Parto da alcune citazioni per meglio inquadrare il tema fondamentale in un periodo storico vicino ad un probabile cambio di rotta, speriamo di no, e che ci porrà di fronte a scelte epocali. Lo spunto mi viene anche dall’ultimo post di Marino e dalla legge in discussione, dalle vicende politiche in corso, Pd e Grillini sempre più contrapposti, forse alle regionali con scenari che cambiano in continuazione, e osservando modelli culturali che stando ai sondaggi stanno prendendo il sopravvento.
Dalle tradizioni agli stereotipi poi il passo è breve.
TRADIZIONI
Senza stabili tradizioni non vi è civiltà; ma senza la lenta eliminazione di queste tradizioni, non vi è progresso.
(Gustave Le Bon)
Senza tradizione, l’arte è un gregge di pecore senza pastore. Senza innovazione, è un cadavere.
(Winston Churchill)
Sotto l’aspetto quantitativo, come pure sotto quello qualitativo, la fonte di gran lunga più importante della nostra conoscenza – a parte la conoscenza innata – è la tradizione.
(Kark Popper)
La tradizione di tutte le generazioni passate pesa come un incubo sul cervello dei vivi.
(Karl Marx)
In etica come in altri campi del pensiero umano ci sono due tipi di opinioni: da una parte quelle rette sulla tradizione, dall’altra quelle che hanno qualche probabilità di essere giuste.
(Bertrand Russell)
L’ignoranza è la madre delle tradizioni.
(Montesquieu)
La tradizione è una bellezza da conservare, non un mazzo di catene per legarci.
(Ezra Pound)
Parto da qui, mettendo a confronto pensieri differenti. Inutile dire per quali io propenda, facendomi domande per me fondamentali:
1) Se avessimo coltivato solo le tradizioni quale sarebbe stato il cammino dell’umanità?
2) quale evoluzione avremmo avuto?
3) si può procedere nella selezione e quali sarebbero i criteri per una scelta piuttosto che un’altra?
4) le tradizioni non farebbero cadere nel tranello degli stereotipi?
Passando da Popper a Marx naturalmente si inserisce la mediazione di Russel che sappiamo un credente e che si contrappone a Pound che guai a toccargliele.
Premesso che non vuol essere un discorso astratto, cosa ne dite?
Io, la citazione che preferisco è quella da Montesquieu.
E così, dopo questa introduzione, parto da un’esperienza personale per avvalorare quanto sto raccontando e la mia tesi, tanto ai miei calderoni ci siete abituati. Se poi il signor Carra volesse una sintesi, ravvisando la solita confusione, allora salti tutto e si attenga solo alle ultime righe.
STEREOTIPI
“Stereotipi: si dice che noi italiani siamo creativi, si dice che siamo folkloristici, santi, navigatori, poeti. Si dice anche che siamo pasticcioni in un groviglio di leggi e leggine da amplificare a dismisura la burocrazia. E questo compilare carte, magari prima dell’informatica, riserva dopo anni sorprese tali da far pensare che il lavoro in Italia sia considerato giusto un obbligo. Non voglio dire che ci si debba appassionare a lavori alienanti, magari mal pagati, sarebbe disumano, ma se visiono un vecchio documento dove sulla stessa pagina il cognome é errato due volte, come le date, e in quello allegato idem, allora vuol dire che non solo i ponti crollano e alle prime piogge le città sono inondate, ma che anche nelle piccole mansioni siamo solo superficiali e approssimativi. Se poi, probabilmente senza un adeguato controllo le mansioni meno delicate, apparentemente senza supervisione finale, compromettono la correttezza della stesura di un atto con esiti indefiniti, allora non c’e speranza. Se poi constato che il documento é redatto a metà e inviato nelle sedi opportune come se fosse completo e poi scopri dopo anni che non ha nessun valore perché mancante di dati fondamentali allora ti incazzi anche di più. Questo rimediare agli errori altrui naturalmente contempla di rivolgersi ad altri professionisti che paghi, dopo averne pagati altri in stesura originaria, oltre al tempo sprecato, e all’incazzatura non c’è limite. E come se affidassi il progetto di costruzione di una casa ad un ingegnere per poi studiare tu stesso per capire se il calcolo del peso del tetto è supportato da adeguati pilastri. E’ come andare da un medico e poi verificare da solo, senza competenze, ma applicandoti, se diagnosi e cura sono corrette. Naturalmente, ricevuta la documentazione, archivi senza controllare troppo e questo è evidentemente nostra colpa. Così, di esperienza in esperienza arrivi all’amara conclusione che non ci si deve fidare di nessuno. E allora emergono tutti gli stereotipi che non danno giustizia a nessuno. E le generalizzazioni esplodono: i tifosi napoletani sono degli irresponsabili, amano far casino in totale spregio di tutte le regole, girano in tre sul motorino senza casco, parcheggiano dove vogliono e via discorrendo, non sono molto puliti, hanno avuto il colera e sono fantasiosissimi nell’inventarsi un’economia sommersa, anche divertendosi, tra sangue di san Gennaro e cornetti. Naturalmente un caffè buono come si fa a Napoli non si beve da nessun’altra parte. E ci campano pure. Già, divertendosi, tra lavoretti improbabili, fatti più di espedienti, appunto creativi, piuttosto che lavorare nelle campagne vicine a raccogliere ortaggi dove magari il lavoro c’è. E allora si ritorna al reddito di cittadinanza, alle false invalidità perchè si dice che i meridionali non amino lavorare, ma preferiscano farsi assistere. Del resto con la Storia che hanno non è neppure colpa loro. Allora via con gli stereotipi progressisti. Che sono pari a quelli da bar sport, come la compassione e solidarietà per la ragazza rapita in Africa e poi convertita all’Islam. Perchè noi progressisti troviamo cause storiche per tutti, o compassionevoli, siamo politicamente corretti. Così che i popoli frugali europei faticano a convincersi a collaborare. Naturalmente l’elenco potrebbe continuare alimentando quei preconcetti che sempre hanno caratterizzato la nostra identità fatta appuntodi spaghetti e pizza. Naturalmente siamo noi i primi ad alimentare le dicerie che accompagnano il modello italiano nel mondo. Naturalmente abbiamo i migliori stilisti e cuochi perchè come ci si veste e si mangia qui non si fa da nessuna parte. Peccato che ogni tanto vengano alla luce vino al metanolo e altre frodi alimentari e i ricami per l’alta moda sono commissionati a donne orientali pagandole niente. E anche navigatori lo siamo, magari da Costa crociere e inventare e scoprire il mondo lo lasciamo fare ad altri. Così siamo sempre indietro in fatto di innovazione, tecnologia riempiendoci la bocca di start up dove lavorano in tre e si enfatizza chissà quale apporto tecnologico ed economico al sistema.
Insomma, noi italiani chi siamo?
Se volessimo tirare le fila e operare una sintesi credo di poter dire che noi italiani siamo superficiali, poco scrupolosi, approfittatori e lazzaroni. Siamo anche mafiosi, corrotti e perennemente fascisti. Il resto è folkore, buono per turisti stranieri di bocca buona, obesi e avvinazzati, e per loro ci inventiamo tour eno-gastronomici a pacchetto dove, secondo Petrini, di locale e autentico non c’è proprio nulla. Insomma, siamo anche un popolo di truffatori. Che non cambia mai. E non dimentichiamo religione, riti, processioni, magari con inchino, flagellanti, reliquie, che i simoniaci nei secoli si devono essere divertiti un casino, un sud culturalmente ed economicamente arretrati, ma questa è realtà, non stereotipo, basta fare i politicamente corretti, e un nord cosmopolita, mammoni… e basta così. Insomma, siamo dei tradizionalisti.”
Ognuno poi si identifichi nella citazione che vuole, pro o contro le tradizioni.
Commenti
Tradizioni: ma se la vedessimo in senso etologico, come son solito fare?
Nella famosa comunità di scimmie nella quale hanno imparato a lavare il cibo a mare, raccogfliendo solo ciò che galleggia e quindi è pulito, gli etologi hanno studiato come prende piede l’innovazione: i giovani sperimentano, selezionano le proposte, le propongono alla comunità. I vecchi si oppongonop con tutte le forze., poi ci ripensano, provano, quindi approvano. Come le nostre due camere! Da quel momento l’innovazione è tradizione.
Stereotipi: quel che ho sperimentato in un solo giorno, anzi mattinata, qui alla casa al mare al sud, in tema di stereotipi nord/sud, ribatlta tutti gli stereotipi, tanto da farmi consigliare da mio figlio, cremasco, di stare attento a quel che dico. Riferirò in un post.
Ma l’innovazione successiva cancella la tradizione.
Infatti, non si perdono in problemi, vanno allo scopo.
…gli animali sono più intelligenti di noi. E alla fine le tradizioni non esistono. O non chiamiamole così.
Risposta sopra
Pongo una domanda per chiedere se mai nella storia dell’evoluzione umana ci sia mai stata una tradizione degna di essere mantenuta. Se non arrivasse nessuna risposta dedurrei che i tradizionalisti sbagliano sempre tutto. Accidenti, qui ci vorrebbe anche il signor Cadè.
Parlerei di percentuali di aderenza al modello comportamentale specie specifico, più che di tradizione come regola, e mi spiego: cigno e aquila sono animali monogami a vita, quindi la tradizione di far coppia non è tale, ma una pulsione innata. Le apes, primati maggiori, hanno una percentuale di monogamia dell’80%, che curiosamente coincide negli stuidi etologici e nei campioni di DNA umani, quindi ci comportiamo da bravi gorilli. Ce n’è abbastanza per continuare a far famiglia, far coincidere il luogo sociale della consumazione del sesso e procreazione col nucleo base, e così via, ma ci sono elementi anche per delle varianti, e ancora una volta così è. Cosa determina le varianti? Fattori geo- sociali di utilità. L’arem maschile è una soluzione, la poligamia femminile un’altra, ma rispondono a differenti esigenze: la femmina di gepeto (avvoltoio gigante) è bigama, ma i suoi sposi si spostano in cieli vasti quanto il nord Italia, quindi ce ne vuole almeno uno con la preda di ritorno al nido, e visto che i due maschi presumono la paternità, la prole se ne avvantaggia. Idem per le Spartane, con tutta la loro mortalità in guerra degli sposi: sposare più fratelli in un colpo solo diversificava il rischio. Ricordiamo che Sparta soffrivva di denatalità come Atene di sovraffollamento. Quindi è sbagliato cambiare tanto per far novità, altrettanto insistere nella tradizione con caparbietà al mutare delle situazioni. Esempio eclatante è la salutare progressine attuale dell’omosessualità che tanti si ostinano erroneamente a osteggiare: è la natura che trova la soluzione.Quindi quando cambia un dettaglio passi, ma quando si stravolge qualcosa chiediamoci se il cambio di rotta corrisponda a qualcosa, non se sia giusto o sbagliato, valori assurdi, perché l’etica è strettamente utilitaristica. Nel dubbio cambiare e stare a vedere che succede.
Sto sul leggero: il palio di Siena che quest’anno non ci sarà. Per me son tutti matti.
Ivano, superato il senso di disorientamento provocatomi dal tuo …..denso post, e resistendo alla tentazione di seguire il consiglio che hai dato a Pietro Carra, provo a dire la mia:
I personaggi che hai citato, sul tema “tradizioni”non sono affatto personaggi “de niente” e trarne per ognuno una sorta di slogan, come hai fatto, è evidentemente rischiosa semplificazione; non avendo peraltro io attrezzatura sufficiente per inquadrarne il pensiero vedo si “stare al gioco” e, come hai fatto tu sul tema “tradizioni” mi aggancerei ad una sorta di ….combinato disposto Montesquieu/Pound!
Non so che razza di perfida esperienza personale ti sia toccata, che ti ha fatto sperimentare sulla tua pelle l’inefficienza, l’approssimazione, la non professionalità di un apparato con il quale sei entrato in contatto, ma credo che nel “buffo stivale” non sia difficile imbattersi in pubblici uffici nei quali aver a che fare personaggio che non siano proprio dei mostri di professionalità!
Da qui, trarne le generalizzazioni che portano agli “….stereotipi che non danno giustizia a nessuno. E le generalizzazioni esplodono….” non so bene dove ci possa portare. Ok, non siamo …”in Svizzera”, però ho lavorato per parecchio con un ruolo dirigenziale, a contato con dipendenti di pubblici uffici, e non me la sentirei proprio di fare di tutte le erbe un fascio anzi, direi che quasi sempre, se l’approccio era quello di apprezzare i casi nei quali si …. “sorprendeva” l’operatore ad aver fatto qualcosa di ben fatto, era possibile innescare un percorso virtuoso che migliorava l’efficienza.
Mi ha sorpreso poi che in questa tua sconsolante immagine che hai tratto dell’”Italianità”, tu abbia trascurato l’Arte, la “bellezza” che ha albergato e (anche se in minor misura) alberga ancora nel nostro “bel Paese”! E non solo l’Arte “blasonata” è, intendiamoci, anche l’”arte” del bravo fresatore …. “da quei che i ga fa le scarpe a le mosche”, del casaro che sa cavarti da un latte di capra, che magari “puzza” anche un po’, un prodotto sublime e delicato al gusto!
La “Tradizione”, quella ottusa, del “perchè s’è sempre fat isè!”, non può dare le “dritte” che ci servono nei nostri anni 2000, ma piuttosto il chiederci: “perchè si è sempre fatto così”? ci può davvero servire per capire un po’ meglio, in modo più motivato, se continuare “a fare così” o diverso!
Certamente Francesco. In questa autoanalisi che può essere Cremascolta si pongono i temi che interessano. In questo caso tradizioni, stereotipi e quindi pregiudizi si innescano, si intrecciano tra di loro in un rimando continuo. E basta un momento di debolezza, di sconforto per caderci. L’importante é rendersene conto. Francesco, poi avevo preparato un commento che non ho inviato dove distinguevo tra beni, diciamo immobili piuttosto che mobili, città d’arte, musei paesaggi che facendo parte della nostra storia e identità, mi pare confliggano parecchio con l’esperienza di tutti I giorni che non rende giustizia a quello che nel tempo abbiamo costruito. Aver creato bellezza non vuol dire essere diventati tutti belli.
Una sola domanda (faccio riferimento ai popoli… frugali): è uno stereotipo, il loro, quando temono che gli italiani non saranno capaci (come fino ad ora, secondo loro, è accaduto) di spendere bene i contributi a fondo perduto? Noi siamo i primi a vedere gli stereotipi degli altri, ma siamo sicuri che si tratti in questo caso di uno stereotipo?
Piero, non é uno stereotipo. Io sono sempre più convinto del mio post.
Bellissimo tema, Ivano.
Nel senso usato oggi, secondo alcuni, pare che il termine “tradizione” si diffonda in francese, nella parte d’Occitania subentrata alla Septimania, in quel XII secolo così significativo proprio per certe riprese “tradizionali”. Ovviamente, la derivazione è da “traditio”, da “tradere”, nel senso latino che ben sappiamo, e prima ancora indoeuropeo. Nel XVI è ormai termine consolidato in Europa, in quasi tutte le lingue d’origine romanza, soprattutto nel senso di “complesso delle memorie trasmesse da una generazione all’altra”, in una “stirpe” e poi in una “comunità”. Dal XIX secolo ne diventano innumerevoli e spesso contradditori gli svolgimenti semantici, in ambiti sempre più differenziati: filosofico, storico, giuridico, antropologico, esoterico e via dicendo. Per cui, oggi mille cose diverse vengono intese e fraintese parlando di “tradizione”. E già dirlo al plurale, “tradizioni”, ne aumenta l’infinito numero delle valenze lessicali.
Curioso che anche “traditore” e “tradire” derivino dal medesimo plesso di locuzioni. Se quindi, da un lato, la “tradizione” cerca di trasmettere delle modalità di accesso alla comprensione del senso del reale e una conoscenza dei suoi elementi fondativi ed essenziali, basata su esperienze e cognizioni risalenti, dall’altro esiste costantemente il rischio di deviazioni, falsificazioni, per l’appunto tradimenti. E ciò in quanto, di generazione in generazione, di persona in persona, da maestro ad allievo, non sempre è umanamente possibile ignorare le condizioni di spazio e di tempo, impedire cioè che, mentre la ruota del carro gira, anche il mozzo centrale, che dovrebbe guidare immobile il movimento dei raggi, sposti la sua posizione, soprattutto sui terreni storici più mossi e accidentati. Questo è un problema, da sempre, ricorrente in ogni visione “tradizionale” del mondo e della vita.
Naturalmente, la problematicità è aumentata dalla sempre più inarrestabile moltiplicazione delle “tradizioni” che, da metafisiche e trascendentali, tendono nei secoli a farsi storicamente sociali, di costume, di consuetudine, di folklore, di cerchia ristretta, d’entourage, anche locale, professionale, pure familiare, comunque di gruppo limitato, talvolta anche in contesti iniziatici, rituali, poco decifrabili. Ecco perché di “tradizione” è difficile parlare compiutamente, senza trovarsi in un mare d’onde concettuali e semantiche, spesso senza bussola, senza sestante, senza approdo.
Grazie Pietro. Se poi vogliamo complicare fuor di misura le cose introdurrei anche le abitudini di ognuno che con l’avanzare dell’età diventano il filo conduttore della nostra quotidiana esistenza. E a ritroso nella graduatoria, tra abitudini, pregiudizi, stereotipi, e tradizioni siamo belle fottuti in coazioni a ripetere che ci dimostrano come il cammino evolutivo dell’uomo sia difficile.
Se ci sarà un cambio di rotta, i furbetti del quartiere, e del quartierino, i tradizionalisti o vandeani culturali continueranno a fare quello che fanno, cioè gli ipocriti sfruttando le conquiste volute da altri: il divorzio, l’aborto, la maggior libertà per le donne, la fine della censura nelle arti, nel cinematografo, ai teatri, e potranno vedersi su Mediaset i programmi “osceni” che alle sentinelli in piedi non hanno mai dato fastidio. Berlusconi che è più intelligente dei leghisti suoi figli culturali, e della Meloni che fa tanto la democratica con l’amato ricordo di Giorgio Almirante, non so cosa pensa, ma sa che tutto il mondo è paese, si fa la voce grossa in pubblico, ma poi il privato è altra faccenda.
Che poi le tradizioni non esistono proprio, se non per emuli mezze calzette, in tantissimi ambiti, dall’arte figurativa alla scultura, dall’architettura all’urbanistica, dalla poesia alla narrativa. La musica, tutto è sempre stato in evoluzione se pensiamo alle tradizioni come stilemi che nelle varie epoche si sono susseguiti per poi rinnovarsi. E cancellare iprecedenti. Si prende quello che c’è e si trasforma perchè la curiosità degli uomini esiste, non saremmo arrivati alla Luna se non fosse così. Saremmo ancora alle grotte di Lascaux e ai tamburi africani. Non avremmo neppure la ruota. La filosofia invece non cambia mai, cambiano le parole ma gira e rigira le domande sono sempre le stesse, camuffate da finte nuove domande sui rapporti tra noi e gli altri, tra noi e la tecnica o tecnologia, tra noi il mondo in continua trasformazione. Ma è solo un adattamento, un adeguamento a quello che cambia senza che l’uomo e la sua natura non cambino mai. Poi ci sono i valori in continua contrapposizione culturale, ideologica con accelerazioni al cambiamento in certe epoche e stagnazioni, se non ritorni al passato in altre. Tutto cambia, la trasformazione è continua e mi chiedo sempre come la nostalgia possa diventare il paradigma per distinguere e classificare il bene e il male, il giusto e l’ingiusto. Ha ragione Adriano quando dice che tutto è utilitaristico, o dovrebbe esserlo, e va valutato dai risultati, non dalle attese morali o religiose che dettano legge. Tema complesso, indubbiamente, in tutte le sue declinazioni, ma l’impressione è che le tradizioni non servano altro che a disseminare le pianure e le montagne di marroni cartelli, magari sbagliati, come fa osservare spesso Marino, a designare le strade del gusto e dei vini, non ad altro. No, le tradizioni non sono mai esistite.
Ivano, potranno essere belle o brutte, comode o scomode, amate od odiate, però le “tradizioni” esistono, di fatto e talvolta di diritto. Inoltre, non vorrei aver dato l’impressione di voler introdurre una visione “relativistica” della “tradizione”. Volevo solo accennare a un aspetto critico in cui l’elaborazione concettuale “tradizionalista” a volte incappa, soprattutto mettendo la maiuscola (“Tradizione”): se si chiede a diversi interlocutori di esprimerne in poche righe il significato, raramente le risposte coincidono. E il sostenere la difficoltà di un’esplicitazione verbale, ipotizzando modalità intuitive, esperienziali o addirittura iniziatiche, porta a frammentare ancora di più il discorso e ogni possibile intendimento comune del termine. Insomma, o ci si rifugia nelle accezioni più correnti e di pronto uso, come per le consuetudini, il folklore e le rilevazioni sociologiche e antropologiche oggi in voga, per certe pratiche abitudinarie di gruppo e di appartenenza, magari anche per certe applicazioni etiche e valoriali specifiche (il divorzio, l’aborto, l’ampio comparto bioetico delle polemiche sulle famiglie e adozioni omosessuali, sulle locazioni uterine e sulla contrattualistica seminale, ad esempio); oppure la dimensione generale e sociale sfugge alla “Tradizione” (ma forse è il contrario, è quest’ultima che tende ormai a sfuggire alle masse e alle folle) e restano ai “veri tradizionalisti” (reali o supposti), come terreno fruibile e praticabile, solo specifiche perimetrazioni e declinazioni di nicchia. Si tratta di nicchie non necessariamente aristocratiche ed elitarie. Da sempre l’esplicazione di pulsioni, emozioni e tensioni verso la “Tradizione” (al singolare o al plurale, con la maiuscola o senza) coinvolge, a volte con fraintendimenti ed equivoci, le fasce sociali più abbienti e facoltose come il ceto medio borghese, le plebi del contado come il popolino urbano, il gran signore come il parvenu, il rentier come il sottoproletario. Il canto delle sirene “tradizionaliste” affascina da sempre i naviganti dell’Essere e del Divenire, sia a Destra che a Sinistra, sia al Centro che alla Periferia degli schieramenti ideologici e politici, a volte premiandoli con nettari e ambrosie spirituali, altre volte punendoli con nubifragi culturali e naufragi intellettuali.
Pietro, ad ognuno le sue?
Senza stabili tradizioni non vi è civiltà; ma senza la lenta eliminazione di queste tradizioni, non vi è progresso.
(Gustave Le Bon)
Pietro, non autorizzata, ho visto in televisione una processione ad Agrigento per il patrono. Assembramenti, bambini vicinissimi, protezioni niente e un sacco di adulti scalmanati. In un momento ancora Covid. Che le tradizioni esistano, ma ripeto, ognuno le sue, è fuori discussione, anche nel mio paradosso che non esistono. Difatto non tutti gli agrigentini erano presenti che vuol dire che probabilmente a molti di quelle tradizioni non frega un bel niente.
In questo caso per Le Bon, una delle tante letture possibili del termine, il superamento delle stesse forse vorrebbe significare il progresso sanitario. Che poi ognuno porti acqua al suo mulino è chiaro e allora ricito anche Marx che dice che la tradizione di tutte le generazioni passate pesa come un incubo sul cervello dei vivi.
In tutti i casi il senso del mio post era giusto quella catena che porta dalle tradizioni agli stereotipi, da questi ai preconcetti e da questi ancora alle abitudini. Niente di più immobile. Il mondo non avrebbe fatti il suo corso. Non dico che non esistono, ma sempre hanno ostacolato qualsiasi evoluzione. Comunque ragazzo, come scrivi bene.
“Di fatto” e “fatto”. Sorry.
Troppo buono, Ivano. Grazie, comunque.
Ad ognuno le proprie “tradizioni”, tu dici? Non lo so, potrebbe essere un’idea.
Mi sa che forse ne uscirebbe, anche qui, un gran bel “Caos”. Magari, sta già succedendo. In fondo, non c’è parte del mondo che non ne abbia già parecchie di sue, da molto tempo. E immaginare che si tratti di sgranature di originarie “tradizioni” univoche, primigenie e magari “sacre”, babelicamente differenziatesi da quei fondamenti originari, mi pare un bel sogno, un po’ tra il nibelungico e il preraffaelita, sul quale però non metterei la mano sul fuoco.
Sono più un evoluzionista che un involuzionista, credo poco al progresso però ancora meno al regresso, per cui preferisco dichiararmi, pilatescamente, agnostico sulla tua domanda.
Bisogna ammettere che le “tradizioni”, quando diventano consuetudini sociali e convenzioni civili, aiutano a pianificare, gestire e controllare la realtà, le risorse e i fatti (sarebbe antipatico aggiungere le persone). In effetti, il percorso dalle “tradizioni” alle abitudini, da queste agli stereotipi e quindi ai preconcetti che diventano pregiudizi, non è poi così lontano da parecchie esperienze storiche.
Da ragazzo, mi piaceva la posizione di Nietzsche riguardo alle “tradizioni” (so che certe citazioni sono fastidiose, pazienza), nel senso che sappiamo quel che ne diceva, con quale stile e con quale forza.
Un aspetto importante mi pare infatti quello della “libertà della tradizione”, nel senso di poterla seguire liberamente per scelta, ma anche della “libertà dalla tradizione”, nel senso di poterla non seguire evitando imposizioni e coercizioni. Discorso “moderno”, che può far arricciare il naso a taluni “tradizionalisti”. Ma le bellissime pagine di Nietzsche in proposito sono lì a dirci quanto questa libertà di scelta sia essenziale, proprio volendo comprendere, apprezzare, vivere e trasmettere una propria “Via alla tradizione”, attraverso quell’ordinamento, quella ritualità, quella significatività che dovrebbero darle senso e credibilità.
Sarà estate, forse è per questo che non sta intervenendo nessuno, ma se sfoglio il giornale in questi giorni mi sembra di leggere pagine fotocopia. Siccome poi io sono quello dei calderoni o minestroni, tra le tradizioni italiane ci metterei anche il malcostume, col beneficio del dubbio, sia chiaro, da parte degli uomini delle Istituzioni. Fossero politici o forze dell’ordine si assiste ai soliti vizi italici, in verità si potrebbe postare articolo dedicato, così che la gente comune finisce poi col fare di tutt’erba un fascio. Del resto in momenti difficili è facile lasciarsi andare ad umori non così edificanti, naturalmente divisi tra chi parla di inchieste ad orologeria, tanto da innescare le solite discussioni tra i tre Poteri dello Stato, e chi invece, populisticamente ha già tirato le sue conclusioni. Certo che se leggo che la madre di un Governatore, che in tempi andati faceva la dentista, mettendo da parte non so se in Svizzera o alle Bahamas un gruzzoletto di 5milioni di euro, credo che farei bene a chiedermi se sia valsa la pena fare per tanti anni il maestro elementare. Ma si sa, tutto è frutto dell’invidia sociale dei poveri contro i ricchi, come è invidia quella di tante donne perchè l’amante di un noto imprenditore è stata liquidata con una buonuscita di 20milioni di euro più un milione l’anno per le spesette di tutti i giorni. Del resto perchè chiederLe di rinunciare alle tradizioni consolidate in alcuni anni di convivenza? Chi è abituato bene ha tutto il diritto di continuare a farlo.
Ivano, hai citato un paio di esempi eclatanti assai che inducono al gridare vendetta, allo scandalo , ai …..forconi!
Ma ai forconi, noi del “buffo stivale”, non ci siamo mai andati e tanto meno lo faranno i “populisti de noiartri”, più adusi a maneggiar nutella, rosari e “madonne miracolose”!
Aggiungerei ai tuoi due esempi quello dei Carabinieri della Caserma di Piacenza che (mal interpretando il motto “nei secoli fedele”, si sono adeguati nella …..fedeltà al malaffare!) hanno organizzato una loro propia “malavita organizzata”, provocando danni enormi rispetto alla credibilità di un’istituzione insostituibile per la Nazione!
Se lo Stato e la stessa Arma non opereranno col “bisturi” in profondità, a tutti i livelli, im modo veloce ed altrettanto eclatante, uscendo con deterninazione dal Déjà vu dei “quattro mariuoli” (Bettino-Mario Chiesa e….venne giù la prima Repubblica !!!) , o le conseguenze potranno essere ancora una volta terribili!
Capo dello Stato, Governo, Parlamento, Magistratura, questi e non altri, i rifermenti che la Costituzione assegna alla nostra Repubblica, non dimentichiamolo!!!
Non mi ero dimenticato delle Forze dell’Ordine, vicenda che ha sconcertato tutta Italia. Soprattutto penso a tutti quegli arresti per i quali i militari di Piacenza hanno pure ricevuto encomi. E’ di stamattina l’intervista ad un piccolo spacciatore finito in galera tre anni, secondo lo stesso, senza giusta causa. Negli anni gli arresti sospetti sono stati 40, ma questo lo sanno tutti. Quello che mi sconvolge e che poi questi militari sotto interrogatorio piangono, si disperano. Senza valutare che ben altri pianti e disperazioni hanno causato, o valutandolo troppo tardi le loro nefandezze. Credo che non ci sia niente di peggio della privazione della libertà, se ingiustificata. Io ritengo che sia meglio un delinquente in giro che dieci innocenti in galera. Come mi sconvolgono le fotografie diffuse via social, credendosi comunque al sicuro, con ventagli di banconote in primo piano e il loro sorriso sarcastico da impuniti per Statuto, protetti dalla divisa. Come mi fanno incazzare le intercettazioni telefoniche del capetto che si vanta col figlio bambino di aver massacrato, non solo lui, e non da solo, quel poveraccio di colore. Che se anche fosse un delinquente non si dovrebbe fare comunque. Non abbiamo aspettato per anni il reato di tortura? Come mi lascia esterrefatto che tutto questo sia continuato per anni. Se vediamo un nostro conoscente che vive al di sopra delle sue possibilità non ci chiediamo forse da dove deriva il suo stile di vita? Ora si spera solo che la Magistratura faccia il suo lavoro con serietà, e che questo serva da lezione non solo all’Arma. A tutti noi. Ma ci credo poco, di mele marce ce ne saranno sempre, in politica, nella società e tra le forze dell’ordine. A meno che tutti non si finisca nel letto di Berlusconi. In quel caso non ci sarebbe bisogno di delinquere. Basterebbe andare a vomitare subito dopo. Povere donne. Ma questa non è tradizione solo italica, o sì? Ricordi Francesco quando hai scritto che stavo facendo un ritratto troppo impietoso di noi italiani? Le ultime vicende non lasciano spazi a dubbi. Non c’è niente da fare: l’occasione fa l’uomo ladro. Ricordo, non nei dettagli, il caso di quella Ministra di non so quale paese europeo, che per non aver dichiarato la proprietà di un box dovette dimettersi.
Ci si assuefà a tutto, è questa la questione, e quindi si perde la capacità di indignarsi.
Sulle palanche, cioè sulle questioni private, su cui batto spesso, anche “prima gli italiani” vuol dire anche prima gli italiani pensano bene di far fruttare il borsellino sudato con tanta fatica? E’ un diritto!!! Poi, gli italiani non fanno caso, quando votano, se ci sono stati episodi di corruzioni; corruzione, parola grossa. Magari per colpa di magistrati comunisti, di teoremi, di giornali delle procure che campano sulle accuse agli altri. E loro, le loro palanche? Bisogna prima trovare la prova certa, il danno certo ai contribuenti; poi ci sono tre gradi di giudizio. Qual’è poi il problema? Perfino un filosofo, che conosce bene le profondità del pensiero come Massimo Cacciari dice che sarebbe meglio un ladro efficiente che uno onesto impacciato nell’amministrare la cosa pubblica. E quindi se lo dice un filosofo serio, più o meno, che fare? Abbandonare la filosofia? Portare il mio gruzzolo bello pesante a Lugano, città piccola che mi è sempre piaciuta? Direbbero che sono un pezzente? Già. Quindi dovrei correre al parcheggio (caro) di Lugano e tornare con la mia utilitaria nel Belpaese e il piccolo gruzzolo che non ho? Come si fa a mettere i soldi alle Bahamas? Se vado alla Cassa Rurale di Offanengo mi spiegano bene come fare, qunaod lo avrò? Quante cose di cui sono ignorante.
Signor Macalli, che poi sia giusta tradizione difendersi mi pare sia sancito dalla nostra Costituzione. Tutti abbiamo diritto ad un giusto processo, non in aula consigliare, e se non possiamo pagare un avvocato allora ce ne rifilano uno d’ufficio. Giustamente il governatore Fontana ieri ha fatto bene a difendere in aula l’onestà della sua famiglia davanti al fisco. E se le tasse la madre dentista e il padre medico devono averne pagate tante visto il gruzzoletto accumulato. Ma erano tempi antichi e l’evasione fiscale era condannata molto meno di adesso che i nostri politici adesso e studi dedicati quantificano in due o tre finanziarie. Poi la famiglia Fontana abitava vicinissima al confine e quindi portare i soldi in Svizzera, poi alle Bahamas, era prassi di tutti i ricchi. Perchè avrebbero dovuto fare diverso? In ogni caso vedrà che quando tutte le carte saranno scoperte, quando risaliranno alle polverose denunce dei redditi, scopriremo che tutto si è svolto regolarmente. Non vorrà per caso pensare che tutti gli italiani sono disonesti?
Le tradizioni, altro esempio, servono ai mediocri di cui è costellato il firmamento artistico, e questo vale in modo particolare per le arti figurative. Senza quelle non saprebbero da che parte iniziare, così che ricalcare vecchi modelli è l’unica strada percorribile. Strada rassicurante perchè diventa difficile confrontarsi piuttosto che misurarsi con le nuove forme che il mercato dell’arte contemporanea impone. Naturalmente i mediocri neppure ci provano ad osservare per capire, insomma ad essere informati di quanto avviene nel panorama italiano eccetera. Naturalmente non visitano le grandi esposizioni e neppure danno un’occhiata in rete, anche se le opere secondo me vanno studiate dal vivo. E se hanno un maestro quello rimane tale per sempre. In genere la poca cultura fa adagiare placidamente nel conosciuto perchè certe tradizioni artistiche sono state ormai metabolizzate dai più e sono rassicuranti. Così che nelle case vedi i poster di Klimt o di Chagal, come vedi lunghe file in attesa di vedere quell’autore antico o moderno in mega mostre dal grande battage pubblicitario. Poi magari è difficile dire se Picasso è ormai entrato nell’immaginario di chiunque, così che, a chi si presenta in odore di artista, senti ancora chiedere se dipingono paesaggi, nature morte, ritratti o nudi. E questa domanda dettata appunto dalle tradizioni è di conforto a molti che credono ancora di poter discettare sui grandi temi artistici. Perchè nelle tradizioni è difficile cavarne profitto, distinguerne le epoche, le scuole, le firme. Così che una scultura è antica e basta, fino all’azzardo di riconoscere un espressionista scambiandolo per un impressionista. Ma qui già si pretenderebbe troppo, anche lessicalmente. Ma per i non addetti ai lavori l’ignoranza è giustificata, allora è facile che apprezzino una Madonna o la canestra del Caravaggio, perchè basta non sapere che nei secoli è stato creato altro e al Louvre infognarsi, post Covit davanti alla Gioconda e poi passare davanti alla Nike senza degnarla di uno sguardo. Naturalmente per gli artisti millantatori rifugiarsi nelle tradizioni è grave, deleterio anche se si trova qualcuno tradizionale quanto te e il quadretto riesci a piazzarlo e quel giorno sei contento. Poi ci sono quelli che credono solamente di appoggiarsi alle tradizioni, apportando il nuovo, trasformando il precedente, senza capire forse che nel gioco delle tradizioni qualcuno più sveglio di te quella cosa nuova che credi di aver creato l’ha già inventata. E’ come se volessi scoprire il vaccino contro la poliemielite senza sapere che c’è già. Il mio criterio, quando da giovane ambivo a far l’artista era: se un mio lavoro piace ad un imbecille significa che lo sono anch’io. Per dire che senza le tradizioni molti sedicenti artisti non saprebbero dove attingere, ma con quelle è sempre un ripetizione. Senza il Perugino non ci sarebbe stato Raffaello e senza la scultura africana non ci sarebbe stato Picasso. Si prende quello che c’è e lo si trasforma, ma i tecnicismi sono inutili per chi si crogiola nel passato e cista bene. Non avremmo tanti pittori della domenica a dar da fare alle proloco e ai tanti Assessori di provincia, credendo di fare cultura e informazione.
Non c’è nulla da fare, le tradizioni servono solo all’ignoranza.
Scusate la leggerezza degli argomenti, ma tanto è estate.
Vedo ora, Ivano, che sei tornato all’interessante tema del tuo post di inizio luglio.
Mi permetto di dissentire dalla posizione anti-tradizionalista “a priori”. Come spesso mi accade in tema di dogmi e verità assolute, non penso infatti che i tradizionalisti o gli anti-tradizionalisti siano, in quanto tali, buoni o cattivi, belli o brutti, giusti o sbagliati. Non solo la nostra specie ma anche l’intero universo ci offrono esempi positivi e negativi da entrambe le parti, ammesso e non concesso che si convenga in proposito su definizioni di una certa uniformità (“probatio diabolica”, direbbero gli antichi glossatori).
Per di più, sulla attuale babele tradizionalista e sulla supposta diaspora delle tradizioni, frutto di varie “traduzioni” della Tradizione, mi sono già permesso di azzardare considerazioni di un malcelato relativismo, persino quasi eretico, almeno per un conservatore tradizionalista quale sono.
Di Fontana non saprei. Leggo poco sui politici, soprattutto su quelli fatti da altri e disfacentisi da soli, come costui. L’unica sinapsi neuronale che mi provoca è la sensazione che lui, Trump e Kim Jong-un dovrebbero cambiare barbiere.
Il tuo “discorso sull’arte”, che mi pare attestato su posizioni anti-tradizionaliste, tocca elementi su cui la storia dei beni culturali ha dibattuto per secoli e su cui si sprecano le biblioteche.
Anche per proseguire nel nostro gioco di ruoli sul blog, devo dissentire. Accedendo invece nel merito a una visione tradizionalista. Il “firmamento artistico” mi pare infatti abitato da “mediocri” opposti a quelli da te indicati (in realtà, ci sono sia gli uni che gli altri). Sono gli incapaci che sfruttano l’anti-retorica artistica, senza conoscenze e competenze di base. Sono coloro che camuffano per attacco alla retorica dell’Arte e allo status quo accademico la propria velleitaria presunzione artistica e la propria pochezza creativa e realizzativa. Sono i presunti sperimentatori di “installazioni” varie, i facitori di “performance” di supposta avanguardia, tesi alla diffusione di una “retorica dell’anti-retorica” che possa ammantare i loro conati estetici di presunti significati e “messaggi”, eludendo il vero problema della propria incapacità di reggere artisticamente una matita o un pennello, non avendo altro da offrire se non la propria esibizionistica smania di ostentazione.
Certamente Pietro, anche se “una matita o un pennello” sarebbero esattamente dogmatici come appunto la retorica dell’anti-retorica. Ammettiamo, pensando al tempo storico, politico, artistico che questo si fermasse. A cosa assisteremmo? All’assolutizzazione di qualsiasi idea che fossilizzata in uno spazio-tempo ci consegnerebbe ad un eterno presente. Immagina le città, limitandoci al piacere puramente estetico, immagina come sarebbero se nei secoli avesse vinto l’antistoria. Quando sappiamo tutti che la Storia è un continuo rimbalzo tra il passato e il presente, fondamenta di quello che sarà poi il futuro. E quello che rappresenta apparentemente un punto fermo, di arrivo. È destinato ad una continua riflessione sulla necessità o curiosità dell’uomo di superarsi. Poi non importa se Dante colloca Ulisse all’inferno o Eschilo incatena ad una rupe martirizzato dall’aquila. Ma qui la sto mettendo giù troppo dura e non mi sembra il caso in queste mie riflessioni spicciole. Dicevo delle città,ma va benissimo anche per tutte le arti espressive, siano l’architettura o l’arte povera. Dicevo delle città, raccontate dai siti archeologici o dai borghi medioevali, dai palazzi e chiese rinascimentali ai grattacieli degli archistar, che dovendo rispondere ad esigenze diverse danno risposte, diciamo corrispondenti ai tempi. E se questo è un dato di fatto accettato da tutti sappiamo altrettanto che quando si cammina nel mondo dell’arte il terreno diventa minato, minatissimo, appunto con contrapposizioni tra tradizionalisti e innovatori. E poi abbiamo una Storia dell’arte che racconta percorsi paralleli influenzati dallo scorrere del tempo e dalla sovrapposizione di eventi che coinvolgono nel bene e nel male tutto il percorso evolutivo. Così che ad un cambiamento politico corrisponde un cambiamento di pensiero, obbligato o meno che comunque entra nell’educazione artistica di un popolo o trasversalmente dell’umanità intera. E mi pare che tutto cammini di pari passo, faccio l’esempio dell’arte nazista contro l’arte degenerata diseducativa secondo i valori tradizionali. Così che gli artisti enfatizzavano il valore della famiglia come il valore della patria. Il progresso tecnologico e la velocità hanno prodotto il Futurismo azzerando visioni romantiche o impressioniste del secolo precedente. Così che ora, se entro in un museo passo attraverso sezioni o temi o tempi che hanno caratterizzato quel dato momento storico enon mi annoio a vedere sempre le stesse cose. E tutti nel tempo vedono e capiscono che un’icona russa è molto differente da una Madonna del Rinascimento. Però, sia i russi che noi italiani, non abbiamo continuato a riprodurre fotocopie. Dopo il rinascimento è arrivato altro fino ad arrivare a quel momento impervio per il giudizio dei più che sono state le avanguardie storiche e poi tutta l’arte moderna e contemporanea. Per farla breve, gli impressionisti non piacevano ai tradizionalisti, come i Preraffaelliti erano antistorici anche se nella consapevolezza o scelta intellettuale. Ma non voglio con questo scrivere un trattato di cui non sarei capace, gli storici dell’arte lo fanno, ma siccome si sta parlando di tradizioni e il mio pindarismo mi proietta nel tema del tempo, queste mie considerazioni vogliono solo essere la constatazione che niente può essere immutabile, niente lo è mai stato. E nel mondo dell’arte succede esattamente quello che succede nel mondo di tutti i giorni. Se il tempo si fosse fermato saremmo ancora a passeggiare all’ombra dei templi o ancora a ripararci nelle grotte sotto soffitti di pitture rupestri. Per non parlare di tutte le altre tradizioni, che poi è il tema che mi interessa, anche se scivolato negli ultimi commenti su un argomento ben preciso. Poi, mi pare che anche tu l’abbia detto, ognuno si sceglie le sue tradizioni perchè non si scappa da modelli conosciuti, ma enfatizzarli forse è questo che è sbagliato. Comunque caro Pietro, tanta arte contemporanea fa sorridere anche me. La banana di Cattelan so ben io dove gliela caccerei. O altrimenti mettiamola così: come i momenti storici o politici hanno bisogno di tempo per essere metabolizzati è molto probabile che tutta l’arte contemporanea, ad esempio, verrà selezionata e sgrossata, ma non per azzerata, ma per imparare a distinguere quello che non è tradizionale ma funzionale a nuovi e migliori cambiamenti. Si sa che è difficile dire se la Storia sia stata più o meno lineare e ciclica, ma di fatto tra corsi e ricorsi io ho l’impressione che la vocazione dell’uomo sia sempre il superamento di se stesso. Perchè escluderlo nelle arti figurative? Poi il setaccio del tempo fermerà quelle che sono pepite piuttosto che sabbia. Per ora accontentiamoci della nostra sensibilità e gusto estetico, che comunque non sono mai naturali, ma socialmente o educativamente indotti.
Vi ho stufato?
P.s: siccome non sono certo di quanto ho scritto, non rileggo ed invio immediatamente.
Mi è scappato l’occhio: manca “Prometeo”.
Quella “storicistica”, caro Ivano, è un’ipotesi interpretativa del fatto artistico che ciclicamente si riafferma nella dottrina critica e nella letteratura estetica. Sono cose che, per vocazione artistica e studi specifici, tu conosci senz’altro meglio di me, neghittoso dilettante. Questa dialettica del “rimbalzo”, a cui fai cenno, che potrebbe talvolta essere vista meno per “salti” e più per “trascolorazioni” progressive (ma dipende dai tempi e, soprattutto dagli uomini, anzi, dipende dagli Artisti, questi demiurghi tra mondi noti e sconosciute dimensioni dell’essere), segue in effetti la più ampia dialettica dell’avventura umana in tutte le sue manifestazioni, per l’appunto avventurosissime. Sì, forse è così. E anche un tradizionalista come me non può certo ipotizzare, nelle Arti come in tutte le altre declinazioni dell’umana capacità e genialità, un “arresto del tempo”. No, ovviamente: tempus fugit. Per questo, forse, ci sono i “mediocri” tradizionalisti, pigri e frenatori del nuovo, e i “mediocri” anti-tradizionalisti, velleitari e portatori di un nuovo così fasullo da nuocere proprio al nuovo vero e autentico. Sembra questione accademica, da pensionati acchiappanuvole, ma questa dialettica tra conservazione e innovazione segna da sempre il sentimento artistico delle varie generazioni e la stessa estetica generale delle società in progressiva successione storica. Diventa dunque, forse, questione di cautela, equilibrio, misura. E, come sempre, c’è chi corre e chi si siede, mentre probabilmente una “riformistica” camminata di buon passo potrebbe giovare maggiormente. Ecco, forse anche in questa assenza di fuga in avanti, non solo nelle Arti ma in ogni umana espressione, consiste l’esser conservatori e tradizionalisti. Condizione ben triste quando appare il Genio che sorprende e rovescia ogni realtà. Ma cosa rassicurante quando il Genio manca e abbondano i venditori di cazzate. Può anche darsi che l’età anagrafica giochi un ruolo, magari rilevante, in questo posizionamento del giudizio. Un po’ come in “Father and Son” di Cat Stevens (si perdoni la caduta canzonettistica, dopo cotanto estetismo).
Discorso interessante, che al di là delle teorie degli intellettuali, ci pone fi fronte al nuovo che sempre avanza e al quale mai ci sottraiamo. Pietro, tu sei più giovane, ma fortunatamente direi, per anagrafe abbiamo visto il mondo cambiare. Ci siamo adattati per forza maggiore e a volte abbiamo resistito, abbiamo imparato la tecnologia senza opporre nessuna resistenza e quanto acquistiamo un’automobile non andiamo in concessionaria a chiedere una Giardinetta. Invece per il mondo dell’arte sempre si sono sempre create sacche di resistenza dividendo appunto i fruitori tra conservatori e innovatori. Se vado al cinema non mi aspetto più di vedere un film muto e in bianco e nero. Se oggi mi compro un paio di braghe non le cerco più a zampa di elefante – le hai ricordate tu tempo fa -, ma le prendo strette in fondo. Tutto qui, la mia riflessione voleva arrivare a questo: se il nostro gusto estetico cambia secondo i tempi, pur riconoscendo l’immortalità di tante opere, come mai rispetto all’arte é così difficile educare alla contemporaneità? Ma il tema si sta complicando, e non mi spiacerebbe se firme ormai scomparse o saltuarie intevenissero, non so. Venchiarutti, Merico, magari anche …
Comunque caro Pietro io non sono un esperto di niente. Procedo solo per osservazioni empiriche. É per questo che mi interessano altri pareri, credendo comunque che non possano esistere teorie universalmente accettate. Come non credo molto al mercato dell’arte e ad un potere culturale nelle mani di pochissimi che esclude la massa a priori. Quella che si bea ancora dei paesaggi parigini col Mouline rouge o le vedute dei Navigli o un bel campo di papaveri e girasoli. Ce ne sono ancora di questi esteti. Non é un’estremizzazione.