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ADRIANO TANGO

CO2 Tax: a che punto siamo?

Sembra assurdo che stiamo parlando dell’uovo di Colombo proprio quando siamo così vicini al baratro da poter sbirciare cosa ci sia sul suo fondo: qualcosa di molto brutto, peggio di un drago mangiabambini. E fra l’altro studiando il tema scopro che non è mio il paragone: ricercatori statunitensi parlano fra i rischi proprio di un effetto canyon.
Eppure non c’è ancora piena adesione su quest’evidenza logica sul rimedio.
Vediamo di capirci: se produco utensileria meccanica, prodotti chimici, o che so io, e non libero la bottega o stabilimento dagli scarti di lavorazione sarò presto impossibilitato a procedere oltre nel lavoro. Ma visto che lo smaltimento costa, io, furbetto, decido di buttar tutto oltre la rete nella back yard del mio vicino che, mettiamo, produce imballaggi per frutta. Ma questo secondo artigiano in breve o mi spaccherà la faccia o mi farà causa. Invece se trasferiamo il discorso a livello di Paesi produttori scopriamo che ci sono quelli corretti e quelli lazzaroni, e fin’ora nessuno dice niente, o quasi. Intendiamoci, perché “spaccar la faccia” in termini di politica mondiale vuol dire far la guerra, far causa rivolgersi a organi sovra nazionali, e campa cavallo!
E poi ci sono le questioni etiche attenuanti di colpa: se abbiamo iniziato per primi a inquinare non è forse giusto che siamo i primi a pagarne le spese dando tempo a economie più giovani per adeguarsi? Certo, se di tempo ce ne fosse, e se fra i lazzaroni non primeggiassero proprio economie evolute, non farebbe una piega. Quindi non è una questione di ricchezza: ci sono semplicemente Stati corretti e Stati prepotenti.
E così, mentre scorrevo per buttarli numeri poco interessanti della rivista “Le Scienze”, mi salta all’occhio il numero dello scorso mese con un lungo pezzo sul tema.
Che vergogna non averlo spulciato!
Vediamo di riassumere questa seria ricerca.
Il modello alternativo cap and trade = limite ammissibile e cessione quote da parte dei virtuosi, non ha funzionato a sufficienza. Servirebbero controlli troppo complessi essenzialmente.
Quindi, fermo restando che per ottenere qualcosa bisogna dare coscienza che l’alterazione dello stato naturale è un costo che ricade sull’economia stessa, si son messi all’opera fior di cervelli per stilare il calcolo. Calcolo consistente sulla perdita di produttività delle future generazioni; proprio come se i nostri discendenti fossero il nostro vicino tartassato da noi sozzoni, e pronto a farci causa.
Sulla scia di Arthur C. Pigau, economista di Cambridge dello scorso secolo (gran merito, riesce ad influenzare il guru Adam Smith), Nordhaus introduce il modello DICE che equipara il processo a un investimento con un tasso di sconto.
Niente paura: se io metto in banca 10 € al 50% mettiamo che dopo dieci anni mi ritrovi 150 €. Ma se mio figlio, che da me eredita mondo e capitale di famiglia, per colpa delle mal gestione dell’ambiente se ne troverà 130, il venti mancante è da addebitarmi. Definito il “costo sociale del carbonio”, DICE ha come successori FUND e PAGE.
L’economista R. Pindyck contesta comunque in blocco il metodo, carente di due variabili, una delle quali definisce semplicemente “catastrofe”.
E gli dareste torto? Il dinosauro sul fondo del burrone, o canyon, ha sempre la bocca aperta!
Ma restiamo sull’ottimistico, perché la difficoltà vera è altra: chi ha voglia di pagarla questa tassa? Eppure…
Fissiamo il tasso di sconto medio di un investimento: in Italia, per quanto ne so del 6%, ma l’articolo, statunitense, lo mette al 7%. Meglio.
Bene, tutti sanno che un tasso di sconto basso a tempi brevi arriva anche al 500% in tempi lunghi. Ovvio, se non spegni il focherello subito spegnerai un incendio domani, e viceversa se ben investi…
Inciso: il dinosauro giù nel buco fa molto prima a far un solo boccone di azionista, banchiere e cassiere, perché c’è un effetto soglia oltre il quale le cose precipitano, che poi corrisponde all’intervallo di incremento climatico fra + 1,5° e 4,5°.
Tal Weitzman ha anche tradotto il dinosauro in un teorema, ma poi ha affermato che il suo è il primo teorema della storia inutile, perché “dopo” nessuno avrebbe modo di servirsene.
Tuttavia è incoraggiante sapere che spender subito è spender bene.
Gira e rigira, fra i tre modelli di calcolo affermatisi e citati possiamo dire che una tonnellata di CO2 emessa “costa” fra 23 e 84 $, e con l’Euro il rapporto è facile. Attenzione, se non si fa niente il costo sale del 5% all’anno, salvo dinosauro, che non ha conti in banca ma una fame bestiale.
Arriviamo al dunque: chi paga, e perché dovrebbe farlo?
Cominciamo a esporre, sempre dalla stessa fonte, chi l’ha già fatto: una ventina di Stati, secondo aliquote per tonnellata del maledetto gas strangolatore fra i 00,8 $ della Polonia e i 121 della Svezia, e secondo aliquote sugli introiti fra il 4 e il 40% (facile per chi, già ricco, sguazza nell’energia pulita!). E l’Italia?
Cambio fonte, perché nel pezzo non è citata: a me risulta che in Italia la tassa sul carbonio sia stata introdotta con l’art. 8 della legge n. 448 del 23 dicembre 1998 secondo le conclusioni della conferenza di Kyoto. L’aliquota iniziale di 20 € a tonnellata è stata tuttavia congelata, non abolita, negli anni immediatamente successivi. Meglio che niente.
Vi riporto a seguito la mappa dei paesi che si sono adeguati.

 

Un po’ sfocata, ma non riesco a fare di meglio.

Ma comunque quanto bel grigio di lazzaroni! Lasciamo perdere il terzo mondo africano, che poi non tutti i paesi sono ormai così terzi, ma nord America e Centro Asia sono proprio un pugno nello stomaco!
Il su citato articolo fissa in 40 $ a tonnellata di Co2, più un incremento annuo del 5% il contributo che porterebbe gli Stati Uniti all’emissione zero nel 2050. La cessazione di concorrenza verso la Cina potrebbe generare un effetto domino?
Cosa ci guadagnerebbero queste amministrazioni? Oltre all’adesione al sentito popolare l’articolo cita i vantaggi economici di un flusso di capitali (parliamo di 1500 miliardi di dollari nel prossimo decennio) che transiterebbero comunque per le casse statali, che se saggiamente investite in tecnologie pulite costituirebbero le prime lettere della parola fine del tema letteralmente “scottante”.
E così vi è chiaro perché le elezioni presidenziali statunitensi non sono solo un loro, ma un nostro problema sopravvivenziale?

ADRIANO TANGO

19 Set 2020 in Ambiente

7 commenti

Commenti

  • Vedete amici, visto che non percepisco reazioni a questa messa a punto, penso che il titolo del numero successivo della rivista abbia colto nel segno: “Dopo la fine del mondo”.
    E l’editoriale dell’ottimo direttore, Marco Cattaneo, ben rende l’idea che il fatto che la sesta estinzione di massima, ma la prima con un colpevole ben preciso, l’uomo, ci lasci emotivamente distaccati, la dice tutta.
    Ma come facciamo a parlare con raccapriccio della cultura suicida di una certa gioventù di fine secolo scorso, giovani che in fin dei conti volevano sfuggire con l’autodistruzione a quel che noi avevamo fatto, quando noi, maturi e ben pasciuti omoni, non facciamo di meglio?
    Non mi offendo mica, non è che mi aspettassi plausi per la solerzia. Essendo questo un blog a forte vocazione verde faccio il mio dovere di cronaca, a volte con Silvestro, a volte senza.
    Ma se quest’indifferenza è dovuta al fatto che pensate che tanto non possiamo farci niente, io, adolescente, vi dico: “vi sbagliate di grosso, tocca a noi colpevoli invece parlarne!”

  • L’argomento è ovviamente rilevantissimo, caro Presidente. Però anche molto controverso. I giornali, la TV, i social media, i blog (anche questo, ce lo ricorderemo bene, immagino, non troppo tempo fa) sono pieni di discussioni sul fatto che il riscaldamento globale sia, non sia, sia solo in parte (quanta parte?) collegabile, in termini di rapporto causale, con le risorse energetiche (quali, in che misura, perché?) che emettono diossido di carbonio nell’atmosfera. Ricordiamoci che il negazionismo non riguarda solo le pandemie, i campi di sterminio e le conquiste scientifiche. Per cui, varrebbe innanzitutto la pena di dichiararsi e posizionarsi, su questo punto fondante del discorso. Altrimenti si gira dialetticamente in tondo e ricomincia la giostra.
    Ammesso quindi e non concesso che il problema esista, che sia proprio quello e che il diossido di carbonio non dipenda (o non dipenda soltanto, e allora quanto?) da sconvolgimenti epocali indipendenti dalle attività antropiche ma dipenda anche da noialtri ominidi appartenenti alla prima specie ecologicamente suicida (i tubi di scappamento, gli scarichi industriali e certi apparati vaccini non sono mere maledizioni demiurgiche), allora la realtà è chiara. Abbiamo quattro sfortune sul pianeta, riguardanti (forse non solo in questo, in quanto sfortune geopolitiche) proprio il possibile fallimento di una carbon tax (o comunque la si voglia chiamare), ma davvero quattro sfortune e sfighe e iatture, e una sola fortuna.
    Le quattro sfortune si chiamano Russia, Cina, India e Stati Uniti. L’unica fortuna si chiama Europa. Ma non solo guardando questa cartina del post e i vari colori. Eh no, perché conta la misura delle emissioni, soprattutto. Anche andandosi a vedere, ad esempio, lo studio di Don Fullerton del 2019 (per una sintesi veloce, si veda l’articolo di Alessandro Codegoni “Perché una carbon tax globale non si farà”, sempre del 2019), oltre ad alcuni altri contributi qualificati in materia. Basta cliccare la voce carbon tax su wikipedia e si trova tutto, anche per i ragazzi delle medie. Semplice e facile. I principali responsabili mondiali del problema non intendono metter mano al portafoglio e porre rimedio ai guai che vogliono continuare a provocare al mondo intero. Anche all’Europa, che invece stava tentando di pore argine a questo disastro umano, molto umano, troppo umano. Adesso, poi, col COVID (o COVIR), figuriamoci se qualche politico si arrischia a riparlarne, tra tante geremiadi economiche ormai di biblica dimensione e nibelungica drammaticità. E lasciamo perdere Greta. Se no ci prendiamo pure dei gretini.

    • Caro Pietro l’Europa ne sta già parlando, all’insegna dello slogan “Ci sarà forse un vaccino per il virus, ma non per il clima!”
      Il discorso negazionismo lo salterei a piè pari, tanto la verità sarà lampante fra pochissimi anni, e da padri di famiglia non potremmo non abbracciare saldamente ogni principio di precauzione.
      Una volta ripulita la coscienza come Europei, sbloccata la situazione statunitense, son convinto che la Cina sarà il primo paese a cedere. L’attenuazione di questo fattore sporco di concorrenza industriale permetterà a un governo, per quanto autoritario, di ascoltare il suo popolo. Non dimentichiamo poi che la Cina non è che non faccia niente, fa nucleare, e così ha già ripulito in parte il cielo delle sue città (tutto da vedere), solo non vuol sentirsi dire come fare.
      La Russia è un enigma. In un breve soggiorno a San Pietroburgo ho parlato con un professore (di scuola) che affermava che gli incendi in Siberia son tutti volontari e tollerati, in grande spregio a ogni sensibilità climatica. Il motivo sarebbe quello di mascherare le trasgressioni al divieto d taglio di legname praticato da industrie de legno, ed essendo anche un aviatore si diceva testimone oculare dello scempio che precede ogni incendio. Comunque sia è un paese che si è arrestato nella coscienza civica di massa, quindi sarà più dura, ma forse con l’effetto domino la sua popolazione, comunque capace di imporre improvvisamente il suo volere…
      Parlarne, anche semplicemente per consolarsi a vicenda quando sentiamo tremarci i polsi guardando ai nostri nipoti, o per cogliere ogni fiotto di speranza, vedi CO2Tax, serve molto. Siamo Cremascolta… e parla!

  • I guai nel mondo sono cominciati oltre un secolo fa, quando noi europei abbiamo cominciato a suonarcele troppo tra di noi e troppo poco agli altri. Adesso le prendiamo da tutti. Anche su questa CO2 tax, guarda Adriano quanto poco conti la nostra voce.
    Mi sembri un po’ ottimista sulla Cina, però spero che tu abbia ragione. Sulla Russia, no comment. A proposito, mi ero dimenticato del Brasile. Ma anche lì, lasciamo perdere.
    Bella l’immagine di noi nonni che guardiamo i nostri figli e nipoti. Non so però come ci guarderanno loro dopo che avranno ben capito quel che la nostra generazione ha combinato in loro danno. Intendo il vecchio adagio per cui la terra non l’ereditiamo dai nostri avi ma la prendiamo in prestito dai nostri discendenti.

  • Caro Pietro, anche se stiamo monologando, tu e io abbiamo vissuto l’epoca della crisi energetica del 73, e mi piace ricordarlo qui. Bene, quel che allora ci sembrava una mutilazione nelle nostre attese di vita: petrolio, velocità, industria, espansione, appagamento del noostro spirito vorace… adesso ci sembrerebbe un regalo della provvidenza (anche Provvidenza per chi vuole) per indurci alla retta via.
    L’uomo cambia se tuttti cambiano di una briciola. C’è speranza. Il fatto che tutto all’uomo accada in una manciata di anni mentre in natura l’adeguamento si verifica su tempi più lunghi di un fattore di migliaia di volte potrebbe essere un problema, ma la capacità di risposta dell’uomo si è evoluta tecnologicamente di pari passo con la contingenza. Un vero miracolo vero? Quasi le prove generali di libero arbitrio prima della calata del sipario.
    E allora… ma dov’è il problema? nella volontà. e la volontà dipende dalla percezione di pericolo. Ecco perché la visione di persone seguite, come te, è così mportante.

  • importante, sai, la polpastrellite…

  • Da “Il fatto quotidiano” di oggi “…se l’Italia spendesse l’80% dei fondi del “Next Generation Eu” (il cosiddetto Recovery Fund) per investimenti in decarbonizzazione, il Pil aumenterebbe del 30% entro il 2030 e il tasso di occupazione dell’11%”. Queste le conclusioni di un documento stilato a più mani da esperti. Personalmente ricordo solo le competenze professionali che l’Italia vanta in tema. Il passaggio da gas naturali a idrogeno verde, in particolare, se ne avvantaggerebbe immediatamente riportandoci al centro dell’attenzione del mondo tecnologico. E, vedi caso, proprio Crema è un eccellenza di saperi in merito.

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