neozelandesi!” Sconfitto decido per un commiato a Castelrotto dal campanile.
Dopo un’ascensione di 88 metri e circa 290 scalini di vertigini e malcelata angoscia arrivo alle campane, e mi ritrovo a casa: tranne la campanella settecentesca superstite dopo un incendio le altre otto, gigantesche, sono provenienti dalla fonderia Adda di Crema (1922). Ma è ora di chiamar giri, tuttavia una capatina a Bolzano ci vuole! Vado a salutare Otzi nel suo museo.
Sospiro di sollievo: la genetica, dal suo DNA, assicura che è un individuo di ceppo autoctono, per parte materna estinto, ma ancora esistente dal lato paterno! Ha lo stesso mio gruppo sanguigno 0+. Ma vuoi vedere che è un lontano ricordo genetico ad attrarmi fra queste valli? Ammiro la sua ascia dalla pesante lama in rame. Leggo che il prezioso metallo, in agglomerato grezzo, era portato fin lì dalla Toscana da mercanti Etruschi, che poi anche loro di toscano non avevano proprio niente, in quanto provenienti, insieme alle loro vacche ora dette chianine, pecore e granaglie, dagli altopiani anatolici. Ma allora fra imperi e migrazioni la globalizzazione è al lavoro da sempre, non è cambiato niente! Di cosa mi cruccio, lasciamo che le carte si rimescolino, che l’ibrido rigogli, e bando alle nostalgie! No, non la penso proprio così, sorella Rita, perché la perdita di specificità culturale è un danno pari a quello dell’impoverimento in biodiversità.
Ma d’altra parte l’evoluzione viaggia anche su questi binari, e in settemila anni porta da un Otzi a un Adriano Tango, che altrimenti non ci sarebbe. E guai a chi esclama: “Magari fosse andata così! E poi, non ci troviamo tanta differenza fra te e un essere del neolitico – età del rame!”
Commenti
Ma… non è possibile, Adriano, un pluralismo che conservi le singole identità etniche?
In una parrocchia del centro storico vive quasi un centinaio di etnie ed ognuna di esse continua a mantenere le proprie tradizioni (anche religiose: le tante badanti sudamericane, ad esempio, hanno una messa per loro in spagnolo).
Ciò che deve uniformare è il “rispetto della comune legge”, ma per tutto il resto valgono i propri costumi e tradizioni.
No?
Domenica ero a Milano a una festa filippina: tutto il gruppo, badanti e bambinaie prevalentemente, uomini mestieri vari, conserva la tradizione della grande festa agli anni 1, 7, 18.
Dove circola tanta gente per turismo e gira denaro tuttavia la coesione si perde più facilmente. L’ho avuto sotto gli occhi sulla sorrentino-amalfitana, dove ho la casa al mare, e l’effetto è stato così strisciante, nel corso della mia vita, che non me ne sono accorto.
Se vogliamo fare un esempio di fedeltà alla tradizione citerei gli Ebrei, ma lì gioca il fattore pericolo. La minaccia cui son sottoposti da tempi biblici porta alla coesione per mutua protezione, e questa è difesa dai cerimoniali identificativi.
il discorso è poi complesso, perché non possiamo certo dire che tutte le tradizioni è un bene che siano conservate, quindi un rimescolamento delle carte ha i suoi vantaggi. La grandezza di Roma ha avuto proprio quste fondamenta!
….è si, fratel Adriano scrive davvero bene!
E cmq, tranquillo, anche io e my senora, qualche …”deviazione” su cibi extra vegeto ce la concediamo, a condizione che siano cibi di qualità (ovviamente …. “carini” !).
Anch’io sono favorevole assai ai ….rimescolamenti ( e come non potrei, mio nonno paterno ….. “sssiculo iera”!) , quanto alle “tradizioni” credo proprio che oramai siano state ampiamente “tradite” (ops!), meglio affidarsi alla Storia, che peraltro richiede credenziali di accesso non così diffuse!
Per via della “tradizione”, poi, fratel&maestro mi consenta un appunto: Lei fu piacevolmente sorpreso, al fin della salita dei 290, di trovare campane dal tintinnio ….casalingo, ma male interpretò: il “D’ ADDA” non faceva riferimento a genitivo, ma a nome proprio (si ….. proprio quello!) D’ADDA ! Fonditori di campane attivi a Crema dal 1912 al 1963: http://www.culturacrema.it/events/event/inaugurazione-sezione-campane/
La mia anagrafe e la comune frequentazione dell’allora “tennis club” mi consentì di conoscere l’ultimo rampollo della famiglia.
Che gioia! Per una volta non ho sbagliato io! Già, perchè, come l’acqua che gorgoglia e ribolle dall’Alpe quando scesi a valle… più prosaicamente l’ho copiato da una ricerca sul prosaicissimo GOOGLE. Sarò a vederne altre campane al Museo per la mostra. Circa le tradizioni mi sorge un quesito: se in passato da una ibriudazione nasceva una nuova tradizione altrettanto forte adesso come sarà con gli spostamenti facili asicurati per tutti? Esempio: il direttore di sala di “Alla torre”, quello DOC, mi spiegava che loro avevano perso il Ladino come dialetto in quanto erano su una via di comunicazione, mentre a Ortisei, molto più segregata fino alla strada moderna, l’avevano mantenuto più a lungo. Ma il Ladino deriva da un’invasione latina! Quindi un domani potremmo trovarci comunità che parlano il filippinese (italo filippino) discendenti di quelli alla cui maxi festa ero domenica a Milano, che come prima lingua hanno il Filippino, ma alla pari l’Inglese, e molto peggio parlano l’Italiano. Non è una questione di segregazione geografica, quanto di rifiuto della commistione per difesa dell’identità di gruppo (vedi gli Ebrei che citavo a Piero). Interessante vero? C’è da specularci, o forse da viverci mille anni per controllare personalmente!