Giovanni sognava di possedere una spider e fare due giri intorno alla piazza del paese, per guadagnare punti con la figlia del farmacista; Piero si tormentava le unghie,un artista dai pennelli secchi, la testa vuota, la tela bianca; Giamba si accontentava di poco, anche di niente, si lasciava spingere come l’acqua del canale Vacchelli. Io volevo scrivere su “Repubblica”. Conoscevo tutto di quel giornale, anche i trafiletti mortuari. I dirigenti Piaggio che esprimevano il cordoglio per la morte della suocera di Scalfari. Non mi perdevo niente delle venti pagine di “Repubblica”. Lo leggevo anche a voce alta nel salotto-camera da letto, dove le poltrone si ribaltavano in letti singoli, dove mia madre teneva l’Amaretto di Saronno e le ciliege sotto spirito. Toccavo la carta, che sporcava le mani, ne aspiravo l’odore; sentivo la puzza di fumo che un giornalista vero porta con sè. Parlavo con la redazione di “Repubblica” anche al cesso. Li conoscevo tutti, i cronisti di “Repubblica”; superbo e ingenuo che s’arrampicava sui vetri dei sogni. Le fisse, i giri di frase, se erano violino o contrabbasso, o tromboni. Gianluigi Melega, il radicale; Gianni Rocca, Alberto Jacoviello, che venivano dall’Unità, da “Paese Sera”; Carlo Rivolta che si faceva di eroina e poi crollò senza più vita giù dalle scale; Corrado Augias, primo corrispondente da New York. Andrea di Robilant, Sandro Viola. Franco Recanatesi. Poche fotografie, scrittura d’attacco. Giampaolo Pansa, che si rifiutò di firmare la “condanna morale” al commissario Calabresi, per la morte dell’anarchico Pinelli. Barbapapà Scalfari, giovane redattore del “Tevere”, un foglio antisemita, e che durante la guerra riparò in campagna, mentre altri rischiavano la vita, in montagna. Scalfari, un maestro. Anche se il cruccio di non riuscire ad intervistare Dio Onnipotente – l’unico che gli mancava a pagina due, tre di “Repubblica” – era scocciante, anche per un lettore innamorato. Natalia Aspesi, grande classe: questioni di cuore, malanni italiani, scrisse del sequestro Moro, del cinema di Woody Allen, le giacche di Armani. Paolo Filo della Torre, non un figlio di ciabattini con un cognome così; imparentato con Alberica di uguale cognome, strangolata nel 2012 dal cameriere filippino Manuel Winston. Paolo Filo della Torre scriveva da Londra, masticava mattina e sera finanza, le Borse, ma non parlava mai di straccioni, i ragazzi con i capelli rossi, la faccia smorta, golfini leggeri, le mani in tasca, il vento gelato, perdigiorno che giravano intorno ai lampioni delle Midlands. Tanto che, Barbapapà direttore, ogni volta che a Belfast c’erano “troubles”, c’erano guai, le fabbriche tiravano giù la claire a Scheffield, Newcastle mandava in avanscoperta Edgardo Bartoli, finissimo cronista, autore poi di un libriccino splendido, Roma “Civiltà del malumore”. A Filo della Torre gli dicevano: scrivi della Borsa di Londra, delle scarpe della Regina Elisabetta, e che profumo usa per le ascelle.Un mestiere anche ingrato, il giornalista.
La pagina sportiva, a “Repubblica”, era una mezza paginetta, senza risultati delle partite di calcio; solo commentario sugli sportivi che alzano il pugno chiuso, che oltre a far i mediani di spinta leggono Martin Luther King., Marcuse. Cronisti che scrivevano di sport,di omicidi. Mario Sconcerti, Guido Barendson. Poi arrivò Mario Fossati, uno dallo stile spoglio, frasi corte, due aggettivi, telegrafico, sublime. Fossati sapeva di trotto, galoppo, Gimondi, Hinault, Francesco Moser. Di tennis, dei gesti bianchi si occupava Gianni Clerici. Leggevi mozziconi di “Alla ricerca del tempo perduto” di Proust, quando Clerici raccontava delle finali di Wimbledon. Il tennis come eleganza, dignità, ricordi, la pallina gialla oltre la muraglia dei Finzi-Contini, che finiva in Corso Ercole d’Este I°, le rise sguaiate del giovane Bassani, gli ebrei cacciati dal popolo sciuretto di Ferrara. I fascistoni. La Ferrara che aveva passato una vita e sorrisi entrando nei negozi degli ebrei, e che poi sputò contro quelle vetrine. Sporchi ebrei, andate via. E nel dopoguerra tornarono i sorrisi, del popolo sciuretto ai due-tre ebrei rimasti. il tennis dopo Gianni Clerici, è il ciclismo dopo Fausto Coppi, Bartali, Anquetil. Non più la stessa cosa. Basta gesti bianchi.
“Repubblica” l’acquistavo prima del pane. All’estero, il sacco a pelo e lo zaino in spalla, ovunque fossi, in Molise, in Yugoslavia: la mattina da sveglio era cercarsi l’edicola. “Repubblica” mi connetteva con il mondo, il mio mondo. Scalfari amalgamò il comunismo critico, i benestanti radicali romani, l’economia di mercato che ha le sue leggi, e la modernità urbana stanca dei soffocanti e bigotti grattasottane, i succhiabalaustre. Era nell’aria la voglia di libertà, anche libertà sessuale. Voglia di vivere, di essere sfrontati. Basta con l’indissolubilità del matrimonio, che tanto piaceva all’ipocrisia della destra politica.
E poi c’era Giorgio Bocca. Un tipo bassotto, la pelle della faccia come la corteccia di una quercia, il fare ruvido, diffidente da montanaro (era di Cuneo). In lui si mescolava il masochismo della piccola borghesia provinciale, che si faceva gli occhioni sulle posate d’argento a casa dei Caracciolo e le sbicchierate, la pastasciutta a mezzanotte, dopo la chiusura della redazione alla “Gazzetta del Popolo”. Bocca sapeva arrivare al nocciolo della questione, come pochi. Senza equilibrismi. Istintivo e sornione come un gatto; fiutava come un cane da tartufo. E consumava le scarpe: non restava in pantofole davanti a uno schermo, o a far domande servili al politico famoso. A Bocca potevi telefonare, come a uno qualunque, anche se i fascisti lo minacciavano, i brigatisti lo avevano in lista per farlo fuori. Ti rispondeva con la voce rauca, spiccia, senza tanti fronzoli.Avrei dato chissà che cosa per scrivere come lui; anche le sue castronerie, che ne ha scritte, perchè la miseria è di tutti, anche dell’Onnipotente, che lo chiami e lo richiami ma sta sempre altrove. Ma gli amori, si sa, a volte s’infiacchiscono, si stacca la passione come foglia secca che poi calpesti, noncurante. E così fu con “Repubblica”. Giorgio Bocca se n’era andato, perchè anche le querce non sono eterne. Pochi anni prima di lasciarci (abitava nel quartiere S:Ambrogio-Magenta) scrisse che i benestanti del suo quartiere avevano una nuova mania: gli animali. Due, tre cani, pure grossi negli appartamenti signorili. Che cagano per strada e devi camminare a testa bassa per schivare gli escrementi. Ma i ricchi, la merda non la raccolgono, figurarsi, se ne dimenticano o la fanno raccogliere ai filippini, ai peruviani. che portano a passeggio i cani. I padroni occupati, i figli al liceo.
Commenti
Nomi che fanno echi non spenti. Bravo Marino, un’altra grossa pennellata di storia,di pensiero, con affetto. E sei l’unico dei nostri contributori a ricucire le storie del tempo, quello comune, comune a tutti noi, comune ne suo scorrere senza le notizie epocali. Speciali storie comuni, tutto qui!
Grazie Adriano. Giorgio Bocca è morto il giorno di Natale, diversi anni fa. E’ finito nel dimenticatoio, come succede a quasi tutti, grandi, piccoli, ai signor qualcuno o alla signora nessuno. Oggi, le inchieste di Bocca sono presenti nelle università di giornalismo. Fanno scuola.
Hai ragione, Adriano, i racconti della gente comune sono le storie migliori.
In uno scritto recente citai “La storia di Toni”, un giovane sardo. Una storia vera. Per un brutto voto finì nella Legione Straniera; poi a combattere in Africa, disperando per la decisione sciagurata, gli insetti, il caldo, le pallottole che gli fischiavano nelle orecchie, scrivendo ai genitori tante lettere. Un racconto di vita come il suo è conservato all’archivio di Pieve Santo Stefano, in Toscana. Una miniera di tesori e di vita della gente qualsiasi. A Pieve Santo Stefano, le pareti dell’archivio raccontano la letteratura, senza la postura del bello scrivere, ma del duro vivere, che ha pari dignità, se non di più. Storie che valgono una spanna più dei battibecchi scritti e raccontati sui massimi sistemi, sul filosofame da due soldi, e quello da tre soldi di cattedratici che masticano Nietzsche e Kant a colazione, a pranzo e a cena, e ci pontificano sopra, con evidente soddisfazione, incuranti della spazzatura giusto fuori dal convegno convocato a bell’apposta.
Archiviati i due padreterni Scalfari e Bocca, nell’empireo del giornalismo, Marino,davvero squisita la citazione di Gianni Clerici, poeta del tennis in calzoni lunghi, bianchi ovviamente e racchetta di legno accordata in budello!
A dire il vero, nel ramo sport, io amavo assai Giuan Brera fu Carlo e il suo Guerin Sportivo. Come sapeva rendere epica la “pelota” lui, nessun altro!
Gente che sapeva scrivere e, soprattutto …. sapeva di quel che scriveva.
Ti invidio Marino la frequentazione di personaggi cotali sia come professionisti che come uomini, e grazie per mettercene a parte!
Caro Francesco, di Gianni Brera ho già scritto. il suo libro su Fausto Coppi è un gioiello. Con Brera condivido la passione per la buona Barbera dell’Oltrepò che tracanno volentieri; purtroppo, non ho la sontuosa qualità del cronista Brera. Pazienza. Un giorno, chissà, potremmo io e te farci un giretto fra le sue colline. Ma c’è un problema: io voglio bere, quindi guiderai tu.
Giorgio Bocca l’ho incontrato e intervistato tre volte. Un maestro di un tempo ormai trascorso. Amava lo sport e lo praticava. Senza buoni e bravi maestri siamo fottuti. Sono padri e madri di supporto. Un giovane deve saperli trovare. Senza si va a tastoni, nel buio. Di lui potrei parlare per ore, ma non credo – anzi, ne sono sicuro – che importa a qualcuno. Quindi ti saluto.
Caro Ivano, il populismo italiano è figlio del pensiero berlusconiano. Il Cavaliere, anche se dice che i suoi figli sono discoli, da Salvini a Renzi, sono sicuro che è bello contento di avere stravinto su tutti i fronti. Salvini fa la voce grossa; anche Berlusconi non era timoroso nei suoi ragionamenti pubblici, come un prevosto delle Quade che ho conosciuto che pesava le parole. E Renzi, lo sciatore non del Monte Pora, ma fra “straccioni” con tanti zeri del Pakistan, è “una quinta colonna” della destra populista. Dovrebbero ringraziarlo. La biografia del Berlusca, che ritengo decisiva, è quella di Peppino Fiori (grande cronista), e dovrebbe essere letta nelle scuole, per spiegare alle nuove leve come Maestro Berlusconi ha fatto quello che ha fatto – lui dice di no – e si è preso l’Italia, ha gettato i semi del populismo oggi. Certo, crescendo, il populismo ha preso anche altre strade, come sempre fanno i figli che per un pò si divertono a snobbare i padri e le madri. Ma sempre figli del Berlusca sono tanti leaders del populismo mondiale. Ho sempre sostenuto che il pensiero berlusconiano dominerà la politica, e non solo quella, per decenni. E come è già accaduto, in Italia, bellissimo paese che ha tante meraviglie, siamo stati più volte anche l’avanguardia del peggio. Sappiamo fare scuola. Anche pessima scuola.
E a proposito di Economia, seria, serissima faccenda, anche oscura, a volte, ricordo che certe domeniche lasciavo “Il Sole 24 ore” all’edicolante, per tenermi solo il domenicale culturale, per buttarci un occhio, tanto il resto era in una lingua straniera che non so. Roba misteriosa. E pensare che sul lavoro mi chiamavano “ragioniere”. Rob’ de’ mat. La vita è anche una storia tutta da ridere. A dirla tutta, mi viene l’urto del vomito a costringermi a capirla, la finanza. Proprio non ci riesco.
C’è un signore in una biblioteca di Milano che vedo spesso (mi dicono che viene tutte le mattine) e spulcia le pagine del “Sole”, il Vangelo rosa della finanza sportiva e non, pure di “Italia Oggi”, e prende appunti su un quaderno, fa somme e sottrazioni, e fa tante fotocopie. Quando il cervello gli fuma si attacca alla bottiglia d’acqua che tiene sul tavolo. L’Economia è anche un mondo misterioso, credo, strano anche. Lui giocherà in Borsa? Deve scoprire le scatole cinesi di tante fughe di capitali? Di recente mi son seduto vicino a lui, per capire cosa lo intriga del Vangelo rosa. Prima o poi glielo chiedo e magari così imparo qualcosa.
Si, Marino, la “discesa in campo” del “cavaliere” con la sua corte di sodali, stallieri, olgettine e capitani coraggiosi, ha rappresentato un momento di svolta nel modo di fare politica ( e fare governo) nel “buffo stivale”!
Quale e quanta la responsabilità di Bettino ( “nani e ballerine” annessi e connessi, Bettino che, non dimentichiamolo, era il leader del PARTITO SOCIALISTA! ) in questa così pesante involuzione?
E, paradossalmente , quale e quanta quella di “mani pulite”?!?
Quando, affacciandomi alla “politica” negli anni 70, ero convinto che fosse “la balena bianca” (che ricomprendeva al suo interno maggioranza e opposizione) a soffocare la crescita democratica di un Paese in esuberante sviluppo, non potevo certo immaginarmi quello che, con un continuo, lungo, progressivo, inelluttabile precipitare degli accadimenti, avrebbe fatto ….slavinare (ops! neologismo forzato, nn riuscendo a trovare termine più adatto!) la “Repubblica fondata sul lavoro” (si, quella che nei suoi “PRINCIPI FONDAMENTALI” esplicitati negli artjcoli dall’1 al 12, rileggiamoli, definisce i pilastri su cui dovrebbe costruirsi il viver civile in questa Repubblica) nello ……”stato confusionale” nel quale si riaffaccia addirittura la tentazione, il desiderio dell'”UOMO FORTE”!
Siamo arriviamo ad abituarci, a giustificare il fatto che in questa Repubblica, anno 2020, il “clima” sia oramai tale da assegnare una scorta a Liliana Segre, “rea” (almeno per negazionisti, nastagici, fascisti, e non sono pochi!) di essere testimone vivente della Shoa, vergogna, abominio dell’umanità!
Imponiamoci con forza di tenere accesa la luce che emanavano personaggi come Giorgio Bocca, oscurando, schermando gli abbagli televisivi degli ….”insetti” di turno!
Stasera ho visto su La7, Marco Travaglio direttore del “Fatto Quotidiano” spiegare che la frase di Giuseppe Conte che invitava le banche a “un’atto d’amore”, cioè a darci dentro e spicciarsi senza troppi intoppi nel cacciare i soldi, i prestiti a chi ne ha veramente bisogno, era una richiesta “di responsabilità”. Mi domando se lo spalleggiare il governo, l’essere espressione di un giornale che ha scelto di difendere Conte persino quando dice una frase infelice (ma quando mai le banche fanno atti d’amore?) sia buon giornalismo, e non difesa di partito. Perchè dover spiegare, caro Travaglio, e non dire invece che si è trattato di una frase infelice? Purtroppo, nei giornali, cartacei oppure online, il vizio è lo stesso da sempre, e vale per tutti: non esiste giornale senza appoggio politico di un partito, un movimento, e senza che quel giornale prenda le difese, ne sia espressione, facendo finta di essere comunque un giornale libero, indipendente. Ma è una balla. Montanelli provò con “La Voce” a non avere partito, e il suo giornale franò, con pochi lettori, tanto da dover chiudere. Può permetterselo, forse, “Il Foglio”, oggi, con Cerasa come direttore, che non è più solo un giornale di atei devoti, con Giuliano Ferrara scatenato berlusconiano. “Il Foglio” è un giornale di nicchia, un foglio di commenti più che altro, che può andare avanti anche con la sua quota risicata di lettori, perchè dietro c’è chi copre, e non si aspetta grandi tirature. In Francia esiste “Mediapart” che è un giornale indipendente, ma è un’eccezione. In Polonia la “Gazeta Wyborcza”, e in Russia “Memorial”, e pochissimi altri. Nel Regno Unito ci provò “The Indipendent”, ma il cartaceo dovette chiudere e resta l’edizione online, che non seguo più come un tempo. Il giornalismo, come scrisse Jill Lepore su “The New Yorker” è ormai marcio come un drogato, in un campo desolato, abbandonato come un terreno incolto, dalle tasche così vuote per il crollo delle vendite, della pubblicità, con le sue notti oramai senza sonno. Questo è il giornalismo oggi, ovunque. Poi, purtroppo il coraggio di dire le cose come stanno, in Italia, per i cronisti della sezione politica viene difficile, perchè la faziosità è alta, è un’abitudine giornalistica. Non parliamo poi della stampa della destra politica italiana oggi, sparito Montanelli, che l’indipendenza di pensiero non sanno neppure cosa sia.
Ho seguito la polemica che ha coinvolto il direttore di Huffington Post, Mattia Feltri e Laura Boldrini. La parlamentare del PD, che tiene regolarmente una rubrica sul giornale online diretto da Mattia Feltri ha scritto parole dure di critica a un commento di Vittorio Feltri, che riguarda le donne. Vittorio Feltri è padre di Mattia Feltri che prima di dirigere l’Huffington Post era editorialista e cronista di costume per “La Stampa” di Torino.
Cosa ha fatto Mattia Feltri? Ha deciso di non pubblicare il commento di Laura Boldrini, dicendo, poi, che è lui il direttore della testata e così può decidere cosa pubblicare oppure no. Ma perché non ha pubblicato il commento della Boldrini? Se sono giuste o sbagliate, le critiche di Laura Boldrini – ha detto – riguardano mio padre e preferirei che lei si lamentasse altrove, non su una testata da me diretta. Giusto? No. Si sa che i giornalisti si passano il mestiere più dei ciabattini, che avere un padre giornalista conosciuto apre porte e finestre, ma questo dovrebbe caricare ancor di più di responsabilità il figlio o la figlia che fa quel mestiere. Se hai avuto dei privilegi, dei vantaggi, pare bene non dimenticarlo, se si ha un minimo di umiltà.
Quando c’è di mezzo la famiglia si fa blocco, anche se la si pensa diversamente. Una brutta debolezza che non va bene se si ritiene di essere un cronista rigoroso, un onesto professionista. Una polemica piccola, una miseria come tante altre di una professione dove, oltre i privilegi familiari, si sommano le pressioni della proprietà, le minacce di querele, soprattutto da chi può disporre di bravi avvocati, e le autocensure, nei giudizi, nell’inquadrare i personaggi come nel caso della morte di Maradona.