DALL’ANALISI ALLA STRATEGIA
Un’analisi impietosa
Le piccole e medie imprese locali sono da anni in uno stato di sostanziale stagnazione (la loro crescita è quasi impercettibile). Fa eccezione, è vero, sia in termini di fatturato che di indici di redditività, il settore chimico, all’interno del quale spicca la cosmesi: si tratta, tuttavia, di un comparto tradizionale che difficilmente potrà svolgere il ruolo di traino dello sviluppo del territorio.
Le start up e le Pmi innovative, poi, dell’intera provincia sono davvero rare: 29 contro 167 di Bergamo, 138 di Brescia, 74 di Monza Brianza e 60 di Varese.
Questa, in estrema sintesi, l’impietosa analisi delle dinamiche economiche del nostro territorio che ci ha fornito, nell’incontro di giovedì scorso, il prof. Angelo Di Gregorio.
Polo di eccellenza… cercasi
Una situazione disperata? Il prof. Di Gregorio non esclude per nulla la possibilità di uscirne: quello che manca è un colpo d’ala, vale a dire l’individuazione di un polo di eccellenza che sappia attirare le realtà più competitive sia a livello nazionale che internazionale.
Già, ma in quale direzione? Il professore ci dà alcune indicazioni:
- un’agricoltura innovativa,
- turismo enogastronomico,
- smart city,
- centri di eccellenza sulla digital transformation.
Un Centro di Ricerca e di Alta Formazione a Crema
Percorsi praticabili?
Secondo Aldo Casorati, coordinatore dei 49 sindaci del territorio cremasco e il dott. Dino Martinazzoli, presenti in sala, le premesse ci sono per un riscatto: pur tra mille difficoltà, infatti, è in atto la costruzione di un cantiere di idee e iniziative, anche tese a realizzare la rete di fibre ottiche essenziale per far decollare le tecnologie digitali e muoversi nella direzione della smart city.
Le istituzioni locali, poi, si stanno attivando, dopo la decisione dell’Università degli Studi di Milano di chiudere informatica a Crema, per mantenere nel nostro territorio il Dipartimento di Ricerca Operativa e di trasformarlo in un Centro di Ricerca e di Alta Formazione.
Potrebbe essere proprio questo il polo di eccellenza auspicato dal prof. Di Gregorio, un centro che da un lato potrebbe formare la terza figura professionale – secondo uno studio – più richiesta al mondo (Operations research analyst), dall’altro diventare il motore della digitalizzazione dei nostri servizi pubblici e delle nostre piccole e medie imprese.
Ed ecco il nostro terzo e conclusivo confronto del “SECONDO MODULO”, con un accademico specializzato nelle strategie di rilancio dei territori.
IL RUOLO DELLE PMI NEL REALIZZARE UNA STRATEGIA DI SVILUPPO NEL TERRITORIO
Docente: prof. PAOLO PRETI, Laurea in economia e commercio presso l’Università Bocconi di Milano 1981
VENERDÌ 23 MARZO, SALA CREMONESI, ORE 21
L’abstract della lezione:
“Là, dove tutto è iniziato dieci, venti, trenta o anche ottanta anni fa, è bene che l’esperienza imprenditoriale prosegua perché lontano da quell’origine sarebbe difficile, anche se non impossibile, ricostruire e ravvivare il patrimonio di conoscenze e di rapporti,di immagine e di valori, in sintesi di fiducia, che hanno permesso all’azienda di raggiungere il successo. Piedi ben piantati nel territorio di origine ad alimentare il fare impresa attraverso punti di riferimento saldi e testa in giro per il mondo alla conquista di mercati e a captare tendenze. Nel pieno della globalizzazione identità, tradizione e fiducia sono merce relativamente rara e dal valore incommensurabile anche nell’agire economico: è un capitale da custodire e da accrescere. Non è solo ed innanzitutto il territorio dei distretti, peraltro assai importante, perché si può essere impresa forte anche lontano dal distretto di settore. Non è necessariamente un territorio che agevola l’attività dell’imprenditore perché, anzi, spesso gliela complica con difficoltà infrastrutturali, spazi fisici limitati e ostacoli nel reperire contributi professionali qualificati. È quel territorio dove l’impresa è nata, che spesso coincide con il comune di nascita e di residenza dell’imprenditore e di molti suoi collaboratori e che altrettanto spesso è un piccolo centro di periferia, quasi mai un capoluogo di provincia o di regione. Siamo una nazione di piccole e medie imprese, ma anche di piccoli e piccolissimi comuni dove il 72% della popolazione vive in centri con meno di cinquemila abitanti. La nostra è, e deve rimanere, un’economia di campanile aperta al mondo: è significativo che molte imprese forti lo vogliano ricordare anche nelle propria ragione sociale.
Il fondatore di una impresa è sempre una persona che prende idee dalla società, idee che altri non sono in grado di valorizzare, e che costruisce occasioni di lavoro, prende e dà, è un imprenditore e un datore di lavoro; è anche un “prenditore” di risorse dal territorio, da quelle umane a quelle fisiche fino ad arrivare a quelle più immateriali come le tradizioni e la cultura del luogo, con una attenzione tutta speciale alla fase di restituzione. Non si limita ad “usare” le risorse, ma opera all’insegna della reciprocità nello scambio, riversando nel territorio ricchezza sotto forma di posti di lavoro, di occasioni di business per altri soggetti, di iniziative culturali, di promozione e sviluppo del luogo d’origine per evitarne il progressivo abbandono da parte delle popolazioni e la perdita delle tradizioni. L’avventura dell’imprenditore inizia sempre dove la strada, fisica o metaforica, per tutti sembra finire.
Per molte aziende, come già detto, parlare di territorio significa anche intendere il luogo dell’approvvigionamento di competenze il più qualificate possibili, il luogo ove risiede il capitale umano di cui necessita: quel territorio non è più da molto tempo mercato di acquisto e di sbocco ed è sempre meno semplice sito produttivo. I pur presenti problemi legati alla limitatezza delle infrastrutture materiali a supporto dell’attività dell’azienda, acuiti dai ridotti investimenti previsti in argomento, sembrano lasciare spazio, almeno nelle priorità dell’imprenditore, a quelli legati al rapporto con le infrastrutture manageriali, segnatamente scuole e università, e con il mercato del lavoro. A questo proposito va fatta una precisazione. L’impresa forte ricerca il meglio di ciò che le abbisogna là dove questo può essere reperito: alcune risorse sono di prossimità, altre come il know how arrivano da lontano e non c’è alcuna contraddittorietà in questo. Si pensi, ad esempio, ai collaboratori: quelli tecnico-specialistici sono spesso locali, addestrati dalla consuetudine di mestiere che arricchisce il territorio, quelli con più alto tasso gestionale, che sono necessari a supportare il processo di crescita dell’impresa, arrivano da lontano o colgono l’opportunità di tornare al territorio di origine dopo esperienze professionali vissute altrove. La stessa cosa vale per il mercato del credito. Nessuna istituzione finanziaria è in grado di sostituire la banca di prossimità nel rapporto fiduciario con l’imprenditore quando il servizio richiesto è l’affidamento pensato su misura e basato, ancora oggi, su garanzie anche immateriali; certo, quando invece l’impresa deve allargare il proprio raggio d’azione ed entrare su nuovi mercati ha bisogno di fornitori di servizi finanziari di pari interesse e, laddove gli istituti di credito di prossimità non siano attrezzati a rispondere a tali nuovi bisogni, vengono affiancati da banche di maggiore dimensione. In sintesi, il forte collegamento con il territorio, percepito dall’impresa come fonte di alimentazione costante, non deve trasformarsi nè in riduzione dell’orizzonte d’azione, né in barriera all’acquisizione di competenze materiali e immateriali provenienti dall’esterno”.
Commenti
Una relazione di chiusura del corso alla grande.
Quella del prof. Paolo Preti è stata una bella e forte provocazione e un alto richiamo ad apprezzare e a valorizzare la nostra “diversità” (di italiani): siamo unici al mondo non per prodotti “di serie”, ma per prodotti “fuori serie”, per un’offerta “su misura” non per un’offerta “uniforme”, per una diversificazione dello stesso prodotto (dal salame al caffè, dalla pizza al vino…) cercando di soddisfare una vasta gamma di gusti e di sensibilità.
Siamo diversi e non possiamo permetterci di uniformarci a degli standard imposti dall’alto e neppure inseguire un modello – quello della grande impresa – tipico di Paesi che hanno alle spalle una robusta tradizione militare.