Record europei e mondiali
Spendiamo nel gioco (ben 107 miliardi) quanto spende lo Stato per l’intero comparto della sanità: nessun paese avanzato registra una quota del genere!
Siamo nell’hit parade mondiale (veniamo solo dopo Hong Kong e la Corea del Sud) per numero di cellulari.
Abbiamo il record europeo dei NEET, giovani che né studiano, né lavorano e né si stanno formando al lavoro: oltre il 30% contro il 18,7% della Francia e l’11,2% della Germania.
Abbiamo il più alto numero di palestre in Europa.
Siamo tra gli ultimi paesi in termini di occupazione femminile: perfino la Turchia, che per ragioni religiose scoraggia le donne a lavorare, registra una quota così bassa.
Siamo i primi in assoluto al mondo ad avere invertito la rotta demografica (dal 1995, a partire dalla Liguria) e oggi abbiamo il tasso di fecondità più basso del pianeta.
Abbiamo un numero spaventosamente basso di laureati: solo la Romania, in Europa, ne ha meno di noi.
Lo spettro del Titanic
Non è il caso di liberarci dalle “narrazioni” dominanti (di destra e di sinistra) e di domandarci, una buona volta, “chi siamo” e “dove andiamo”?
Non è qualcosa di paradossale che noi spendiamo nel gioco una cifra prossima a quella che destiniamo ai consumi alimentari?
Non è qualcosa di anomalo che noi spendiamo ogni anno per gli interessi sul debito pubblico l’equivalente della spesa statale per la Pubblica Istruzione?
Piangiamo miseria, siamo rancorosi contro tutti, ma nel 2017 abbiamo speso 83 miliardi di euro per mangiare fuori casa.
Non solo: nell’arco di pochi anni il pubblico che frequenta i centri fitness è passato da 5 a 18 milioni e i nostri viaggi (anche all’estero) hanno avuto una vera e propria eplosione!
Siamo diventati una “società signorile di massa” (Luca Ricolfi) che si permette non soltanto la servitù domestica (ben 26 milioni di famiglie), ma anche le dog-sitter, le colazioni al bar, gli apericena…?
Ma siamo proprio sicuri che non andremo a sbattere contro un iceberg, mentre danziamo e cantiamo sul nostro Titanic?
Piero Carelli
Commenti
Tanti record. Tante ottime postazioni. Ma… si tratta di traguardi positivi o negativi? Di virtù o di vizi?
L’avere, ad esempio, il più alto numero di NEET in Europa è un indice che siamo ormai una “società signorile di massa” che si può permettere di non lavorare (come il fatto che sono più gli italiani che non lavorano rispetto a quanti lavorano), oppure è un sintomo della nostra cronica crisi?
Questo quadro caro Piero parla di una società al colmo dell’opulenza, altro che distribuire denaro a pioggia sperando di innescare un meccanismo virtuoso! C’è un pro: è una società che anticipa la crescita zero cui sono destinate tutte le altre, e si spera prima di fare altri danni con politiche della supercrescita da mentecatti.
Il disinteresse allo studio per se stesso mi appare il dato più allarmante: il benessere si dovrebbe tradurre automaticamente in interessi intellettuali! La storia di Crema ne è un esempio sotto i nostri occhi. Certo, poi ci sono le piccole sacche di povertà vera, trasparenti ai nostri occhi. E per questo ci vuole più stato! Ci vogliono statalizzazioni, altro che privatizzazioni. Ci vuole logica, previsione e monitoraggio assoluti, altro che libera iniziativa. Ci vuole una società meno rapace, e questa prima che si affermi in una nuova cultura si ottiene solo col controllo. In altre parole ci vuole una società soddisfatta di se stessa, tendente alla felicità.
Caro Piero, non è da oggi che siamo una nazione anarchica, non governabile, più corrotta che onesta, soprattutto ipocrita. Anzi, non è da oggi che non siamo una nazione. Altro che prima gli italiani; magari ci fossero gli italiani, invece che individui, campanili, corporazioni, una società di isole che si comportano come isole, e che si buttano a mare chiedendo un salvagente, o si compattono solo in eccezionali occasioni, e solo per socializzare le perdite, incamerare profitti dall’odiata e burocratica amministrazione statale. Fai bene a citare i dati, a metterli nero su bianco, ma è una battaglia persa nel nostro non-paese. E’ da più di un decennio che nel nord d’Europa, il problema della denatalità è stato superato, con l’aumento degli asili, un supporto reale alle famiglie, alle donne che lavorano. Con l’organizzazione. Abbiamo partiti che difendono l’evasione fiscale, che parlano di giustizialismo, quando siamo tra i paesi più garantisti dell’universo; conosco tante persone che, partendo dai dettagli, che dettagli non sono, buttano i mozziconi di sigarette, centinaia ogni anno per terra, e urlano sui treni al telefono, infischiandosene degli altri; che raccomandano i loro figli all’amico direttore di banca, senza nemmeno vergognarsi. Acquistano l’appartamento a Milano per la figlia tanto studiosa, e la sera poi la passano all’Arci di quartiere, perchè l’osteria fa tanto di sinistra. La storia d’Italia, da Guicciardini a Mussolini, Berlusconi, Salvini, a D’Alema, Renzi, Grillo all”avvocato giallo-verde, verde-rosso (sbiadito) è sempre quella.
Piero, il pellicano allegoria dell’ultimo uomo. Chi dice che i need si possono permettere di dividersi tra apericene, vacanze e non fare nulla? Può darsi, ancora per un po’, finche i genitori avranno sangue per riportarli in vita, dopo decenni o secoli folli di economia e politica dissennate e poco miranti, così che amore paterno e materno rimediano come ultima ratio di pentimento. Scontri tra generazioni che nel simbolo del pellicano trovano l’estremo rimedio. Ma anche il sangue del pellicano finisce prima o dopo. O altrimenti un’altra immagine: sulla città incombe la peste e tutti, consapevoli del contagio avvenuto, banchettano, danzano, suonano e scopano, incuranti di malefici topolini bianchi, ormai padroni di porti e piazze, come in tanto cinema (Herzog) e letteratura, come ultima botta di vita. Questa la lettura? Speriamo di no.
Invece già una generazione ha dato segni di vitalità, ma a chiazzze. Ci vuole la fifa!!!!!
“Chi siamo” e “Dove andiamo”…
Mi è piaciuta.
Già, Graziano, chi siamo? Siamo degli irresponsabili che s permettono di buttare ogni anno 107 miliardi nel gioco o una massa di poveri o di nuovi poveri che si affidano alla fortuna per cambiare la vita in meglio?
E’ vero, Ivano: un numero così alto di NEET si spiega col fatto che oggi noi adulti siamo in grado, grazie alla fortuna che abbiamo avuto (io continuo a dire di essere stato un privilegiato!) che ci ha consentito di metter via un gruzzolo di soldi, di garantire ai giovani una tutela, ma fino a quando?
La “ricchezza” che gli italiani hanno accumulato (che è altro dal reddito) più di altri popoli, più degli stessi virtuosi tedeschi, prima o poi si esaurirà perché prima o poi avremo bisogno di essere ricoverati in strutture da 2000 o 3000 euro al mese.
Possiamo ancora permetterci di… danzare e cantare, ma… domani?
Crescita zero, Adriano. Hai ragione: è per questo che il sociologo Luca Ricolfi considera la nostra e solo la nostra, la “società signorile di massa”. Anche altri Paesi registrano un numero maggiore di “non lavoratori” rispetto ai “lavoratori”, o una “opulenza” maggiore della nostra, ma noi soli possiamo permetterci il nostro tenore di vita di massa (almeno il 60% delle famiglie italiani vive un tenore di vita più che dignitoso), pur con una “crescita zero”, una caratteristica, questa, tipica delle società statiche del feudalesimo.
Il sessanta per cento dei pensionati italiani percepisce meno di mille euro al mese. Lasciando stare il gioco d’azzardo, gli altri record denunciano un gap notevole tra ricchi e poveri e un’ingiustizia sociale da far invidia e da augurarsi di conseguenza di diventare poveri tutti, soprattutto loro, che è più verosimile che ricchi tutti. Se poi guardi le classifiche dei più ricchi in Italia o nel mondo, mi viene sempre in mente la signora di Roma proprietaria di mille appartamenti, prima di tutto mi chiedo cosa se ne fa, che è la domanda più facile, poi mi viene in mente cosa è stato il sistema economico in questi secoli, cioè da che mondo è mondo. E qui il famoso populismo dovrebbe esercitare, oltre le fandonie propagandistiche, il problema. Solo che non è un populismo universale, è solo un populismo egoistico che porta solo acqua al suo mulino. Ma non so se un sacco di farina vale la partita. Anzi, non lo vale affatto.
Forse sono un animo arido, o lo sono diventato dopo le scalpitanti note giovanili, ma io vedo un gran bisogno di programmazione. Questo mondo che volgarmente si potrebbe esprimere con un’espressione che richiamava la virilità dei segugi non mi sta bene. La paura di essere dominati viene scambiata per rivendicazione di pseudo-libertà, qualcosa che non si sta dimostrando che autolesionismo. La libertà vera è quella di demandare al sistema il routinario, come deleghiamo a riflessi automatici il cammino o la guida. La libertà sta nell’essere liberi da queste sciocche incombenze per poter creare. Più stato.
Qualche anno fà i padroni del discorso, ossia la borghesia cotoniera e i suoi scherani, coniarono l’espressione “privato è bello” ad uso e consumo delle masse inebetite dalla televisione spazzatura e dai mass (fake)media. Oggi che i ponti ci crollano in testa, che la scuola è stata devastata (e anche l’università), che anche il sistema sanitario comincia a mostrare evidenti crepe e che le banche falliscono, in molti si accorgono di essere stati ingannati e cominciano a capire che senza lo Stato non c’è futuro per le classi subalterne (alias lavoratori).
Un giorno ci libereremo di questa dittatura che ha preso il potere con il colpo di stato del ’92 per condurci nell’inferno ordoliberista targato euro (ed EU).
Distinti saluti e buon 2020 a tutti Voi.
Adriano, ci vuole la fifa? Certamente non le nuove generazioni, magari le sardine e la loro programmazione minima. Il resto? Il resto invoca l’uomo forte, dimentico che fife simili portarono ad esempio al disastro novecentesco, per poi innescarne altre di fife. Che pagarono tutti. Per questo evocavo povertà generalizzata. Cosa aspettarsi dagli spensierati need finchè hanno la protezione che hanno?
I record che ho elencato si possono leggere in chiave diversa.
Ma come leggere il quasi primato mondiale della diffusione italiana del cellulare?
Come spiegare diversamente il fatto che abbiamo il primato in Europa del numero delle palestre?
Come spiegare il nostro preoccupante numero di laureati? Siamo meno ricchi di altri paesi che sono, in termini di Pil, molto più poveri di noi?
Non è un fatto che tutti gli sport di élite di una volta sono diventati sport di massa (mentre, naturalmente, i signori di sempre si sono ritagliati altri sport esclusivi)?
Certo, quando si parla di “massa” non si intende “tutti”: l’Italia può permettersi il proprio tenore di vita grazie (anche grazie) allo sfruttamento di alcuni milioni di persone (in gran parte immigrate)!
A mio avviso il problema NEET è legato ad una scuola superiore che non è in grado di formare cittadini che capiscano il mondo che li circonda, a causa di un impianto classista e classicista, che predilige il nozionismo rispetto alle competenze richieste nel mondo contemporaneo le quali, piacerà poco, sono più tecniche che umanistiche (pochi laureati in percentuale, ancora meno in discipline STEM in proporzione al totale).
Credo che il discorso sul gap generazionale andrebbe visto in modo diverso. Il fatto che gli over 65 siano la generazione più ricca, non è affatto un vantaggio per i NEET, che oltre ad avere poche risorse intellettuali spendibili (per quanto detto prima), si trovano in un mercato svuotato dalle risorse necessarie alla crescita. Per fare un esempio molto concreto: il nonno che mantiene il nipote è segno di una società che ha fallito, che alloca più risorse per le pensioni che per il lavoro.
Comunque non è mia intenzione porre le basi per una retorica lotta tra generazioni. Ognuna contribuisce mediamente allo stesso modo al progresso, siamo portati a pensare che la nostra sia meglio per qualche motivo, ma è un tipico caso in cui abbiamo tutti ragione e tutti torto. Vi linko una recente chiacchierata di DuFer e Boldrin che ne parlano, magari interessa [ https://youtu.be/_0rGPtercDM ].
La differenza così forte con la Germania, Mattia, credo sia dovuta anche a fatto che in Germania vi è una solida formazione professionale che inizia molto presto.
Tra i pochi laureati (rispetto agli altri Paesi, ad eccezione della sola Romania) che vi sono in Italia, poi, una quota “eccessiva” è data dalle lauree umanistiche che non facilitano certo l’ingresso nel mondo delle imprese.
Non mancano pure laureati che si rifiutano, finché sono coperti, di accettare lavori non consoni col titolo di studio conseguito.
Caro Achille, sull’esigenza che vi sia “più Stato” e “meno mercato”, dopo gli effetti nefasti prodotti dal neo-liberismo, siamo sulla stessa lunghezza d’onda: è solo la collettività che deve “governare” l’economia in funzione degli “interessi collettivi”.
Vi ricordate quando i nostri padri o anche fratelli andavano a lavorare con la “schiseta”? Bene, oggi ben 13 milioni di italiani fanno ogni giorno il pranzo in qualche locale spendendo nell’arco di un anno più di 80 miliardi di euro.
Com’è cambiato il mondo? E poi continuiamo a piangere. Continuiamo a… celebrare l’Apocalisse!
Trovo ottima la notizia che gli italiani vadano in palestra e si tengano più in forma che in passato. Ricordiamoci che non siamo tutti di corporatura altoatesina (ognuno di noi è un omnibus su cui viaggiano parecchi antenati). Ricordiamoci che le nostre scuole sono piene di gordillos ingozzati dalle mamme e immobilizzati dalla tecnologia digitale scientifica (non dalla cultura umanistica). Ricordiamoci che essere meno lardosi, stortignaccoli e mollaccioni giova non solo agli interessati ma anche ai costi della sanità pubblica. E poi, che c’azzecca la palestra, che costa anche molto poco, col fatto che staremmo affondando sul Titanic? Dovremmo essere obesi e scoliotici per farci perdonare di essere dei Caini sfruttatori dei seicentomila Abeli clandestini che, a detta di Ricolfi, sono la salvezza dell’Italia? Mi vengono in mente Bernardino da Siena e certe prediche col “penitenziagite”.
Certo, Pietro, che la notizia è ottima ed è certo che non è per questo che potremo andare… a sbattere. Ho solo voluto evidenziare dei primati europei e mondiali per domandarci “chi siamo” e “dove andiamo”.
Il quasi primato mondiale della diffusione di cellulari è un fatto positivo o negativo e da che cosa dipende?
I nostri 107 miliardi spesi nel gioco (l’equivalente della spesa dello Stato e delle Regioni per la sanità) – un unicum nei paesi sviluppati – costituiscono un bene o rappresentano un segnale negativo?
La spesa in interessi sul debito (equivalente alla spesa per la Pubblica Istruzione) costituisce una spia o no?
Già: chi siamo? Dove andiamo?
Se è vero che i dati possono essere letti da angolature diverse, la domanda è legittima: siamo o non vivendo al di sopra dei nostri mezzi?
Dici bene, Marino: se in altri paesi, anche in Germania che ci aveva seguiti nella nostra inversione, il tasso di fecondità è cresciuto (in Francia si arriva a 1,9 figli per donna), è perché la collettività si è fatta carico del problema (piaccia o non piaccia è un problema) con incentivi e servizi.
Da noi, di fatto, cominciamo a porlo ora il problema: solo negli ultimi tempi si è iniziato a “parlare” di asili-nido gratuiti (qualcosa in tale direzione si trova anche nella legge di bilancio). Ma partiamo tardi, molto tardi perché la soluzione del problema non avrebbe portato voti (mentre altre misure sì.
Invece che rincorrere i voti, i governi seri dovrebbero scegliere delle priorità: e il nostro declino demografico (con i problemi che comporta) non è una priorità?
“Con l’euro lavoreremo tutti un giorno in meno e guadagneremo come se avessimo lavorato un giorno in più”
Romano Prodi, 2000
“Presto i nostri lavoratori costeranno come quelli cinesi”
Romano Prodi, 2020
Fai molto bene, Piero, a porre innanzitutto le domande “chi siamo” e “dove andiamo”, alle quali sappiamo bene va sempre aggiunta quella “da dove veniamo”, se no alle prime due domande rischiamo di dare risposte di pronta beva giornalistica. E mentre in “L’enigma della crescita” e “Sinistra e popolo” questa terza domanda Ricolfi se la poneva parecchio, nel suo ultimo libro mi sembra se la ponga molto meno. Di questo autore ho seguito sui media, da tempo, le non sempre lineari evoluzioni politiche, dalla militanza FLM alla sua elaborazione della “questione settentrionale”. Ma devo ammettere che ho letto solo i suoi tre ultimi libri prima citati. Dei quali l’ultimo è, a mio modesto avviso, proprio il più debole.
Perché? Esattamente perché, caro Pero, sono pienamente d’accordo con te su questa cosa: che il nocciolo del discorso stia proprio nel capire il senso di certi elementi di tendenza, anzi di più, nell’analizzare e valutare quali possano essere utili ai fini di una interpretazione generale della società italiana attuale e quali invece possano essere letti anche in modo opposto a quello di Ricolfi oppure, addirittura, essere extra-vaganti e da lui presi in considerazione solo al fine di un confezionamento ad effetto e di richiamo della tesi che intende dimostrare, quella della “società signorile di massa”. L’esempio delle palestre mi sembra evidente. Ma ce ne sono altri, molto significativi, come le spese per il gioco e l’uso dei cellulari.
Tutti gli elementi “paradossali” che tu citi, caro Piero, sono più o meno tratti dall’ultimo libro di Ricolfi. Innanzitutto, soprattutto in quanto riferiti a noi italiani in modo così tipico e risalente, perché “paradossali”? Inoltre, ha senso metterli insieme, collegandoli in un plesso interpretativo che vorrebbe avere una sua significatività, basata sulla compresenza di questi sette elementi? Costruire un’ermeneutica sociale e sviluppare una tesi generale per cui la nostra è una “società signorile di massa” basandosi su questi specifici aspetti (e, si badi bene, non su altri), assunti in una loro pretesa interdipendenza concettuale o quanto meno fattuale, non è forse un’ennesima “narrazione” una delle tante, per di più dai connotati ideologicamente piuttosto evidenti?
Lo stesso Ricolfi, comunque (da cui ho tratto solo alcuni dati; altri li ho tratti da un demografo e da un economista), lo scrive lui stesso: si tratta di dati (i suoi) che possono essere letti in chiavi diverse.
A mio avviso (ma io non sono nulla di fronte a un sociologo, a un demografo e a un economista), certi primati che ho citato nel mio breve post non sono per nulla suscettibili di opposte interpretazioni, come le ingenti risorse che noi spendiamo per pagare gli interessi sul debito pubblico e qui è utile ricordare (come tu ricordi, in generale, richiamando l’attenzione su “da dove veniamo”) che si tratta di un debito che noi abbiamo costruito. Ripeto, noi: non possiamo dare la colpa ad altri (all’Europa, alla Troika…) le nostre decisioni, ad esempio, in materia pensionistica. Lo sappiamo tutti: le pensioni baby, varate nel 1973, le stiamo pagando ancora oggi (oltre sei miliardi di euro l’anno), nonostante la legge non sia più in vigore dal 1992.
E gli errori degli anni ’70 e ’80 li stiamo ripetendo oggi e si scaricheranno sulle nuove generazioni, se non altro nel senso che non potremo varare leggi di bilancio più “espansive”, cioè più funzionali alla crescita dell’occupazione.
Ricordo, al fine di evitare equivoci, che possiamo certo “spendere” di più di quanto spendiamo ora perché ciò che conta non è il versante delle uscite, ma i conti pubblici (se spendiamo di più, dobbiamo porre mano alla spending revew, ciò che non osiamo fare per non perdere voti).
Certo, Pietro: il “chi siamo” oggi deriva dal “da dove veniamo”.
Pienamente d’accordo, Piero, sul debito pubblico. E su un paio di altri elementi da te indicati.
Invece, che l’Italia sia una “società signorile di massa” perché gli italiani spendono cifre notevoli per il gioco, non direi. Eravamo così “signorili” anche ai tempi della malaria e della pellagra, e prima ancora nei secoli precedenti? Perché da sempre in Italia, che ci sia uno Stato unitario o ce ne siano quindici o venti, si “riffa”, si “giuoca”, si “fan iscommesse”, si “tenta la bona sorte”. Da sempre gli italiani spendono e dilapidano al gioco. Sono sempre stati così “signorili”? O forse è stata più la miseria della ricchezza a fare di noi il popolo delle lotterie e del gioco d’azzardo? O il genius loci? Dopo la cacciata degli austriaci nel Quarantotto, tra i primi provvedimenti del governo provvisorio di Milano ci furono l’espulsione dei gesuiti e l’abolizione del lotto, “indegno dei tempi in cui tutte le istituzioni devono concorrere al progressivo sviluppo della civiltà”. Tutto inutile: oggi abbiamo un Papa gesuita e continuiamo a giocare per cifre esorbitanti. Ma è solo un esempio. Anche sull’abitudine italiana di sproloquiare al cellulare, in una continua rassicurazione reciproca familiare, amicale e sociale, l’accampare società “signorili” ben poco c’azzecca. Per non parlare della consuetudine di mangiare fuori casa e del gusto tutto latino della convivialità.
Che gli italiani amino spesso la bella vita è risaputo. Poi però provano rimorsi tipicamente controriformisti e quindi tendono al savonarolismo, anche quello sociale tipico di certa sinistra d’antan, al “dove andremo a finire”, un po’ come in questo ultimo libro di Ricolfi. E prevale l’immagine “ad effetto”, “il Titanic”. Insomma, proprio una “narrazione”, magari ben confezionata. Ma la società “signorile” di Ricolfi in Italia non esiste. Basta guardarsi in giro. I problemi veri, il debito pubblico, l’evasione fiscale, la criminalità mafiosa, la devastazione ambientale e via dicendo configurano non un’asserita “società signorile di massa” ma un’effettiva “politica miserevole di vertice”.
Oltre al debito pubblico, gli altri due elementi su cui considero le tue, caro Piero, come “parole sante”, sono le pensioni e la disoccupazione femminile. Sui NEET ci andrei cauto e sulla demografia ancora di più. Sul fatto poi di accusare la cultura umanistica degli attuali problemi scolastici, lavorativi e formativi italiani, sai come la penso.
In generale, gli italiani sono oggi più poveri, disoccupati e arrabbiati di qualche anno fa. Altro che orchestrine sulla tolda. Per di più, il divario tra abbienti e indigenti è aumentato. Certi lustrini e pailettes derivano anche da questa “media del pollo” di Trilussa. Gli italiani sono attenti, seri, solidi risparmiatori rispetto al resto del mondo. E la struttura familiare italiana riesce ancora a reggere e in parte a rimediare agli errori e alle malandrinate della politica, tirando di brutto la cinghia e a volte dovendo combattere col coltello tra i denti per sbarcare il lunario. Altro che edonisti con le mani bucate.
Magari siamo un popolo che raramente arriva über Alles ma, prima di affondarci, ce ne vuole eccome. Altro che gli iceberg. Siamo un popolo di eroi, poeti, santi e galleggiatori.
Al di là dei punti di vista, credo che si possa dire che è in atto una sorta di “signorilizzazione” (di massa o meno). Da che mondo è mondo la povera gente ha sempre sognato di vivere come i “signori”. Naturalmente, ci vogliono le condizioni. E le condizioni negli anni ’50 e ’60 in Italia ci sono state: una crescita esponenziale di consumi e di rincorsa di modelli delle famiglie ricche.
E’ accaduto anche nello sport: ricordo che il tennis e l’attività sciistica erano appannaggio di alcuni imprenditori e borghesi del nostro territorio, poi, man mano, sono diventati sport che sono stati abbracciati da persone provenienti dalla piccola borghesia e perfino al cosiddetto proletariato (naturalmente, nel frattempo, i ricchi di una volta si sono ritagliati sport “esclusivi”: dal golf alla barca a vela alla… Parigi-Dakar).
Questo è accaduto anche nei costumi: se divorziare era una caratteristica dei signori, man mano il divorzio, pur costoso, è diventato una pratica anche del settore operaio.
E questo vale per la palestra…
Un male? Un bene? Di sicuro un bene.
Un bene? Io non credo. Scimmiottare chi è più fortunato, tenuto conto che si può anche prendere un aereo, meno costoso di un tempo, e tutte le altre conquiste del ceto medio, o anche meno, non è indice di parità socio-economica. Significa solo alimentare miti irraggiungibili dalla maggior parte della gente comune, con adeguamenti che comportano notevoli sacrifici per quasi tutti. Ricordi Piero le nostre comunioni o cresime? Come si festeggiava dopo? Magari con un pranzo fatto in casa. Ora si va al ristorante. I compleanni? Si affitta una sala dell’oratorio o spazi dedicati, ce ne sono anche a Crema. Le vacanze? Si ricorre alle finanziarie, che si fanno le palle d’oro con quei poverini che devono raccontare di essere stati alle Maldive. Le automobili si pagano in 5 anni, e i mutui sono trentennali. Naturalmente sono solo dei piccoli esempi, ma purtroppo tutto questo non fa che alimentare falsi miti, imporre modelli impossibili da imitare se non diventando delle caricature di noi stessi, vivendo al di sopra delle nostre possibilità e alimentando una bolla destinata a scoppiare. Si può anche giocare a tennis, ma forse una biciclettata in campagna, che non fa figo, alla salute forse fa meglio, senza costose racchette e campi affittati. Secondo me è questo il problema dell’uomo contemporaneo: l’omologazione, diventare tutti uguali, fare tutti le stesse cose.
Se il punto è che complessivamente, come società italiana, rispetto alla fame e alle braghe corte passate dal fratello maggiore del dopoguerra, oggi si stia meglio di allora e che la ex classe operaia stia terminando il processo di assimilazione alla ex classe borghese, come stile di vita e come propensione al consumo, allora immagino siamo tutti d’accordo (gli “ex” mi sembrano opportuni, visto l’attuale chewing-gum sociale). E se un altro punto è che i più abbienti e facoltosi trovino, in Italia come nel resto del mondo, nuovi elementi di differenziazione rispetto agli altri, alimentando l’eterna rincorsa di beni, servizi e simboli sociali tipica di ogni epoca, allora anche su questo immagino ci troviamo tutti d’accordo.
Ma allora, dove sta il problema?
A mio parere, sta nel fatto che da troppo tempo noi italiani non riusciamo a risolvere tre questioni essenziali, tre nodi strutturali, tre criticità fondamentali: il debito pubblico, l’evasione fiscale e la criminalità mafiosa. E oggi (in realtà, non solo da oggi) possiamo aggiungere un quarto drammatico elemento: la devastazione ambientale.
A chi il compito? Alla politica.
Se no perché paghiamo ai politici sfizi, ciarle e pagnotta?
La politica lo sta svolgendo?
No.
Sarebbe da qui in avanti che il discorso dovrebbe partire. E, se possibile, anche “arrivare” a qualche risultato “smart” (specifico, misurabile, accessibile, rilevante, tracciabile). Senza troppe sceneggiate, messinscene, pagliacciate, pantomime, farse e buffonate.
Inoltre, se per “signore” non si intende solo il “ricco” ma il vero e proprio “signore”, magari con pochi averi ma comunque di giusto decoro, contegno e stile, allora non escluderei che gli italiani possano essere più “signori” di altri. Ma siamo lontani dal libro di Ricolfi e dagli italiani di cui spesso ci parla Marino Pasini. Avete presente il Castello delle Cerimonie in TV? Ogni volta che mi sento patriota e nazionalista e appartenente a un popolo di “signori” (nel senso giusto), mi do una calmata guardando questo programma. Credetemi, funziona.
Io, Ivano, ho dato un approccio fenomenologico, mentre tu metti in discussione addirittura i modelli in questione.
Già, la verità è sempre… plurale.
Viaggiare, vedere nuovi mondi, viaggiare anche all’estero (un fenomeno che è esploso negli ultimissimi anni, grazie, come dici tu, anche al crollo dei prezzi degli aerei low cost) è una cosa positiva o no?
Se si tratta solo di una mera imitazione di modelli, può essere negativo, ma se questi viaggi puntano a esplorare bellezze, costumi, stili di vita… di altri popoli, può essere una vera e propria scuola di vita..
O no?
Dai Piero, conosciamo tutti la differenza tra turista e viaggiatore.
Comunque io non ho parlato solo di viaggi. Ho solo posto l’accento su derive consumistiche che se te le puoi permettere va bene, se invece ti fai condizionare perché così fan tutti , a suon di sacrifici, allora é altra questione. In verità i condizionamenti toccano tutti. Ad esempio in questo momento sto bevendo un bianco in un bar del centro, con tanto di stuzzichini, che se lo bevessi a casa mia mi costerebbe meno, ma cosa ci vuoi fare, anche questo fa parte di quei rituali moderni ai quali non sempre ci si sottrae. Mettere in discussione tutti i modelli? Certamente no, ma almeno la consapevolezza di essere intrappolati in reti o spirali di cui non siamo artefici, ma supini esecutori.🥂🍾🍹
In verità si sta discutendo di condizionamenti culturali i più blandi.
Un dato banale (scontatissimo): se guardiamo indietro, non possiamo negare di avere raggiunto, noi italiani, uno standard di vita notevolmente più alto rispetto a quello che noi abbiamo conosciuto negli anni ’50.
O… siamo stati “condizionati” dallo stile di vita dei borghesi?
L’avere i servizi igienici in casa (e non nel cortile), l’avere una lavatrice, una lavastoviglie, un televisore, un micro-onde… ci ha ha fatto crescere come uomini o no?
Ti ricordi che questi “benefit” in una prima fase erano appannaggio dell’aristocrazia-borghesia e poi sono diventati di massa: siamo stati “condizionati” o anche noi abbiamo voluto i comfort dei borghesi? Così tutti gli altri comfort, come il cellulare: qual è il confine tra “condizionamento” e la legittima aspirazione di avere i confort di chi sta più in alto nella classe sociale?
Ci siamo… imborghesiti, condizionati dalla pubblicità, o ci siamo “emancipati”?
Piero, emancipati da cosa? A questa domanda grossa come il mondo non basterebbero tutti i sociologi o antropologi del mondo per rispondere. Comunque io non metterei a confronto la rivoluzione tecnologica data dagli elettrodomestici che indubbiamente hanno alleggerito il lavoro fisico, soprattutto delle donne, ma anche degli operai nelle fabbriche, fini al licenziamento perchè adesso operano i robot, con la rivoluzione digitale di questi ultimi vent’anni. Come non metterei a confronto il benessere economico del dopoguerra con la stagnazione o regressione economica di questi ultimi anni. Piero, sia tu che io, alla nostra età, abbiamo visto cambiare il mondo, e in meglio o in peggio sarebbe difficilissimo da dire. Separerei insomma i due momenti storici ormai distanti anni luce. Certamente Piero emancipati da usi e costumi e fatiche di un tempo, e questo io non lo classificherei come rincorsa ai condizionamenti borghesi di quelli che queste fortune le hanno avute prima, ma necessità primarie come la scuola per tutti o una sanità direi abbastanza efficiente , che non sono nient’altro che conquiste civili. E’ tutto il resto che andrebbe analizzato, con la rivoluzione digitale e la globalizzazione , per valutare se stiamo meglio adesso o un tempo. Di fatto, cultura di massa con la scuola obbligatoria e accessibile a tutti ha livellato quelle differenze che facevano dire a Gramsci che la differenza tra un ricco e un povero stava nel conoscere mille parole il primo e cento il secondo. E anche da questo punto di vista direi che stiamo meglio ora. Poi è arrivato il digitale con la cassa di risonanza per qualsiasi idea e questo magari ha amplificato idee nostalgiche o rigurgiti che il libri o i giornali non garantivano. Ora tutto sta nel valutare se questa rivoluzione abbia prodotto più o meno danni di quanti ne abbia prodotti il benessere economico del dopoguerra. E io direi che da questo punto di vista stiamo peggio di allora, e non per dire che una visione aristocratica del sapere garantirebbe da alcuni pericoli. I borghesi di un tempo appoggiavano il fascismo, ora sono gli esclusi, gli emarginati delle periferie che lo alimentano, con nostalgie forse di scarsa conoscenza di alcuni periodi storici nonostante informazione e cultura che dovrebbero essere strumenti in più per la riflessione. Siamo difronte ormai ad una rivoluzione antropologica che, se da una parte, vedi i social, ha garantito libertà d’espressione a tutti, ha allo stesso tempo sdoganato le parti più oscure di noi appunto amplificate dai mezzi di cui prima. Anche se magari questo c’entra poco coi condizionamenti borghesi di cui si sta parlando. In verità io ne ho parlato con esempi un po’ blandi, ma che di fatto, ripeto, non fanno che indurre a comportamenti che un tempo erano di pochi portando all’omologazione di cui ho parlato qualche commento fa.. Comportamenti che apparentemente sembrerebbero conquiste democratiche, ma secondo me imponendo stili di vita che non so fino a che punto ci corrispondono. Ripeto, se per un battesimo la festa si fa al ristorante, se io faccio fatica, è giusto che mi adegui a questo uso? Sì, pare proprio di sì, perchè così fan tutti. La socializzazione nonostante facebook o instagram direi che è sparita, spariti negozi di vicinato perchè l’economia non li garantisce più, e di conseguenza sparito il vicinato, nei condomini ci si conosce appena, spuntano adesso, all’ingresso dei paesi, visto ieri a Ripalta vecchia, avvertenze per i malviventi che una chat è attiva per garantire appunto un sicurezza di vicinato. Dove i paesani magari, con la moderna mobilità, si conoscono appena. Ma qui sto mettendo troppa carne al fuoco, un minestrone direbbe qualcuno, ma cosa ci vuoi fare Piero, se non si è specialisti di un ramo, ci si affida alla percezione del mondo, non alla sua conoscenza. Stop, mi fermo qui.
Interessanti contraddittorie opinioni…
L’organizzazione non basta a liberare il senso…
Non è più da tempo, Ivano, almeno per molti cittadini del mondo occidentale, il tempo di soddisfare le primarie necessità. Ciò che cerchiamo ed acquistiamo, infatti, è il “superpluo”.
Possiamo fare a meno della lavatrice, ma averla ci libera dalla fatica.
Possiamo fare a meno della lavastoviglie (io ne faccio a meno), ma anche questo ci libera da un lavoro e, tra l’altro, ci fa risparmiare acqua.
Questo è scontato, ma tu poni il problema della rivoluzione digitale che sta cambiando il mondo.
Siamo oltre il superfluo “utile”?
Voglio fare l’avvocato del diavolo: tutto ciò che viene offerto sul mercato è “utile”.
Un solo esempio: potrei fare a meno del cellulare, ma oggi – grazie al cellulare – non solo posso chiamare da qualsiasi luogo ed essere chiamato, ma posso anche effettuare le “video-chiamate”. Uno… sfizio? Il superfluo del superfluo? Certo, ma io, grazie alle video-chiamate, vedo ogni giorno la mia nipotina che abita in Germania a 900 chilometri di distanza.
Siamo condizionati? Sì, ma mi è più utile avere questa opportunità che non averla.
A proposito del superfluo, del Dash che lava più bianco e dove acqustarlo a prezzi ribassati, Crema, che non è una città vera ma un borgo-mercato, nella realtà, diventerà a breve il borgo-mercato dei Grandi Magazzini. Con i suoi trentacinquemila abitanti circa (e i 45-50 comuni che le ronzano intorno) non sarà più solo la piccola capitale del tortello, non solo un eccellenza del comparto cosmetico lombardo, ma avrà presto (a parte l’immancabile offerta culturale scadente, e i soliti locali, pochi, per i giovani dove trascorrere la serata), ma potrà rifarsi con una grande scelta per acquistare i pannolini, le pere kaiser in offerta speciale; e i pensionati che fanno pomeriggio fino all’ora della cena alla Coop, perchè l’inverno in pianura padana è piuttosto rigido, potranno presto avere nuove opportunità, nuove cose da fare, cambiando supermercato, se lo desiderano. Dovrebbe nascere presto un Famila ipermarket sul viale di Santa Maria della Croce e un Eurospin, dove una volta c’era la concessionaria Fiat, al rondò crocevia per Ombriano e altre destinazioni. Perchè così tanti supermercati? Perchè fose siamo una piccola Vigevano (grandi magazzini, grandi magazzini, grandi magazzini, al posto di negozi di scarpe, negozi di scarpe, negozi di scarpe, come nella Vigevano degli anni Sessanta (autore Giorgio Bocca, testo ora studiato nelle Facoltà di Giornalismo), e ben poco nel cremasco da leggere, cultura, teatro, musica di qualità che è scarsa scarsa, se non brodaglia insipida. Perchè siamo crocevia di tante strada che portano in varie direzioni: Bergamo, Lodi, Brescia, Cremona, Milano, Piacenza, tanti paesini e paesotti che ci circondano, interessati all’acquisto di mille cose di prima, seconda, e nessuna necessità. Comunque un modo per riempire il tempo e portarci la nonna, la famiglia intera, al nuovo Eurospin, per vedere com’è, quando lo metteranno in piedi, i cremaschi ce l’avranno presto. “La Provincia” di Cremona (e Crema in seconda battuta) potrebbe titolare così: Crema, nuova capitale del Supermercato. Manca solo Esselunga, poi ci sono tutti.
Certamente Piero, ognuno pensa per sé e per i propri vantaggi. Perchè è ovvio che la tecnologia la usiamo tutti sulla base dei nostri bisogni. Tutti usiamo l’automobile e riscaldiamo le case, salvo poi lamentarci se l’aria è irrespirabile e magari responsabili dei cambiamenti climatici. Sai qual è il guaio? Il guaio è che il progresso, la ricerca, non ci sarebbe neanche bisogno di ribadirlo, mai hanno lavorato tenendo conto delle conseguenze imprevedibili, ma anche no, che tutto questo comporta. La ricerca nucleare ha portato alla bomba atomica. E’ di pochi giorni fa la sentenza che condanna un’azienda a risarcire un suo dipendente per i danni fisici riportati per l’uso del cellulare. Sai, non è per fare il Savonarola della situazione, consumo come tutti, ma poi non riempiamoci la bocca con Green New Deal o marcette ecologiste o piccole ideologhe asperger, quando anche qui si è sempre scritto sotto vari titoli che il nostro stile di vita è ormai al collasso.
Ho provato, Ivano, a mettermi nel ruolo dell’avvocato del diavolo e sottolineare i risvolti “positivi” delle nuove e vecchie tecnologie: non si vende nulla se non corrisponde a dei “bisogni” (quasi tutti “indotti” dagli stili di vita di chi appartiene a classi più elevate) o semplicemente “desideri”, “aspirazioni”.
C’è sempre però l’altra faccia della medaglia (nella mia ultima fatica ho dedicato pagine e pagine ad analizzare, ricorrendo al metodo delle “antilogie” di Protagora, tutti i pro e tutti i contro).
Vi è poi sempre il nostro (anche questo… indotto) modo di usare le tecnologie in questione.
Hai ragione, Marino. Del resto, i centri commerciali vengono aperti dopo un’indagine di mercato (così le stesse filiale di banche: a Crema ci sono praticamente tutte, anche una tedesca, una francese).
Un bene o un male? Di sicuro rappresentano il modello del consumismo, del “vivere per consumare” (non del consumare per vivere). Per i consumatori, almeno nella prima fase, è un vantaggio, ma lo è in parte anche dopo: più sono i concorrenti, più i prezzi scendono (vediamo ad esempio i prezzi della verdura e della frutta a Famila rispetto alla Coop). A svantaggio della qualità? Non sempre. Certamente, a svantaggio dei “produttori” e dei “lavoratori” i cui diritti sono sacrificati a favore dei “consumatori”.
Da qualche anno osservo Crema, la sua gente, il posto che è, i suoi cambiamenti, che ci sono, insieme ai suoi granitici immobilismi che resteranno anche a lungo, come qualcuno che se n’è andato via, e quando i torna la guarda, la fotografo “da fuori”. Ci abito ma solo con una scarpa,e questo aiuta lo sguardo disincantato. Forse il mio guardare il luogo è messo, posizionato male, oppure meglio dei suoi abitanti tanto affezionati. I negozi soffrono, come in tante piccole realtà, l’offerta culturale è diciamolo, penosa, ma questo riguarda quasi sempre, non sempre, le piccole realtà municipali – e di questi tempi ancor di più, per mancanza di soldi -, ma vedere così tanti supermercati, ipermercati previsti, come unica, ripeto unica nuova realtà dovrebbe far riflettere anche il più assonnato tipo, che fa avanti e indietro sul corso, bel pacioso della sua passeggiata prima di cena, prima di rinchiudersi davanti al video azzurrino che sbatte la sua luce e fa capocchia a chi si attarda, camminando la sera dei giorni feriali, prima di rinchiudersi e dare una mandata di chiave. L’inverno a Crema, è la stagione dell’attesa, la lunga stagione dell’attesa. Basta buttare un’occhio sui manifesti pubblicitari, per capire dove si vive, che posto è Crema. E’ come se il gelo invernale raggelasse pure il centro abitato, che si sfoga, riappare, si fa vivo con i carrelli della spesa, almeno lì, ravvivato dalla musichetta del grande magazzino, dove ci s’incontra, nella bagarre dell’acquisto. Me l’ha confermato un campano che lavora all’ufficio postale: mamma mia quanti supermercati tiene Crema, e ne verranno ancora, che è, ‘na capitale del supermarket?
Per favore, Piero, tu che risposte daresti alle due domande con cui concludi il tuo post?
In pratica, siamo o no una “società signorile di massa”, anche in base agli elementi da te indicati?
E siamo su “un Titanic” che, economicamente e non solo, sta “andando a sbattere”, anche a causa dei suddetti elementi e perché, appunto, siamo una “società signorile di massa”?
E poi, perché saremmo “Il Paese dei paradossi”? Forse in base alle risposte a quelle domande? Forse perché, appunto di nuovo, siamo una “società signorile di massa”?
Le posizioni di Ricolfi in proposito le abbiamo lette nel suo libro.
Mi sembra che da queste tue domande, poste alla fine del tuo testo, sarebbe corretto e utile partire, anche perché, a seconda delle relative risposte, il discorso potrebbe orientarsi verso esiti molto differenti. E, a seconda delle argomentazioni addotte, anche verso conclusioni ben diverse da quelle di Ricolfi. Che però non ho capito se sono anche le tue.
Insomma, nel caso mi capitasse, forse, di interloquire in proposito, preferirei sapere se la rappresentazione ricolfiana dell’Italia di oggi è anche la tua. Così, tanto per saperlo.
Grazie per l’attenzione e la disponibilità anche su questo punto.
Non ho ricette, Pietro.
Non sono, poi, un fan di Ricolfi.
Ho voluto solo mettere insieme alcune analisi di un sociologo, di un demografo e di un economista (come ho già scritto) per sottolineare alcune particolarità del nostro Paese.
Si tratta, come tu stesso hai messo in luce, di record che di per sé, ad eccezione di alcuni, non sono del tutto negativi.
Tu nel tuo penultimo commento hai messo in evidenza alcuni nostri problemi grossi come una montagna, a partire dall’evasione fiscale.
Convengo. Se ho evocato (in forma interrogativa) lo spettro del Titanic, mi riferivo soprattutto a questa.
So bene che in Italia non mancano condizioni oggettive che facilitano l’evasione (vedi, ad esempio, il numero altissimo dei lavoratori autonomi e la presenza di una miriade di micro-imprese, che sono le meno “controllate” dal fisco) e quindi si tratta di un problema più difficile da risolvere rispetto ad altri Paesi come la Germania e la Francia, ma concordo con te che è questo cancro che dobbiamo affrontare con urgenza.
Lo ripeto per l’ennesima volta: non si tratta di “spendere di meno”, ma di spendere meglio e magari di più, ma con l’avvertenza di far quadrare i conti.
Per far quadrare questi conti, poi, se si vuole spendere di più (e l’Italia ha una fame di investimenti, anche per la semplice manutenzione delle nostre infrastrutture, per creare lavoro perché altrimenti il reddito di cittadinanza rimane una semplice distribuzione di reddito), occorre por mano alla evasione e alla corruzione.
Non possiamo permetterci di continuare a lungo di spendere, al fine di finanziare il debito pubblico, l’equivalente della spesa per l’Istruzione pubblica!
Questo debito, prima o poi, se non prendiamo piena coscienza e se non ci rimbocchiamo le maniche a costo di perdere consenso elettorale, ci farà… sbattere contro un iceberg.
Non possiamo, neppure, continuare col nostro tasso di fecondità più basso al mondo: non sarà anche questo che ci farà sbattere?
Possiamo, Pietro, continuare a spendere soldi nel gioco più che in altri Paesi avanzati, ad avere un quasi record mondiale in quanto a diffusione di cellulari, ad avere il numero più alto di palestre in Europa, ma non è un limite…. mortale il fatto di avere un numero di laureati al penultimo livello dell’Europa (solo prima della Romania). Non è anche questo che potrebbe portarci a… sbattere?
Sul non aver ricette e sul non essere fan di Ricolfi, caro Piero, sono onorato di condividere con te le medesime posizioni.
Personalmente, tanto per sgombrare il campo da equivoci, diciamo che condivido le critiche mosse al suo ultimo libro da Alessandro Guerani sul Sole/Econopoly e da Alessandro Visalli su Sinistrainrete, da angoli visuali diversi ma concordi nel giudizio negativo. Non sono abile coi link ma sono testi facilmente reperibili in rete.
Tornando alle tue due domande, da me riproposte alla tua attenzione, non sono sicuro di aver compreso quali risposte tu dia.
Considerando le definizioni di “società signorile” e “di massa” date dal presidente della fondazione Hume, partiamo male. Sono definizioni tutte da discutere e foriere di non pochi equivoci, anche vista la loro natura commista. L’intera narrazione ricolfiana parte da queste forzature linguistiche (più “ad effetto” che credibili) e si snoda attraverso una nuvola di suggestioni, richiami e interpretazioni parziali e orientate ideologicamente. E questo racconto viene basato su una miscela di fonti e dati statistici appositamente selezionati, a volte obsoleti, per essere poi finalizzato a un intento “morale” che è quello dei tradizionali ideologismi della sinistra da cui l’autore proviene. Secondo cui il popolo italiano sarebbe come un novello “giovin signore” del Parini, spendaccione e lazzarone. Ovviamente, il tutto è finalizzato ai soliti anatemi del savonarolismo catto-dem (pure con una curiosa punta di berlusconismo, quella del “di che cosa ci lamentiamo, che i ristoranti sono sempre pieni?”), per cui il nostro popolo di parassiti può campare al di sopra delle sue possibilità solo grazie al bieco sfruttamento degli immigrati, degli irregolari e dei clandestini. Un po’ come tante Marie Antoniette prima della Bastiglia. Anzi, del Titanic. Appunto. Come quando Boeri ci raccontava che la pensione ce l’avrebbero pagata i pusher, gli accattoni molesti e la mafia nigeriana.
Per forza che poi Salvini stravince facendo saltare il banco.
A questo punto, però, mi sembra corretto rispondere alle due domande che, poste alla conclusione del tuo post, ne reggono alla fin fine il senso, caro Piero. Anche per onorare quel metodo maieutico socratico che tu riesci sempre ad attuare così bene coi tuoi interlocutori (e coi lettori dei tuoi libri), basato sulle domande proposte e su quell’elemento positivo che è il dialogo, anche stavolta da te ottimamente suscitato.
Rispondo partendo dagli elementi che costituiscono la trama del tuo testo e che ne sostengono il significato. A mio modesto parere, il gioco, i cellulari, i NEET, le palestre, la disoccupazione femminile, la crisi delle nascite, la scarsità delle lauree, i pranzi fuori casa, oltre all’altro elemento, più oggettivo e accertabile, degli interessi da pagare sul debito pubblico (questo sì che è un problema indiscutibile), fanno tutti parte di un cocktail che, per quanto shakerato da Ricolfi con qualche maestria, alla fine risulta poco riuscito. Anche perché, Piero, non ho compreso chi siano “il sociologo”, “il demografo” e “l’economista”. A me sembra sia tutta, almeno in buona parte, farina del sacco ricolfiano, nel quale “si mischia cocaina con accesso a Internet, videogiochi con gioco d’azzardo, vacanze, cellulari, auto e fitness visti come lusso sfrenato” (da Guerani), mentre i problemi italiani sono altri, meno “di costume” e sovrastrutturali, per dirla in termini marxiani, e più “economici” e strutturali.
Per cui, alla prima domanda io rispondo di no, che non siamo una “società signorile di massa”, che resta un’invenzione editoriale, una trovata affabulatoria di Ricolfi.
E alla seconda domanda rispondo di sì, che dopo aver rischiato di andare a sbattere nel 2011, adesso rischiamo di andare a sbattere per davvero, se non risolviamo i nodi strutturali del nostro debito pubblico, dell’evasione fiscale, della criminalità mafiosa e della devastazione ambientale, tutte cose lontane anni luce dal libro di Ricolfi e dai relativi entourage ideologici.
Petro, non conoscevo Ricolfi, ma questo potrebbe aiutare a capirci qualcosa del dialogo tra te e
Piero. Non mi pare che dica solo cazzate. https://www.google.com/url?sa=t&source=web&rct=j&url=https://luz.it/spns_article/intervista-luca-ricolfi-societa-signorile-massa/&ved=2ahUKEwjbytut15LnAhUMsKQKHTCWCH4QFjAIegQIBRAB&usg=AOvVaw0hdjnOcjtsT4i6XIrIr67v&cshid=1579541521414
Mi fa molto piacere che il tema appassioni e ciascuno abbia voglia di dare il proprio contributo.
Grazie, Ivano, per il link che hai segnalato: più apriamo i nostri orizzonti, meglio è per tutti.
Io stesso, Pietro, ho avuto modo di leggere una recensione piuttosto lusinghiera sul Domenicale de Il Sole 24 Ore.
Questo vuol dire che il libro di Ricolfi (a cui mi sono ispirato, ma pescando anche nei testi del demografo Golino e nell’economista Cottarelli), essendo contro corrente, ha fatto discutere.
Contro corrente, dicevo: non a caso ho parlato di “paradossi” perché i dati riportati (selezionati ad hoc per dimostrare una tesi?) sono in contrasto con le “narrazioni” (doxai) correnti sia di desta che di sinistra.
Tutti i politici, infatti, tanto più chi è all’opposizione (ma anche gli stessi giornalisti) tendono a vedere le ombre più che le luci.
Ora Ricolfi presenta molte luci, ma tali luci possono essere letti da angolature opposte: se ad esempio spendiamo nel gioco una cifra non molto lontana da quella che spendiamo per i consumi alimentari, può voler dire che che “ce lo permettiamo” (e questo contrasta con un Paese che piange miseria), oppure può voler dire che siamo un popolo così povero e così poco fiducioso nel futuro da affidarsi alla “fortuna”.
Io insisto nel dire che non dobbiamo aggrapparci alle “etichette” (la “società signorile di massa” indubbiamente è un buona carta per “vendere”), ma di accogliere, anche se criticamente, la sua provocazione.
La mia impressione è che gente davvero povera in Italia ce ne sia poca (al di là delle statistiche: non dimentichiamo che nel Sud sono moltissime le persone che (magari prendono il reddito di cittadinanza) che lavorano in nero) e che la nostra rabbia è dovuta al fatto che si è fermato l’ascensore sociale (l’unico ascensore sociale è quello che ha mandato in parlamento una valanga di onorevoli che venivano dal nulla: loro, sì, che hanno fatto una scalata sociale!) e sono maledettamente preoccupati per i figli e i nipoti.
Ma tutti, pur con redditi diversi, godono dei nuovi prodotti della tecnologia; tutti (o quasi) fanno più vacanze brevi nell’arco di un anno; tutti (o quasi) prendono l’aereo low cost.
Io guardo a me stesso: figlio di un operaio (madre casalinga, 6 figli). Oggi vivo da borghese con tutti i comfort che il mercato offre (cioè comfort che vanno ben oltre i bisogni primari).
SEMPLICI RIFLESSIONI, per chi avrà la pazienza di leggerle.
Ecco, io rispetto al gioco non sarei così d’accordo. Mi pare che il gioco rientri in quel fatalismo della sorte che alletterebbe e aiuterebbe un sacco di gente. Se lo chiede anche Piero. Che poi basterebbe che lo Stato straccione, che non sa più come ramazzare spiccioli, trattenesse meno e restituisse di più. Perchè se anche fosse vero che si spende in gioco quanto si spende per mangiare questo non significa che possiamo permettercelo. C’è gente che col gioco si rovina. Decisamente nel gioco non vedo il segno di una società signorile, ma una società di straccioni che per circostanze o opportunità non ha altra scelta che tentare la fortuna. Ricordo un viaggio in Spagna di trent’anni fa, con un’economia in affanno, che i muri delle città erano costellati di manifesti invitanti al gioco della lotteria. Anche in Italia c’era la lotteria Italia, ma non ricordo tanta pubblicità. Come ricordo un viaggio con mezzi pubblici in Marocco dove gli indigeni amplificavano le loro musiche con enormi radio di ultima generazione che forse neppure noi avevamo. Pietro,invece, io non separerei lo strutturale economico dagli usi e costumi che rispondono soprattutto a condizionamenti culturali-epocali che ci ci fanno stabilire priorità diverse da quelle di un tempo. Forse è per quello che Ricolfi parla di massa signorile dove le rivendicazioni delle classi più disagiate vanno per forza in una direzione. Mi pare che la tesi di Ricolfi risponda ad un’osservazione che si smarca dal giudizio. Mi pare che quello che dice in molti casi non sia che una constatazione abbastanza facile perchè sotto gli occhi di tutti. L’omologazione in atto, osservabile in rete, di cui parla Ricolfi, ma non solo lui, non sia altro che la dimostrazione di scelte tra il modello culturale che risulta vincente per ovvie ragioni piuttosto che modelli o ascetici o semplicemente parsimoniosi nei costumi. Nel primo dopo guerra e col boom economico il mito erano la lavatrice e il bagno in casa. Ora tutto questo lo abbiamo già, e quelle che erano conquiste solo di comodità e meno fatica, hanno ora lasciato il posto a quelle iniziate con la Milano da bere e tutto l’edonismo, dal Berlusca in poi, di cui si caratterizzano i ricchi. E quindi ora, dopo la macchina e gli elettrodomestici, lo voglio anch’io. Anch’io comunque ho perplessità sulla definizione di Massa signorile che forse non corrisponde alla realtà,dove di fatto le differenze sono comunque evidenti. Dai un po’ di soldi ad un cafone e sempre resterà tale, anche se non è questo il problema, anche se allargando ad esempio alla Politica se ne vedono rovinosamente i risultati. Mi pare che nell’intervista sia citato il conte Mascetti, che non va comunque a lavorare perchè non consono al suo stato, e che non può che rinforzare la magra cena con tre olive di rinforzo. Sono invece d’accordo sul rifiuto del sacrificio, di cui sono capaci ancora molti genitori – forse- per i loro figli, ma non ne sono capaci i figli stessi, in una società spettacolo, tra influencer che senza saper far nulla guadagnano milioni di euro e disparità continuamente denunciate dall’ Istat sul divario tra ricchi i poveri, ormai da sproporzioni stellari, quando l’alternativa sono ormai i lavori sottopagati e dequalificati che il mercato offre, che lasciamo volentieri agli extracomunitari diventati ormai i nuovi schiavi. Ecco, in questo caso siamo davvero una società signorile, dove l’invidia regola ormai tutti i nostri comportamenti. Se può lui devo potere anch’io, anche senza avere capacità o fortuna, e per certi versi è sacrosanto essere invidiosi. Come ha ragione (Ricolfi) rispetto all’abbassamento delle richieste della scuola in genere, dove passati magari dal sei politico di tanti anni fa si è arrivati al garantire, falso, il successo formativo a tutti. Facendo credere che un diploma o una laurea ti mettano al riparo dal fare l’idraulico o il bergamino. Salvo poi scappare all’estero per quei pochi che educati in famiglie consapevoli o ambizione immaginano chissà quale carriera per i propri figli. Gli altri invece stanno qui, finchè rimane un minimo di protezione familiare, perchè sporcarsi le mai è più faticoso che inseguire illusoriamente i miti contemporanei del successo e del denaro a tutti i costi. Per dire cosa poi? Lungi da me l’idea di aver capito tutto, ma con la consapevolezza che le nostre generazioni hanno avuto opportunità che i giovani di adesso non avranno. O sempre di più, con la forbice di prima, avranno in minor numero.
Per Ivano. Sono d’accordo con te: Ricolfi non dice solo cose errate. Ne dice anche di giuste. In ogni capitolo del suo libro ci sono, ovviamente, elementi condivisibili e non condivisibili. Personalmente, ritengo però che sia partito da una sua tesi generale preconcetta, basata a sua volta su presupposti ideologici che nel caso di Ricolfi non è poi così arduo identificare, e che abbia indirizzato lo svolgimento del testo attraverso un utilizzo piuttosto disinvolto dei dati a disposizione, delle affermazioni e delle ipotesi non provviste di fondamenti effettivi, qualche interpretazione spregiudicata delle statistiche e, in genere, delle modalità espositive tendenti all’istanza moralizzatrice di certa sociologia molto politicizzata, avente facile presa mediatica e fortuna editoriale.
Per Piero. Sì, hai scelto un tema ottimo su cui discutere. Anche perché Ricolfi è solo il caso più recente di certa letteratura “sociologica” che da tempo, contro l’eccessiva “retorica” dell’indigenza e contro l’esagerata geremiade sulla povertà degli italiani, ha inventato la “retorica dell’anti-retorica” dell’opulenza e della presunta condizione abbiente e “signorile” degli italiani, beninteso ai fini di uno spartachismo (da bravo ex FLM) di denuncia contro la “società schiavistica” italiana, basata sullo sfruttamento di stranieri, immigrati e clandestini.
Su Cottarelli, da cottarelliano di vecchia data, dico che è un economista vero, ben lontano dalla sociologia di richiamo professata da questo degno allievo del marxista comunista Claudio Napoleoni. Da qui in avanti, Piero, si dovrebbero prendere in esame le specifiche parti del libro, se no il discorso resterebbe generico. Ma non so quanto il tuo post, in effetti, possa identificarsi in toto e soltanto col libro di Ricolfi. Spero non sia così.
Per ora, solo un flash da parte mia sulla seconda di copertina, dove gli uffici marketing de La nave di Teseo si esprimono sull’autore con linguaggio da televendite. Certo, non si può pretendere da Elisabetta Sgarbi lo stile di Giulio Einaudi. “Una nuova, forse definitiva, categoria interpretativa, che scardina le idee correnti della società in cui viviamo”. Addirittura, perbacco. “Un ritratto di straordinaria intelligenza”. “Un libro rivoluzionario, che pone alcune domande essenziali”. Per fortuna che lo ha scritto lui, se no chissà come facevamo. Neanche Wanna Marchi. E, soprattutto, la spudorata affermazione: “Senza alcun giudizio morale, per nulla ideologico”. Visto il moralismo ideologico del libro, è proprio vero che la lingua batte dove il dente duole.
I tempi di Giulio Einaudi, sono lontani. Penso sempre alle origini, il percorso, di chi metto sul piatto, parlandone. Anche l’odore sociale lo cerco, quasi sempre, lo fiuto, girandoci attorno come un cane in cerca di hashish. Da dove viene chiunque, determina un sacco di cose, anche quando spiattella un discorso. Giulio Einaudi, appunto. Ho visto le sue tenute, i vigneti, a Dogliani, dove fanno un dolcetto robusto, vigoroso nel gusto. Giulio viene da una famiglia importante e nobile, e questo, in un certo modo segna il cammino, comunque la si voglia intendere. Ha saputo fare un catalogo di opere che hanno fatto storia, e mettere insieme Calvino, Natalia Ginzburg, Pavese, Massimo Mila, Goffredo Fofi, Lorenzo Mondo, Sergio Solmi. I soldi di famiglia hanno seminato, ma lui aveva una cultura vera, una curiosità innata. Era anche un patriarca, un caratteraccio. Quando sei ricco, e hai un caratteraccio, ti perdonano, comunque. Non so se è la stessa cosa se ricco non lo sei. L’estate, la redazione Einaudi andava a svernare e lavorare in Val di Rhemes, nel parco del Gran Paradiso, Val d’Aosta, in una delle case di Giulio Einaudi. Ho visto l’esterno della casa, mentre me ne andavo per sentieri, perchè amo macinare chilometri d’estate, da mezzo metropolitano, immerso nella natura selvaggia. Elisabetta Sgarbi non è Giulio Einaudi, hai ragione Pietro. E’ cambiato tutto. L’Einaudi è finita, nella famosa storia processuale che ha coinvolto magistrati e Berlusconi, gli eredi Mondadori e il gruppo Caracciolo-De Benedetti, nelle mani della prima figlia del Cavaliere. Per un pò, il marketing berlusconiano è stato alla larga dalla redazione; poi, come tutto ciò che appartiene al mondo del cavaliere brianzolo, eccetto i Meridiani, diretti dalla figlia di Eugenio Colorni, partigiano ucciso dai nazifascisti (ma si tratta di edizioni pregiate, di nicchia). Molti grandi redattori dell’Einaudi sono morti; alcuni scrittori, pochi, inseriti nel catalogo Einaudi, per coerenza hanno cambiato casa editrice. Fra questi, Carlo Ginzburg e Corrado Stajano. Hanno fatto bene.
Vedo che tu, Pietro, conosci bene Ricolfi.
Io confesso di avere letto solo l’ultimo libro (ripeto: il titolo fa rumore e… vende – non è quindi escluso che sia intenzionale). Non so neppure delle sue radici politiche: quello che so è che è spesso ospite del programma di Porro e da quello che dice mi pare che sia tutt’altro che di sinistra (tra l’altro, ha dichiarato apertamente di essere, in tema di immigrazioni, sulla stessa impostazione di Salvini).
Comunque sia, a me interessa se i dati riportati sono veri (ho qualche resistenza a credere che un sociologo utilizzi dati falsi e intenzionalmente faccia violenza nei loro confronti).
E’ vero che gli italiani spendono 107 miliardi l’anno per il gioco?
E’ vero che abbiamo il record in Europa dei NEET?
E’ vero che siamo il terzo paese al mondo per la diffusione dei cellulari?
…
Quello che mi interessa è solo questo.
Se è così, si tratta di dati che, come minimo dovrebbero far discutere ed è quello che, grazie soprattutto a te e a Ivano (ma anche a Marino, Franco e Adriano) abbiamo fatto.
Io non ho avuto la sensazione che abbia violentato i dati per piegarli in direzione di una certa tesi (posso sbagliarmi): lui stesso afferma che si tratta che si possono leggere o come indice di benessere o come indice di miseria, o in appoggio all’ottimismo o in appoggio a visioni apocalittiche.
Per quanto riguarda il fatto che il nostro benessere si fonda sulla para-schiavitù di milioni di persone (in gran parte stranieri), a me pare che corrisponda al vero: non mi riferisco solo alle nostre badanti, ma anche a una serie di prestazioni che in Italia (ma anche all’estero) vengono svolte prevalentemente da stranieri.
Una domanda? Avete mai visto negli ultimi anni un “corriere” di lingua italiana?
Caro Piero, se le domande non sono più sul fatto di essere una “società signorile di massa” o meno oppure sul fatto che, a causa di questa mostra “signorilità di massa”, affonderemo come il Titanic, essendo invece le tre domande da porci quelle sul gioco, sui NEET e sui cellulari, beh, allora comprenderai che, con un simile cambio di scenario dialettico, scendiamo dalle nuvole delle teorie generali sociologiche sulla società italiana attuale ai dati statistici particolari riguardanti tre dei tremila elementi che configurano la società italiana di oggi, e di certo non quelli fondamentali ed essenziali, per cui certo che sì, sicuramente possiamo interloquire su questi tre dati specifici, ammesso che li troviamo entrambi sufficientemente interessanti. Il tuo è un post comunque molto stimolante e dialogare con te è sempre istruttivo e gradevole e pure gratificante, visti il tuo sapere e il tuo stile.
Sul fatto invece che noi italiani siamo diventati un popolo di schiavisti, che oggi la nostra schiavistica società italiana si basi soprattutto sullo sfruttamento di immigrati, stranieri e clandestini, che il popolo italiano sia come il “giovin signore” del Parini, spendaccione e lazzarone e composto da Arpagoni e per di più ludici, una vil razza dannata destinata a perire sotto la propria infamia di popolo aguzzino schiavista, beh, caro Piero, ti confesso che farai proprio fatica a convincermi. Però, visto che siamo persone civili, parliamone pure.
Ho sempre apprezzato, Pietro, il tuo senso critico, il tuo non bere nulla in modo acritico. E quindi hai fatto bene a contestare il legame tra i record che noi italiani abbiamo e lo scenario possibile del Titanic.
Il mio pezzo voleva essere provocatorio (ma seriamente provocatorio) e tu l’hai preso molto sul serio.
Un gioco, il mio? Non ho pensato a un gioco: volevo solo far “riflettere” e tu hai dimostrato (eccome!) di riflettere. Riflettere “chi siamo”, “dove andiamo” e tu hai aggiunto “da dove veniamo” (se abbiamo il numero più alto di palestre in Europa è perché…; se spendiamo così tanto nel gioco è perché…).
Chi siamo e dove andiamo noi italiani che abbiamo il tasso di fecondità più basso al mondo? Abbiamo seguito fin troppo alla lettera il consiglio che Malthus dava ai proletari, cioè di imitare i borghesi che programmavano i figli in modo da non intaccare il loro tenore di vita? Siamo proprio sicuri che con gli incentivi che vi sono in Francia e con i servizi offerti in Germania e nei Paesi scandinavi, noi riusciremo a eguagliare il tasso francese? Io ho qualche dubbio: a mio avviso gli incentivi servono e i servizi servono, ma c’è pure un problema “culturale”: la cultura di Malthus, quella cioè di non intaccare il nostro tenore di vita (possiamo anche non usare i termini “borghese” o “signorile” che possono essere fuorvianti)?
Se così fosse (se cioè ci fosse pure un problema culturale: non siamo stati i primi al mondo a inaugurare questa svolta?), quale potrebbe essere il destino del nostro popolo?
Spendiamo sui 60-70 miliardi per interessi sui titoli di Stato: dove andiamo con questo carico di debito?
Prima o poi non andiamo a sbattere, considerato che, dovendo spendere così tanto per il nostro debito, non possiamo spendere quanto sarebbe necessario per rilanciare gli investimenti e creare posti di lavoro (che genererebbero un circolo virtuoso)?
L’immagine del Titanic non è stata messa in coda a mo’ di coup de théatre?
Non siamo un popolo di schiavisti? Concordo con te, Pietro, ma è un fatto (contro ogni pregiudizio) che certi lavori noi (e con noi tutti i popoli occidentali) li deleghiamo a chi è disposto a farli, spesso a condizioni di s sfruttamento.
Vorrei fare una ulteriore provocazione: non siamo noi “consumatori” occidentali i veri “schiavisti”?
Grazie per quanto dici, Piero. E ti confermo che hai meritoriamente scelto un tema, a mio modesto avviso, davvero molto rilevante. Naturalmente, il libro di Ricolfi è soprattutto un’occasione di dialogo e so bene quanto tu non esaurisca le tue posizioni in proposito nei contenuti di questo fortunato prodotto editoriale. Tra l’altro, mi scuso per i precedenti toni poco consoni alla mia età e alle mie condizioni.
Gli elementi posti sul tappeto da questo e da altri testi del genere (“italiani ricconi”, “italiani pelandroni”) sono parecchi e, come dicevo, per parlarne in modo adeguato sarebbero da approfondire e precisare. Mi limito per ora a quello che mi pare uno dei punti più significativi, quello dell’economia italiana definita “paraschiavistica”.
Mi ha colpito la preconcettualmente ben costruita e statisticamente mal orchestrata convergenza di argomentazioni, interpretazioni e affabulazioni, da parte di tale autore, verso questo preciso punto di arrivo prospettico, riguardante l’attuale società italiana, asserita come “paraschiavistica” e quindi effigiata come afflitta da un problema principale, quello di un popolo italiano schiavista e negriero.
Tutto mira a lì, ogni parte del testo mira a questo bersaglio, alla fin fine è questa la conclusione reale, il senso effettivo, la botta editoriale, l’effettaccio mediatico. Cinque edizioni in quattro mesi certificano il successo di pubblico del libro, dopo che i precedenti di Ricolfi erano andati davvero malaccio a vendite (a critica, quest’ultimo si sta prendendo più consensi ma anche parecchie stroncature). Per cui, ottima trovata. Contento l’autore, che incassa, contento l’editore, che pure incassa, contenti gli intellettuali lib-lab-dem, che con 18 euro possono meglio stigmatizzare gli “italiani colonialisti”, adesso persino in casa loro.
Sorprendente e geniale il capovolgimento logico. Il problema, per noi italiani, non sono più gli immigrati, gli stranieri, i clandestini. Sinora, anche i più smutandati verso i diletti fratelli ammettevano che questo problema c’era, però era giusto accogliere, perché e percome, la solidarietà di qui, l’amor del prossimo di là. Però la logica era che noi siamo quaggiù e quando quelli arrivano da laggiù noialtri abbiamo un problema da risolvere, magari accogliendoli tutti a braccia aperte. Ma restavano comunque loro il problema, che noi dovevamo risolvere.
Ora non più. Capovolgimento totale. Il problema siamo noi, non loro. Noi siamo il problema perché siamo schiavisti e negrieri, dei rentier parassiti, dei perdigiorno, dei dilapidatori. Siamo noi a creare il problema a loro. Stupefacente. Loro subiscono noi come problema. Noi gli creiamo il problema perché li riduciamo in schiavitù. Gli innocenti, puri e santi immigrati, stranieri e clandestini hanno il grosso problema degli italiani, visto che gli italiani li catturano, asserviscono e schiavizzano.
Il problema dell’immigrazione clandestina, insomma, siamo noi italiani. Lo sentenzia il sagace autore dal boccoluto sopracciglio, accuratamente sociologico, dalla quarta di copertina.
Pietro, paradosso per paradosso mi cimento anchi’io, magari ricordando le rivolte del Cilento, Salento e tutte le arance o pomodori o olive che vogliamo. Perchè in fondo siamo tutti così, tendenti alle generalizzazioni, come magari lo sono da ieri tutti i Tunisini, residenti a casa loro o qui da noi, di fronte all’ultima sparata dell’ex ministro. Che non racconto tanto l’abbiamo visto tutti. Ebbene, per quei maghrebini probabilmente siamo ormai quelli, tutti gli italiani, che sono forti con i deboli e deboli con i forti. Tutti si staranno chiedendo come mai noi italiani, piuttosto che il campanello di persone magari qualsiasi, andiamo in strada come facevamo da bambini allertanto tutti, pigiando tutti i citofoni, per poi scappare sghignazzando, e invece non citofoniamo al narcotrafficante o al capo mafia chiedendogli se lo sono veramente. Magari in onor di telecamera. Caro Pietro mi sa che i tunisini si stanno ormai chiedendo se oltre ad essere pericolosi per loro, noi italiani non lo siamo prima di tutto per noi stessi.
Ottima conclusione, Ivano. Infatti penso che in Italia dovremmo farci correre meno rischi da noi stessi. Ma il count-down elettorale è iniziato e tra non molto sapremo se ci attende la mannaia, il cappio o il gas o altro ancora. Comunque vada, conterà soprattutto soffrire di meno. Come si disse allora, tiremm innanz.
Tutti condividiamo il fatto che in Italia esistano criminali, mafiosi, profittatori che sfruttano gli immigrati, lucrano sulla manodopera irregolare e la fanno spudoratamente franca. Ci sono cantieri edili al nord ed estese campagne al sud in cui lo Stato è assente, dove tutti sanno tutto eppure nessuno fa alcunché. La stessa dinamica dell’accoglienza istituzionalizzata ha evidenziato scandali e ruberie. Tutto vero. Ma diamo un peso, dei volti, dei numeri, dei contesti, dei dati reali ed effettivi, non costruiamoci sopra lucrose prebende generalizzando, banalizzando e ideologizzando. Forse non siamo ancora un “popolo” che merita di essere identificato, per intero e senza speranza, con i criminali, i mafiosi, gli sfruttatori. Anzi, di più, di essere definiti il popolo capofila degli altri popoli in questa realizzazione di una società “paraschiavistica”, della quale saremmo i precursori e i primi alfieri. Pazzesco, con quello che hanno combinato e ancora combinano gli altri. Anche perché spesso, davvero sempre più spesso, i capoccia e i caporali espressione di questa delinquenza sono delle stesse etnie o popolazioni o nazionalità o comunque di tipologie e provenienze non molto diverse rispetto a quelle delle vittime. Come per certo caporalato recentemente assurto agli onori della cronaca in meridione. O per le ormai quasi monopolistiche gang di magnaccia nigeriani. Per non parlare dei cinesi, per i quali è tradizione plurimillenaria, quando si delinque, non lasciare tracce presso i non cinesi, cadaveri compresi.
Sulla citofonata e su altri sketch e gag e show, ahimè, Ivano, forse siamo solo all’inizio. Vedremo. Di sicuro lo spettacolo non mancherà.
La cosa bella (ciò che a mio avviso dovrebbe costituire il “metodo” di CremAscolta), Pietro, è che abbiamo creduto tutti e due al “confronto” e il confronto ci ha “arricchito” (almeno me). Gli altri punti di vista, scrive Ermanno Bencivenga (filosofo che da poco è diventato cremasco), sono una “risorsa” ed è per questo che abbiamo avuto ambedue un “valore aggiunto”, se non altro perché ci siamo chiarite le idee e ci siamo liberati da possibili equivoci.
Io ho conosciuto meglio Ricolfi e ho capito ancora meglio come tutto ciò che viene scritto può essere letto da punti di vista diversi e già questo ci aiuta a non essere manichei e a cercare di capire l’altra angolatura.
Ora, dopo una lunga conversazione, abbiamo maggiormente presente la “complessità” dei paradossi di cui mi ero permesso di parlare e del fatto che tali paradossi sono solo una minima parte di ciò che rappresenta il nostro essere italiani, di ciò che è la “salute” del nostro Paese, dei rischi che corriamo, ma anche delle virtù che abbiamo.
Se i politici dovessero applicare il nostro metodo (che è il metodo generalmente utilizzato nel nostro blog), la politica migliorerebbe di molto perché tutti troverebbero il tanto che li accomuna e quanto sarebbe opportuno lavorare insieme per risolvere i problemi della comunità
Lo stesso vale anche per me. Grazie, Piero.
Caro Piero, di Ermanno Bencivenga conosco solo certi suoi articoli apparsi sul domenicale del Sole 24 Ore. Si farà scomparciata di tortelli cremaschi e di torta bertolina, e ora che le nebbie sono quasi scomparse, troverà facilmente la strada di casa. Apprezzo la tua pazienza, Piero, la voglia di capire, comprendere “le ragioni dell’avversario”, come le chiamava Albert Camus, di chi la pensa diversamente. So che questo è importante per te.
Caro Ivano, l’arma usata da Salvini – lo confesso – ha colpito anche me.
Sia chiaro: ho una certa età e so bene che a quali mezzi ricorrono i politici (anche di ieri) per fare propaganda politica.
Il mezzo usato da Salvini, a prescindere dall’etica di una sana politica, è indubbiamente di grande efficacia: non dimentichiamo che tanta gente non ha l’attrezzatura sofisticata (il senso critico) che hanno le persone “colte” o comunque più addentro ai trucchi dei politicanti.
Noi, che abbiamo un po’ di conoscenza di storia, pensiamo al clima “giustizialista”, ad esempio, di un Robespierre, Saint-Juste…, dei regimi comunisti e in genere dei regimi totalitari: la giustizia popolare!, il Tribunale del popolo!
Ho letto qualche giorno fa l’intervista al vigile di San Remo che ha timbrato in mutande: distrutto dal processo mediatico (il Tribunale de popolo di oggi).
Piero, assolutamente d’accordo. Se, vista la complessità del mondo di oggi faticassimo un po’ con letture meno ideologiche tutto andrebbe meglio. Ma l’hai già detto tu.
Bencivenga si farà scorpacciate di tortelli, non quello che ho scritto.
Pietro, nei campi di concentramento c’erano i Kapo. Molti erano ebrei. I caporali nigeriani? Senza dubbio. Delinquenti nati o nella fattispecie hanno imparato da noi?
La domanda mi sembra buona, Ivano. Dare una risposta altrettanto buona, almeno per me, non è facile.
Forse potrei rispondere che imparare a fare una cosa come “fare il nazista”, mi sa che bisogna impararla proprio dai nazisti. Erano diventati molto specifici, un brand difficilmente oggetto di contraffazione. Allora ci hanno comunque provato gli italiani (prima loro imitavano noi, poi il market share e il trend sono cambiati) e anche croati, ucraini, ungheresi, rumeni e molti altri ancora. Ma gli imitatori, anche i Kapo, non potevano che imitare loro e imparare da loro. Erano loro, i nazisti, i responsabili anche degli altri. L’alternativa non era il “disagio sociale”, la “difficoltà economica” e via dicendo. Era la camera a gas. In cui poi, comunque, anche i Kapo finivano.
Mi pare che la prostituzione sia un fenomeno molto meno specifico. E anche il caporalato. Proteggere battone e gestire sfruttati non implica doti etniche, genetiche, congenite, non abbisogna di addestramento molto strutturato. Non servono castelli di Wewelsburg, basta essere dei delinquenti. E la delinquenza, la criminalità è una cosa che, insieme alla prostituzione e all’asservimento del prossimo, mi pare diffusa sull’orbe terracqueo da quando ci siamo noi, da cinque o sei milioni di anni. Tutte cose molto poco, davvero molto poco originali. Per le quali incolpare il padrone di casa, il luogo di residenza, la società, “il sistema” mi pare cosa da farisei, tartufi, gesuiti e pinocchi.
Potrei forse rispondere, di conseguenza, che i Kapo non erano penalmente imputabili, non essendo tecnicamente colpevoli. E che i magnaccia, i caporali, i delinquenti, i criminali nigeriani (o di qualunque altra popolazione, etnia, tribù, schiatta di immigrati che oggi scorrazza impunemente per l’Italia) invece sì.
Ma, ripeto, la risposta non è facile.
Hai ragione Pietro, il paragone coi Kapo è azzardato. Invece sono d’accordo con la delinquenza in genere, come sono chiare le ragioni che la determinano a cui anche tu fai riferimento. Come è chiaro che è destinata ad aumentare, senza una virata economica quasi impossibile. E non solo per mano dei neri a cui l’ex ministro coi suoi Decreti ha tolto quel minimo possibile di integrazione, ma ad opera anche di noi bianchi. Ma si ritorna ai soliti discorsi e anche qui le risposte non sono facili..
Ho notato, Piero, che dopo i tuoi post non è raro che tu esprima, subito a seguire, un commento di precisazione riferito a uno degli elementi principali, se non anche all’elemento da te ritenuto più significativo, del testo appena pubblicato.
Mi piacerebbe, se possibile, riprendere il nostro dialogo sulla “società signorile di massa” ripartendo proprio dal “più alto numero di NEET in Europa” che secondo Luca Ricolfi contraddistingue l’attuale società italiana e con cui tu hai iniziato il dialogo sull’argomento col tuo primo commento del 13 gennaio:
«L’avere, ad esempio, il più alto numero di NEET in Europa è un indice che siamo ormai una “società signorile di massa” che si può permettere di non lavorare (come il fatto che sono più gli italiani che non lavorano rispetto a quanti lavorano), oppure è un sintomo della nostra cronica crisi?»
Ricolfi basa le sue conclusioni su alcune ragioni fondanti, tra cui spicca quella della “distruzione della scuola”. Non solo nell’apposito capitolo (pag. 56 e segg.) ma in tutto il libro l’aspetto del fallimento della scuola italiana ritorna con insistenza.
Tu sei stato per molto tempo un apprezzato docente in una delle più importanti scuole superiori cittadine; hai sempre dimostrato attenzione ai temi educativi e formativi; hai vissuto momenti importanti di questa “distruzione della scuola”, non solo come insegnante negli anni più critici citati da Ricolfi ma anche successivamente, ricostruendo in alcune tue opere e in non pochi contributi a testi pubblicati con altri autori molti fatti, personaggi e situazioni di una temperie culturale, politica, ideologica e, appunto, “scolastica” (anche locale) che oggi alimenta le conclusioni di Ricolfi.
Sarei interessato a conoscere la tua posizione rispetto all’analisi fatta da questo autore in proposito e al suo giudizio sulla “distruzione della scuola” italiana, una concausa (non secondaria ma fondamentale) dell’attuale “disoccupazione volontaria” giovanile in Italia.
Ti ringrazio sin d’ora per la tua cortesia e disponibilità al dialogo.
https://www.google.com/url?sa=t&source=web&rct=j&url=http://www.lifeskills.it/le-10-life-skills&ved=2ahUKEwiv742Y36HnAhWFZlAKHXgHDmwQFjAYegQIAhAB&usg=AOvVaw25NwdoNMWf1WS4HHqI4Sf4 Pietro, le conoscerai. Non so fino a che punto in questi anni gli insegnanti le hanno adottate come linee guida. Io ho lavorato con i bambini piccoli, ma mi sono sempre sembrate condivisibili. Poi non so se io sono riuscito a lavorarci e con quali risultati, essendo educazione e formazione non so fino a che punto esatte. Certo che se queste competenze non lo sono neppure per gli insegnanti allora c’è poco da fare. E qui entra in gioco il reclutamento.
“scienze esatte”
Io, Pietro, insegnando allo Scientifico (sarebbe stato lo stesso o ancora meglio se avessi insegnato al Classico), mi sono trovato in una scuola in cui gli allievi erano di fatto già “selezionati” a monte. Non ho quindi toccato con mano i bassi livelli che, nonostante la buona volontà e intelligenza dei professori, vengono raggiunti in certe scuole professionali (senza, tuttavia, generalizzare perché in tutte le scuole ci sono ragazzi di buon livello).
In quarant’anni di una scuola “privilegiata” non ho trovato quel… decadimento di cui parla Luca Ricolfi.
I ragazzi, indubbiamente, sono cambiati perché sono cambiati i climi culturali (più aperti alle problematiche sociali e politiche prima e più motivati dalla volontà di puntare in alto, in una seconda fase), ma non mi sento di dire che i livelli hanno registrato un caduta verticale.
Anche gli insegnanti sono cambiati, diventando più tolleranti non tanto nella valutazione dei risultati, quanto nell’accettare quelle che i ragazzi chiamavano “verifiche programmate”. Personalmente, ho sempre guardato a tali verifiche non come un “bene”, ma come un “male” (una sorta di boomerang per gli allievi, nel senso che questi si potevano permettere di fare quattro secchiate in vista della verifica e basta), ma ormai per i ragazzi era un “diritto acquisito” che ha penalizzato però i più deboli.
Comunque, confesso che valutavo di più le verifiche scritte: era in tali verifiche, infatti, che si potevano saggiare meglio le competenze acquisite mentre le verifiche orali si riducevano spesso, dati i tempi stretti, nella valutazione dello “studio” o della “memoria” che sulle capacità.
Ora, se consideriamo le prove scritte, non mi pare ci sia stato un degrado della scuola: ho trovato prove eccellenti nella prima fase e prove eccellenti nella seconda (una delle ultime classi, tra l’altro, ha scritto la sceneggiatura di un testo teatrale a sfondo filosofico e in chiave attuale, di grande impatto).
Forse un errore (lo dico a posteriori) c’è stato quando un preside ci ha chiesto di usare tutti i voti (dall’1 al 10). Una richiesta più che ovvia, ma di fatto ha avuto l’effetto di portare in su i voti senza invece utilizzare i voti sotto il 4 (io sono stato uno dei pochi che ha dato un 3 sulla pagella, un voto che mi ha perseguitato per anni).
La cosa bella che poi ricordo è che, dagli anni 90, noi insegnanti abbiamo imparato molto dagli allievi: erano loro i nostri insegnanti di “informatica”.
Se io sono riuscito a realizzare uno dei primi esperimenti in Italia di applicazione dell’informatica alla filosofia – traducendo la filosofia nel metodo socratico, un esperimento per cui sono stato chiamato a tenere relazioni a convegni nazionali di filosofia, lo devo a loro.
«Quello dell’istruzione è l’unico settore della società italiana in cui la produttività è in costante diminuzione da oltre mezzo secolo». «La produttività è l’inverso del numero di anni necessari per raggiungere un determinato grado di organizzazione mentale: ………. conoscenze, padronanza del linguaggio, capacità logiche». Un diplomato di terza media del 1962, ultimo anno prima della media unica, sveva impiegato otto anni per raggiungere un certo livello. Oggi, per Ricolfi, per arrivarci ce ne vogliono il doppio, sedici, pari a una laurea breve (pag. 58). Le ragioni? Titoli di studio “politici”, loro inflazione, loro mancanza di credibilità per i ruoli decisionali del mondo del lavoro, azzeramento del merito, livellamento demagogico, ad eccezione di “isole” scolastiche ben individuate.
«La scuola senza qualità ha generato un fenomeno nuovo, che è anche il secondo pilastro della signorile di massa (il primo è “il risparmio dei padri”, il terzo è “l’infrastruttura paraschiavistica”): la disoccupazione volontaria». Che «inizia non perché la proposta è palesemente irricevibile ………. ma in quanto ritenuta non all’altezza delle proprie capacità, del proprio talento». Una scuola che ha illuso tutti di poter essere diplomati e laureati, con poco sforzo e per demagogia “politica”. Una vera e propria truffa sociale, che però poi si rivela tale nel momento della verità, quando il mondo del lavoro, rimasto meritocratico, non fasullo e non rovinato dalla demagogia, punisce ogni illusione e provoca risvegli dolorosissimi. Soprattutto perché il resto del mondo non si è auto-truffato come noi e i confronti scolastici a livello internazionale diventano micidiali. Specie per il Sud Italia.
Quali i punti di snodo salienti, per Ricolfi? La riforma dell’istruzione postelementare del 1962, con l’unificazione “politica” della media unica e la possibilità di poter accedere tutti a qualsiasi media superiore. L’introduzione di criteri anti-meritocratici e basati su una visione populista e livellatrice della scuola. Lo stravolgimento dei contenuti e l’abbattimento dei livelli culturali in nome della lotta al “nozionismo”, con l’introduzione di tematiche socio-politiche di miserrima consistenza culturale e spazi di autogestione risolti in fumosi dibattiti e chiacchiere senza costrutto, se non quelli di arrivare a un titolo di studio senza sforzo e senza merito. Poi, nel 1969, “il colpo di grazia”, con l’indiscriminata liberalizzazione degli accessi universitari, con tutti che possono iscriversi a tutto, una cosa che scardina qualsiasi possibile percorso basato sulla competenza reale. E via di questo passo, fino a oggi.
È durissimo, Ricolfi, con la politicizzazione dell’università, col “diciotto politico”, uno scandalo durato anni, soprattutto in certe università. E col tradimento della classe insegnante che, tranne poche eccezione, si adatta e loda questa distruzione della scuola, talvolta cavalcandola demagogicamente e poi, tempo dopo, scrivendone testi rievocativi e celebrativi.
Impietosa la critica al “donmilanismo”. Ricordiamo “Lettera a una professoressa”, del 1967? Nessuno può essere bocciato. Tutti promossi. Solo che poi, nella vita vera, è tutto il contrario. Volevamo Barbiana? Beccata in pieno. Il “donmilanismo” assurge quindi emblematicamente a quintessenza di questo disastro.
«La disoccupazione volontaria, di cui i NEET sono la manifestazione più evidente, è il prodotto naturale di questi processi» (pag. 71).
Questo Ricolfi comincia a non dispiacermi. Tu che dici, Piero?
Come ti ho raccontato dalla mia posizione privilegiata e da un’angolatura privilegiata, io non ho visto il tracollo della scuola di cui parla Ricolfi.
Solo perché insegnavo filosofia e mi interessava stimolare i ragazzi a porsi domande, a non accettare nulla senza avere ponderato la sua attendibilità…?
Non lo so. Ma che mi ricordi, anche la mia collega di matematica non ha notato tale sfascio.
Le statistiche sono, appunto, statistiche e la mia scuola, forse, era al di fuori della media statistica!
La mia impressione è che sia di moda accusare la scuola, ma la scuola è viva e lì, giorno dopo giorno, operano insegnanti motivatissimi e preparati (anche se sotto-pagati).
Sul valore di molti insegnanti, anche qui da noi, e sul fatto che oggi vada di moda accusare (spesso ingiustamente) la scuola, sono pienamente d’accordo con te, caro Piero.
E ti ringrazio della possibilità di questo dialogo su un tema così controverso, oltre per la disponibilità a portare tue testimonianze dirette in proposito, una cosa che ho molto apprezzato.
Come sai, io ho avuto esperienze professionali diverse e quindi non posso che cercare di capire ascoltando chi invece ha operato direttamente e magari per decenni all’interno del mondo scolastico.
Mi ha un po’ stupito questa presa di posizione di Ricolfi, che peraltro argomenta piuttosto bene (o così mi pare) sull’argomento. Oltretutto, provenendo da uffici studi di area sindacale (FLM, mica il sindacato dei cocuzzari, ammesso che esista, magari esiste e ho fatto una gaffe), non è certo un codino reazionario. Anche se i metalmeccanici sono una cosa e i don Milanisti un’altra. In effetti, come dicevi, è andato da Porro. Ma anche quella maîtresse à penser di sinistra che è Alba Parietti ci è andata, per cui non saprei.
Mah, meglio rifletterci meglio.
Intanto, grazie per i tuoi cortesi riscontri.
A proposito, Pietro, degli effetti generati dalla Lettera a una professoressa di do Milani, posso solo ricordare la mia piccola esperienza: il “gruppo” di Vaiano (di cui facevo parte in quanto giovanissimo professore della scuola media del luogo) ha aperto una scuola destinata ai tanti ragazzi del tempo che non avevano frequentato la scuola media (che era già una scuola dell’obbligo), una scuola che abbiamo impostato proprio secondo l’impostazione di don Milani.
Nello stesso anno, poi, partito per il servizio militare a Bracciano, là, con la collaborazione del Cappellano militare, ho esportato il modello di Vaiano e anche là non pochi soldati del Sud e non pochi marescialli (interessati ad avere il diploma di scuola media per far carriera militare), hanno avuto l’opportunità di avere una formazione e di conseguire il diploma.
In ambedue i casi, l’obiettivo nostro era quello di condurre gli allievi a superare l’esame di terza media.
Quindi, anche se il taglio didattico delle due esperienze scolastico era quello di don Milani, ci siamo attivati per ottenere i “risultati” richiesti dai programmi ministeriali.
Personalmente, ho un ricordo bellissimo di quelle due esperienze (la prima è durata per anni, fino a quando ci sono stati ragazzi di Vaiano, Chieve e Monte sprovvisti di licenza media).
L’esperienza condotta a Bracciano, poi, ha dato un “senso” civile al mio servizio “militare”.
Come ti dicevo in un precedente commento, Piero, non ho esperienze scolastiche se non come studente e padre di due studenti. Per cui, non avendo titolo per esprimermi con cognizione di causa, soprattutto rispetto a chi esercita o ha esercitato per professione (a volte per missione) l’attività di insegnante, come nel tuo caso, la mia opinione conta davvero poco.
Avendo tu, inoltre, letto la parte del libro di Ricolfi dedicata alla distruzione della scuola, potrai meglio di me distinguere, da un lato, le specifiche esperienze da te richiamate, comunque finalizzate (mi pare di capire) al sistema scolastico nazionale di allora, basato su studio, voti, esami e (in parte) ancora sul merito, sia pure integrato dalle vostre attività di meritevole volontariato; dall’altro lato, il modello complessivo di scuola instauratosi successivamente e basato, secondo Ricolfi, su principi, strutture, metodi, didattiche e contenuti ben diversi, che hanno causato, per questo autore, la distruzione della scuola italiana e che furono in buona misura ispirati, secondo lui, alla parte più radicale e sovvertitrice (e demagogicamente illusoria) del “donmilanismo”.
Ma, ripeto, relata ricolfiana refero. E massimo rispetto per chi, allora, era convinto di fare del bene al prossimo. E magari ci è davvero riuscito. Pure a Vaiano, ci mancherebbe. Anche perché, oltretutto, si parla di amici.
Una breve postilla, Pietro.
Io sono cresciuto alla scuola di don Milani e non mi vergogno. Sono anzi orgoglioso.
E oggi vedo con piacere che, a distanza di decenni, l’attenzione agli ultimi, agli… scarti della società è cresciuta a dismisura nella scuola: pensiamo all’esercito di ragazzi e di giovani che la scuola oggi fa di tutto per “includere”, perché ognuno di loro esprima al massimo le sue potenzialità, anche se deboli.
Una conquista di civiltà.
Certamente, non si può attribuire al solo don Milani tutto questo, ma don Milani è stato di sicuro uno dei pionieri.
Mi permetto un aggiornamento del nostro… vizio (?) del gioco che trovo sul Corriere della Sera di ieri a firma di Federico Fubini.
Nel 2019 abbiamo giocato 109,4 miliardi. Siamo in crescita a confronto con i dati di Ricolfi.
Pensiamo che nell’arco di una decina di anni abbiamo scommesso ben 90 miliardi in più!
Quanti sono i giocatori? 18,5 milioni ciascuno dei quali, in media, ha speso quasi 6000 euro in un anno.
Il guadagno dello Stato? 12 miliardi di euro netti: una bella boccata di ossigeno senza la quale “il deficit e il debito pubblico dell’Italia rischierebbero seriamente di finire fuori controllo”.
Dei 18,4 milioni di scommettitori, 3 milioni sono quelli che “danneggiano o mettono in pericolo se stessi o la propria famiglia a causa della dipendenza dall’azzardo”.
Sono dati che ci devono pur far riflettere per capire “chi siamo” e “dove andiamo”!
Sì, sono un paio di miliardi in più rispetto ai dati di Ricolfi (2019, pag. 124).
Va detto che, oltretutto, non si tiene in considerazione il gioco illegale, di difficile quantificazione. Si oscilla dai 20 miliardi di base fino a un importo pari o quasi a quello del gioco legale, quindi con variazioni di stima notevoli (ibidem, nota 96).
Interessante il discorso sulla televisione, dal 2003/2004, con l’impennata di quegli anni dovuta a certi programmi, almeno secondo Ricolfi. Ed è un aspetto raramente citato quando si parla dell’influenza della televisione sugli italiani. Dai tempi del maestro Manzi, un “percorso educativo” divenuto “diseducativo”. Ma, si sa, pecunia non olet.
E, a questo proposito, va tenuto sempre presente che il gioco fa cassa nei conti pubblici, una cosa che non rappresenta certo un dettaglio in queste dinamiche di spesa.
Per cui, è vero che siamo tradizionalmente un popolo di giocatori, soprattutto al sud (i dati scorporati danno evidenze davvero molto diverse, per intenderci anche “da 1 a 3”, e questo non si può ignorare). Ma è anche vero che esistono “guide” direzionali pubbliche, indirette (come le televisioni, quasi tutte) o dirette (come lo Stato biscazziere), che aggiungono parecchio al genius loci nativo e alle esperienze storiche pre-unitarie.
Mi permetto, Piero, di indicare un punto che tu certamente hai già preso in considerazione: il gioco d’azzardo è un fenomeno sociale che facilita od ostacola le disuguaglianze sociali? Conosco la risposta di Ricolfi ma sarei interessato a conoscere anche la tua opinione personale in proposito.
Mi chiedi troppo, Pietro.
Di sicuro nascono disuguaglianze non per “merito”, ma per “fortuna”.
Ma è anche legittima l’aspirazione di chi è povero in canna di trovare la fortuna per vivere meglio (nei giorni scorsi non è accaduto che uno dei nostri concittadini ha scommesso un euro e ha vinto un milione?).
E’ vero che la media che uno scommettitore (legale, come tu hai precisato) è di 6000 euro l’anno, ma è anche vero che nella media uno può spendere ben poco e guadagnare molto. Non me la sentirei quindi di criticare chi, tanto più se povero, ha il… vizietto del gioco.
Il problema è che 3 milioni di loro… si ammalano e così, se poveri, rischiano di precipitare nella miseria più nera.
Lo Stato porta a casa, sì, un bel gruzzolo, ma poi si trova a spendere ingenti risorse per… riparare i danni (conosco una persona affetta dalla patologia del gioco e so quanto è lungo il percorso per la riabilitazione).