Mi si conceda una breve riflessione «storica» in coda alla II edizione della Scuola di Economia organizzata da Cremascolta, che oggi conclude i suoi incontri. La prenderò «larga» iniziando dai più noti mercanti dell’antichità, i Fenici, di sicuro interessati alla pecunia ma non del tutto gretti, né spietati, tanto che viene loro attribuita la costruzione dello «zodiaco naturale» di Galstonbury. Un’ipotesi che confermerebbe la teoria secondo cui questo popolo misterioso sarebbe sceso nel Mediterraneo dalla Syria primitiva, ovvero dall’Isola Sacra situata anticamente nell’estremo nord dell’Oceano Atlantico e forse identificabile con una delle attuali Fær Øer, che nel Paleolitico Superiore erano comprese in una vasta area di terre emerse che si stendeva tra Groenlandia, Islanda e Scandinavia.
Per millenni la «categoria mercantile» mantenne un buon livello di rispettabilità. Nel mondo gallo/germanico il protettore dei mercanti era nientemeno che il dio supremo Mercurius (da non confondersi con l’Ermes/Mercurio del mondo greco-romano!), al quale erano attribuiti gli epiteti di sapiente, santissimo, vincitore, grande, difensore, saggio, augusto, colui che vede e provvede. Non semplicemente una divinità imbattibile nell’assicurarsi buoni guadagni e nel volgere le situazioni a proprio favore, ma addirittura il geniale inventore di tutte le arti, il Grande Maestro della Tecnica.
La ragione mercantile, andando avanti, cominciò però a perdere di vista la saggezza che per tanto tempo le era stata propria, basata sulla vita nella sua totalità, finché non se ne staccò del tutto. Ed eccoci giunti ai Mercanti moderni, il cui oracolo si chiama Nasdaq e consiste in un’entità oscura che agisce tramite contrattazioni nelle Borse Telematiche. A differenza del passato è scomparso anche l’incrocio tra Domanda e Offerta, mentre il Valore non ha ormai niente a che vedere con il Tempo classico, o di produzione, di trasporto e di compravendita.
Il Mercante di oggi non si occupa più di materie prime, preferendo impegnarsi nella diffusione di messaggi planetari volti a convincere la massa che il benessere passa attraverso il consumo, ovvero attraverso l’appropriazione continua di una quantità sempre maggiore di oggetti. Il «mercanteggiare» non rappresenta più la sua occupazione principale, che adesso è l’impegno a colonizzare l’immaginario simbolico globale, a plasmare la figura del produttore-consumatore. Persino l’obiezione umanitarista si sposa con le lusinghe di questo incantamento poiché sostiene che la filosofia della crescita illimitata finirà per portare miglioramenti “a chi non ha”. Un principio contraddetto dai fatti, basta guardare il modo direttamente proporzionale in cui si è allargata la forbice fra «ricchi» e «poveri» negli ultimi decenni.
Il danno più grave prodotto da questo modo distorto, o degenerato, d’intendere il mercato e le merci è stato quello di dividere l’Uomo dalla Natura. In tutte le culture sapienziali ogni corpo individuale, compreso quello umano, era parte integrante del corpo cosmico, determinazione intrinseca di quell’ordine universale che la Natura rappresentava sulla Terra, e che oggi si riduce a un’etichetta appiccicata su un barattolo.
Come se ne esce? C’è un modo per salvare il salvabile? Si, naturalmente, se si ha il coraggio di fare un passo indietro. Nella tradizione Taoista “L’uomo si conforma alla Terra, la Terra si conforma al Cielo, il Cielo si conforma al Tao, il Tao si conforma alla spontaneità”, quest’ultima sinonimo di «naturalezza». Una bestemmia, nel mondo artificiale in cui viviamo, quasi una categoria eversiva. Tuttavia non abbiamo scelta all’imperativo assoluto di ribellarci e non conformarci, alla determinazione volta a riconquistare quelle condizioni di spontaneità che vigevano prima dell’introduzione del controllo sociale globale.
Se vuole sopravvivere e non soccombere anche la visione politica, in futuro, dovrà prendere le distanze dal potere tecnocratico mercantile e avvicinarsi a sistemi più «naturali» quali la decentralizzazione, l’interdipendenza e la diversità. Il suo compito principale dovrà essere la promozione del potere diffuso, partecipativo, in qualche modo «accidentale», la cui sede decisionale sarà contenuta nella vitalità della comunità di base, attiva solo in un contesto antropologicamente limitato. In sette miliardi e mezzo, non si va da nessuna parte, al massimo si può vivere come topi.
Commenti
Hai ben descritto la mutazione genetica del soggetto mercantile. Un processo avvenuto nell’ultima trentina d’anni, sia pure con radici risalenti al secondo dopoguerra. Grazie, da vecchio borghese, per non aver svolto la solita “critica della ragion mercantile” dal neolitico ad oggi. Molto di buono è venuto all’umanità dalla classe mercantile, soprattutto da quando gli altri “stati” hanno fallito storicamente. L’attuale degenerazione, da te descritta, è oggetto di ricerche e studi ma non è stata ancora spiegata in modo convincente. Sembra che le cellule impazzite del mercantilismo abbiano creato un organismo fuori controllo e auto-fagocitante.
Un dettaglio, tenuto conto dell’ampiezza dell’articolo. Rispetto al tuo primo paragrafo, credo che veniamo tutti dalle migrazioni dall’Africa dell’Homo Ergaster, divenuto in Europa Homo Heidelbergensis e poi Homo Neanderthalensis, e dalla successive migrazioni, sempre dall’Africa, dell’Homo Sapiens, molto più recentemente. Alla fine, una sola manciata di migliaia di anni fa, dall’ultima importante serie di migrazioni (prima dell’attuale), quella da Urheimat, la patria originaria indoeuropea, da est, dalle steppe euroasiatiche. Ma, ripeto, in questo contesto di mercanti e mercantilismo, considerando oltretutto la civiltà dei Kurgan, è proprio un dettaglio.
Conoscenze e cultura non avrebbero mai potuto circolare nel mondo senza la classe mercantile, artefice spesso involontaria di radicali cambiamenti nella società. I problemi sono nati nel XIX secolo, il periodo che rappresentò l’epoca del sorgere dell’industrialismo e del capitalismo, durante gli Hard Times ben ritratti da Dickens, quando si lavorava in fabbrica settanta/ottanta ore alla settimana per produrre e vendere, facendo guadagnare qualcun altro. Da quel momento in poi, è stato un delirio. Né la degenerazione, ahimè, è rimasta circoscritta al commercio ma è stato il lavoro in generale a finire nella fogna. Prima ognuno svolgeva il proprio mestiere con il «cuore» e il profitto materiale, che pur lecitamente poteva derivarne, veniva considerato un fine del tutto secondario rispetto allo scopo primario, che era l’imitazione da parte dell’artigiano dell’opera dell’Artigiano Divino con la prosecuzione della sua opera creatrice. Direi che siamo lontani anni luce dai lavori senza senso dell’Era attuale, o forse è l’Era attuale ad essere senza senso.
Temo invece di non condividere la teoria da te esposta, Pietro, sulle origini della presente umanità. La famosa Lucy indicata come nostra antenata, è di un paio di milioni di anni più «giovane» dell’uomo di Trachilos, di cui si presume dovesse essere una discendente. Va detto che le impronte dell’Ardipitechu Ramidus, rinvenute in Etiopia e datate intorno ai 4,4 milioni di anni fa, erano le orme di una scimmia, anche se si è additato questo esemplare come «diretto antenato dell’uomo», mentre quelle del passeggiatore di Creta, lunghe in media 21 centimetri, sono inequivocabilmente le impronte di un uomo. Si tratta insomma d’impronte convincenti nel loro complesso. Anche la datazione è attendibile, grazie all’esame dei pollini fossili imprigionati nello stesso strato di quella che fu un tempo sabbia o fango: è un uomo, non c’è dubbio. Tale scoperta non solo distrugge la teoria, o la leggenda, secondo cui la nostra specie sarebbe nata in Africa come evoluzione di scimmioidi che avrebbero adottato a poco a poco la posizione eretta, e quindi sviluppato un cervello di grandi dimensioni, ma suggerisce anche l’esistenza antichissima dell’uomo già «perfettamente formato», spingendoci così fuori dalla narrativa evoluzionista.
Ovviamente non sono poche le resistenze da parte del corpo accademico che, pur di non contraddirsi, ancor prima della scoperta delle impronte dell’uomo di Trachilos, aveva già ritoccato al ribasso la datazione dell’Homo Antecessor, trovato alla Gran Dolina in Spagna, giudicandolo molto «più giovane» dell’1,2 milioni di anni che gli erano stati attribuiti perché «la sua dentatura era quella di un contemporaneo». Ma questi meccanismi ormai li conosciamo, anche i professori tengono famiglia, che ci dobbiamo fa’.
Probabilmente fu dalla Beringia che partirono i primi esploratori boreali per poi spingersi nella parte settentrionale dell’Eurasia e in Nordamerica, dove introdussero l’elemento primordiale ed unitario del ceppo «caucasoide arcaico», rilevato tra i Nativi Americani, soprattutto nella tribù Ichigua. Un dato, quest’ultimo, che ha imposto una revisione della teoria «Clovis first», sconfessata tra l’altro dalle stime di carattere glottologico che datano a circa 35.000 anni fa l’età degli idiomi americani. E’ una fortuna che oggi una serie di avanzatissime tecniche comparate stia inducendo i ricercatori a riscrivere (con cautela ma anche con determinazione) la Storia delle origini. Finché non sai da dove vieni, non sei in grado di decidere da che parte devi andare.
E difatti, abbiamo sotto gli occhi i risultati ….. un po’ in tutti i campi, per par condicio.
… Potere diffuso, partecipativo… vitalità della comunità di base.
Siamo forse tutti d’accordo, ma come realizzare questo modello? Tornare ai… Comuni? Recuperare l’exemplum della “Comune di Parigi”? Seguire la traccia segnata in Italia dal M5S con la sua democrazia diretta mediante la Rete? O tornare indietro alle prime esperienze comunitarie degli apostoli?
Una cosa è certa: più il potere politico viene delegato a organismi transnazionali, più si dovranno valorizzare il “locale”, la “comunità di base”, le radici.
Occorre una sintesi equilibrata, intelligente.
Pietro Martini, non mi dica che anche Lei è caduto nell’inganno e crede all’evoluzionismo Darwiniano. Le specie non mutano gradualmente, trasformandosi una nell’altra come vorrebbe Darwin, ma sorgono improvvisamente, già “armate”, come Minerva dalla testa di Giove: questo dicono i dati paleontologici. Solo successivamente intervengono variazioni geniche su cui agisce la selezione naturale il cui effetto, paradossalmente, è proprio il contrario dell’evoluzione. Ma allora (sento già la domanda) da dove nascono le nuove specie? Poniamoci prima la domanda: da dove nascono le idee e i pensieri? perché la fonte è la medesima.
Piero, tornare alle città murate non sarebbe possibile neppure volendo, a meno che non si venga nuovamente travolti da un diluvio universale, che prima o poi arriverà, visto che le catastrofi naturali sono cicliche. Accadono, e basta. Chi c’è, c’è.
La “sintesi equilibrata e intelligente”, che auspichiamo tutti, parte dalla omogeneità e dalla condivisione, e non potrebbe essere altrimenti. Ad esempio l’esperimento-Europa è fallito in primo luogo perché si è voluto creare un golem burocratico e stupidotto, ma anche perché (lo si sapeva fin dall’inizio) mettere insieme tradizioni, abitudini, mentalità, monete, industrie, economie completamente diverse è impresa impossibile, per non dire demenziale.
Questo è anche il motivo per cui il globalismo è destinato a morire, non a essere “governato”. E da chi, poi? Dai “politicanti” che ci mettono sei mesi a formare un governo?
Sulla domanda di Bruno, invece, ( da dove nascono le idee e i pensieri? ) ci devo pensare. Ci vediamo al prossimo Eone.
Una risposta a Rita e al prof. Cordani sull’evoluzionismo.
Si tratta di una mia opinione, non essendo esperto di preistoria, biologia, paleontologia, paleo-archeologia o altre discipline pertinenti. Non ho una preparazione scientifica specifica o studi specialistici in materia. Ho letto alcuni libri, qualche rivista scientifica, altri contributi nel corso del tempo. Tutto qui. Mi è sembrato ragionevole aderire a questa spiegazione, andando da Darwin in avanti e non all’indietro. Non ho avuto sinora l’opportunità di maturare opinioni diverse.
Certe tesi creazioniste espresse da taluni prelati statunitensi, ad esempio, mi sono parse più che altro fondate su elementi fideistici, peraltro rispettabili ma posti su un livello di interlocuzione sostanzialmente teologico. Altre tesi di fanta-archeologia, che possono richiamare alla mente Pier Domenico Colosimo o Roberto Giacobbo, mi lasciano come minimo perplesso. Sono comunque disponibile ad ogni reale miglioramento cognitivo. Se avete libri validi da segnalarmi di autori credibili, sarò ben lieto di approfondire.
Sulle origini e sulle migrazioni indoeuropee da Urheimat, sulle civiltà collegate e sulla loro storia mi sento un poco più sicuro, per ragioni di maggior preparazione effettiva. Non mitizzo Gimbutas ma la tengo in buon conto. Le altre fonti sono quelle solide degli ultimi decenni: Mallory, Telegin, Rudenko, Drews (consiglio il suo “Guerrieri a Cavallo”, Goriziana, 2010). Insomma, steppe ponto-caspiche. Trovo insufficienti le argomentazioni di Schmid e Bosch-Gimpera sull’area baltica, di Devoto sul centro Europa e di Renfrew sull’Anatolia. Anche qui, comunque, sono disponibile a imparare qualcosa di più e a migliorare la mia preparazione. Grazie per eventuali segnalazioni di libri validi e autori credibili, anche su questo.
….cheffare? Mah, prima di tutto ringraziare per la profusione di “saperi” messa a disposizione, “a gratis” sul questo blog “urbi et orbi” (ed io mi metto apertamente, senza vergogna, tra questi secondi: gli “orbi”!).
In quanto tale, quindi, cerco di recuperare qualche “diottria” facendo in modo che chi “orbo non è”, (o per lo meno s’è …. accattato, a caro prezzo delle lenti comme il faut) mi aiuti a vederci un pochetto più chiaro e, dato che provo a continuare a considerarmi appartenete ad una società civile e (tendenzialmente) democratica, mi sento in dovere di sbattermi anche un pochetto per offrire, a gratis, le stesse opportunità anche ai (tenedenzialmente) “pensanti” del mio intorno.
Di più, mi sono convinto (stanti i 75 sul groppone) sia per me pragmaticamente impossibile fare per los otros che non siano la mia amata family!
Spero così di aver delineato il contesto nel quale (nei limiti) ho partecipato (alla fine ….. addirittura nel ruolo di “direttore”) alla “SCUOLA DI EDUCAZIONE ALL’ECONOMIA – ANNO II” in 6+3 lezioni, cui faceva riferimento Rita nell’incipit della sua pregevole “lectio”.
Continuo poi con ….pervicacia a fare il redattore del Blog.
Plus ultra? Certo che si, ma ……
Pietro, potrebbe piacerti “Omero nel Baltico” di Felice Vinci, un autore studiato all’estero e ignorato in Italia. Oppure i libri dell’archeo-astronomo inglese Andrew Collins, ce ne sono due o tre tradotti. Neppure io mitizzo Gimbutas, comunque, che se da un lato ha fatto importanti scoperte dall’altro, nelle sue conclusioni, è troppo inquadrata nel femminismo di matrice anni ’70. Ma qui il discorso potrebbe diventare un abisso, meglio lasciar perdere e circoscrivere le nostre attenzioni a mercanti & mercati.
Urge, secondo me, che la politica si sganci dai mercati, se vuole continuare a fare politica. Altrimenti si rassegni a fare da serva in casa del padrone. Ai tempi dei “mercanti”, quelli veri, i mercati seguivano regole condivise ed erano in qualche modo prevedibili, “governabili”, mentre oggi abbiamo a che fare con dei banditi a piede libero. Perché dovremmo accettare un sopruso del genere? Non mi sembra che i “mercanti globali” in questi ultimi anni abbiano fatto il nostro interesse, in compenso hanno scippato agli Stati la loro sovranità. Una parola – sovranità – odiatissima dal Sistema. Eppure non è dimostrato che la decostruzione dei nostri poveri Stati-nazione, o ciò che ne resta, favorisca necessariamente la libertà, la prosperità e soprattutto la cultura dei popoli. Andare oltre questi mercati e questi “mercanti” sarebbe dunque un passo in avanti verso l’eliminazione del progetto flaccido e grottesco della gargantuesca costruzione mondiale. Che di mondiale ha soltanto la certezza di essere una baggianata.
Grazie per le indicazioni dei libri, Rita. Me li leggerò volentieri.
Sulla situazione economica da te descritta, forse il dinamismo degenerativo generale in atto nel mondo occidentale consiste nel fatto che stiamo rendendo stabile e strutturale una fase che in passato era stata vissuta dal sistema capitalistico come transitoria e periodica, accettabile nella sua temporaneità ma non nella sua irreversibilità. Si tratta del fenomeno che anche Marx aveva rilevato, quello del profitto non ancorato all’economia reale dei meccanismi produttivi. “Tutte le nazioni a produzione capitalistica vengono colte periodicamente da una vertigine, nella quale vogliono far denaro senza la mediazione del processo di produzione” (Karl Marx, Il Capitale, II, 1). Altre crisi del genere hanno colpito le nostre società capitalistiche ma stavolta l’illusione di questa “vertigine” pare divenuta la condizione permanente dei nostri mercati.
Questa duratura dinamica involutiva risulta ancor più severa in Italia, in assenza di politiche nazionali di tutela e sviluppo a lungo raggio delle attività dei settori primario, secondario e terziario rispetto alla “vertigine” della finanziarizzazione fine a se stessa. Non si tratta di fare “politiche protezionistiche”. Ma di fare “politica”. Quello che Germania, Francia e, in misura minore, altri Stati nazionali stanno cercando di fare, reagendo proattivamente. Stiamo infatti assistendo non a una naturale scossa temporanea di assestamento nella fisiologica dialettica tra la produzione e il commercio di beni e servizi, da un lato, e la loro valorizzazione finanziaria e borsistica, dall’altro, ma a un lungo, patologico periodo temporale (una dozzina d’anni circa) nel quale continua e si fa sempre più massiccio il trasferimento unilaterale di ricchezza dalle realtà agricole, industriali e commerciali nazionali alle centrali sovranazionali della rendita finanziaria e della speculazione borsistica.
Credo anch’io che la “vertigine” sia diventata ormai permanente. O, meglio, forse ha causato un malessere tale da sfociare in un male che nessun dottore moderno riesce a curare. “Protezionismo” non è una bestemmia quando ci sono evidenti disparità economiche sul lavoro (chi lavora per 50 euro alla settimana non può competere con chi ne prende 500, o 5.000), qui si tratta di difesa personale. Non è reato proteggere i prodotti nazionali che, se lo Stato è furbo, potrebbero via via “specializzarsi”, così che finiremmo per fare cose diverse: l’Italia venderà agro-alimentare, la Germania venderà automobili, l’America armamenti, la Russia materie prime e così via. Non che gli altri non lo possano fare, ma io credo che dopo un’indigestione di “quantità” come quella che abbiamo fatto negli ultimi decenni, una bella lavanda gastrica e un po’ di “qualità” non dispiacerebbero a nessuno, ne va del nostro benessere fisico e mentale.
Con la dialettica demagogica che ha contraddistinto gli ultimi governi, non solo l’Italia non è andata da nessuna parte ma ha considerevolmente peggiorato la propria condizione. Speriamo che i prossimi governanti si occupino finalmente del Paese e sappiano farsi valere oltre i confini. Non è che siamo obbligati a dire sempre di SI perché abbiamo un debito pubblico da paura, possiamo dire anche di NO, tanto il debito sarà da paura lo stesso.