In tanti abbiamo sentito la cronaca radio della morte di Jack Kerouac, ma dopo 50 anni ci interroghiamo ancora sul suo auto annientamento: perché dopo essersi liberato dell’oppressione familiare, senza peraltro alterare i buoni rapporti, aver cambiato nome in Jack, forse in onore del suo apripista, Jack London, e aver già raggiunto il successo letterario, e nonostante i suoi mille legami, la fortuna di esser nato bello, aver addirittura trovato una via spirituale, abbia continuato a rotolare verso la fine. Proviamoci insieme, in questa ricorrenza del suo addio, grattando fra le schegge di quanto ci ha lasciato (i virgolettati).
Eri solo uno dei tanti, dicono, di quella generazione di “pazzi di voglia di vivere, di parole, di salvezza…”
Attratto come una falena da quella che pur chiamasti: “…l’aspra follia e ribellione della nostra esistenza reale, della nostra notte, l’inferno, l’insensata strada” pronto a seguirla perché “oltre le strade sfavillanti c’era il buio, e oltre il buio il West. Dovevo andare”.
Eppure non era il punto d’arrivo ad attrarti, tu stesso hai affermato: “Basta seguire la strada e prima o poi si fa il giro del mondo. Non può finire in nessun altro posto, no?”
E tuttavia: “…non c’era posto dove non ci si annoiasse e non c’era posto dove andare se non dappertutto…”. Lungo le “strade della vita” hai continuato ad arrancare, pur con la consapevolezza che la strada finisce.
Davvero non sapevi cosa facevi rimbalzando da una sponda all’altra del continente e oltre? Ma forse un’idea ce l’avevi, ce ne hai lasciato una traccia quando hai affermato: “Tutte le cose sono collegate tra di loro come pioggia che unisce il mondo intero a catena”.
Era questo che cercavi, legami, il nesso stesso più vitale delle cose e degli esseri singoli, e l’hai detto chiaro, quasi in un gesto plateale: “…la cosa che ci legava tutti quanti insieme… indicai le lunghe file di pali del telefono che si snodavano a perdita d’occhio”.
Legami fra anime e pensieri, di questo avevi la sete che spegnevi fra birra, vino, whisky, tequila…, di connessione.
E così per tutta la vita sei stato soggiogato dalla “riga bianca della strada sacra”. Anche i tuoi momenti di elevazione spirituale, le tue illuminazioni, non hanno fatto che rafforzare il tuo vuoto e accender la sete, perché “l’essenza del buddismo è semplicemente conoscere più gente diversa possibile”. Gente, e ancora crisi di astinenza di contatti.
Sarebbe bello che tu potessi tornare e vedere com’è che facciamo adesso a muoverci senza spostarci, a tesser la rete senza motori rombanti o vagoni sferraglianti, addirittura senza alcol, e marijuana, e benzedrina.
Non avresti mai ascoltato, certo, il consiglio della tua dolce mamma: “Devi avere divertimenti, buon cibo, buoni letti, nient’altro – la tranquillitè qui compte!-“, ma forse, un po’ di quel che hai avuto dalla vita l’avresti capito, forte dei pensieri di tanta gente da poter raggiungere in ogni momento, forse non avresti ceduto alla tua chimica disperazione, i legami l’avrebbero attenuata.
Finito il brindisi, la celebrazione della vita, corroso il calice stesso, ci hai annunciato, animo preveggente: “quello che feci fu morire” e forse hai evitato la tua paura più grossa, ciò di cui ci hai messo a parte con le parole “nessuno sa cosa toccherà a nessun altro se non il desolato stillicidio della vecchiaia che avanza.”
Pericolo scampato, messaggio ricevuto. Arrivederci Jack.
Commenti
Ed ecco che girando l’anello del caleidoscopio col quale si puo guardare alla vita, Adriano fratello, mi/ci dai una visione che non mi è appartenuta!
Jack l’avevo solo ….sentito nominare, io guardavo attraverso Enzo (Jannaci) e Giorgio (Gaber), forse un approccio più ….de nojartri”, ma, senza meno, tanto, tanto vivo di stimoli a “…legami, fra anime e pensieri”, a sollecitare più il “cuore” che la “mente”, più le empatie che le simpatie!
Bello sbirciare attraverso il buco di uno steccato, che ti aveva fatto ingnorare un panorama sconosciuto!
Leggendo sul lettore nuovamente le sue incasinate opere, molte scritte in contemporanea, avevo evidenziato dei passaggi. Poi mi sono accorto del cinquantesimo, e ho ricordato quella giornalista che piangeva in diretta per la sua morte. Una riflessione: non è vero che abbiamo giocato a far Kerouac, America o Italia che sia lui era noi, tornava da maman a leccarsi le ferite, arrotondava con lavoretti, girava senza senso, un po’ più di noi, ma noi. Quel poco di più che l’ha fregato.
Caro Adriano, l’Altra America degli anni Sessanta, curata da Nanda Pivano (l’allieva di Pavese) è stato una lettura importante quand’ero ragazzo. Ricordo un ciclostilato di Riccardo Bertoncelli, un critico musicale che si occupava anche di letteratura e poesia, e dedicò dei fogli ad Allen Ginsberg, un poeta barbuto che allora non conoscevo. Un ribelle, diceva, non un rivoluzionario. Al bar Crema, i frequentatori si dividevano in due gruppi: i politici e quelli sempre a caccia di spinelli, di un passaggio in India. On the road. Poi c’era l’insegnate-poeta-pittore Giovanni, o Giuseppe Morandi, un’altro barbuto che insegnava Applicazioni Tecniche, e mentre noi facevamo il compito in classe di Tecnica, lui si leggeva un Oscar Mondadori. Avevo addocchiato il titolo, era “Juke box all’idrogeno”, l’autore Allen Ginsberg, una raccolta di poesie. Curioso com’ero, andai a cercarlo in biblioteca. Da lì passai a “Sulla strada” di Jack Kerouac, zero punteggiatura, un fiume di parole, d’energia che, capii più avanti, sarebbe andata energia a vanvera, sarebbe andata a sbattere. Le religioni orientali non erano il mio pane, la droga neppure, anche se c’era quella voglia di viaggiare, di vedere il mondo là fuori, dentro gli occhi di tanti, giovani inquieti, come chi scrive. Ma il dover guadagnarmi da vivere già a 17anni, con tanto di bollini, mi rese scettico, e con i piedi piantati, inchiodati a terra. I salotti della Pivano con il marito Ettore Sottsass, i post-hippie che giravano da noi, con grande ritardo (il funerale degli hippie americani che avevano chiuso con il loro movimento era già stato fatto da anni, era roba vecchia e decrepita); l’abuso di alcool di Kerouac e l’aggrapparsi alla mistica indiana, le esperienze lisergiche di Ferlinghetti non mi appartenevano. Così, smisi di leggere quei “ribelli” la cui letteratura, in fondo non era granchè, e tornai al maestro di Nanda Pivano, Cesare Pavese, e ricominciai daccapo.
Sarebbe andata a sbattere, intendevo, “sarebbe andata energia a vanvera”, è un pasticcio che non c’entra che ritenevo di aver rimosso. Mi scuso
Vedi amico, la contraddizione è che lavoravo come volontario già in ospedale, arrotondava coi lavoretti, mi presentavo in ospedale conciato in un modo improponibile, ma ci stavo dentro nei due mondi. Potenz dell’amore che mi ha fatto cadere dal lato giusto! Ma permettimi un po’ di nostalgia, e di rimpianto:ma possibile che a parte la mamma questo pover’uomo non avesse nessuno? Tutti ma nessuno, ecco la raccomandazione della sua mamma che precedeva la frase che ho citato: “ma. Chi è tutta questa gente che ti circonda? Che vogliono da te?” più o meno, scrivo dal Cell. Da Milano. La piccola nostalgia però mi resta, peril mio periodo, per la sua vita con ogni evidenza sbagliata.
Vedi amico, la contraddizione lavoravo come volontario già in ospedale, arrotondava coi lavoretti, mi presentavo in ospedale conciato in un modo improponibile, ma ci stavo dentro nei due mondi. Potenz dell’amore che mi ha fatto cadere dal lato giusto! Ma permettimi un po’ di nostalgia, e di rimpianto:ma possibile che a parte la mamma questo pover’uomo non avesse nessuno? Tutti ma nessuno, ecco la raccomandazione della sua mamma che precedeva la frase che ho citato: “ma. Chi è tutta questa gente che ti circonda? Che vogliono da te?” più o meno, scrivo dal Cell. Da Milano. La piccola nostalgia però mi resta, peril mio periodo, per la sua vita con ogni evidenza sbagliata.
Caro Adriano, chi come noi è nato nei primi Cinquanta è passato anche attraverso i rituali miti letterari dei quattro Kerouac-Ginsberg-Corso-Ferlinghetti. Si sa, ci toccava. In realtà, non è che tutti quelli che oggi fanno amarcord, in questa ricorrenza di puberali sogni on the road, abbiano davvero letto così tanto della beat generation. Secondo me, in molti mollavano dopo poche pagine. In effetti, dopo certi juke-box all’idrogeno ti ci vuole l’ossigeno. E poi, tiravano anche altri quartetti. A parte i Cetra, ad esempio gli altri soliti quattro Prévert-Neruda-Tagore-Mao (sì, oltre ai “pensieri” il signor Tung, oggi Dong, ci rifilava pure le poesiole). Beh, siamo sopravvissuti a tutti, per fortuna, caro Presidente, soprattutto alla Pivano, ed eccoci qua. Francamente, Adriano, saranno stati anche bravi, intendo gli americani ovviamente, ma a distanza di decenni a me fanno venire una certa noia, nel senso che probabilmente li abbiamo un po’ troppo sopravvalutati. Succede. Non so se oggi lo sbadiglio o la palpebra calante ce li mettono loro o le mie sessantasei primavere (eccezion fatta per certe poesie di Corso, meno smandrappato e astruso). Oppure, forse, sono condizionato, più che dai loro testi originali, dal profluvio di imitatori che, in prosa e in poesia, anche qui in Italia (persino in questa oscura provincia della bassa) li scimmiottavano. A partire dai “reading”. Ti ricordi, Adriano, quei penosissimi “reading”, in genere sparnazzati da ragazzetti col foularino e mocciosette al patchouli? Tremendi. Ah, a proposito, per Marino Pasini: su Bertoncelli ho la stessa opinione di Guccini nell’Avvelenata.
Finalmete di fronte al mio monitor, e non alla tastierina del cell. con i nipotini che imperversano, riconsidero la cosa: sì, la nostalgia è d’obbligo come per tutte le ruggenti note della gioventù, ma forse c’era ben poco da ruggire. Il momento sociale, magico per la sua colonna sonora, nota unica col costume, era proprio poverino di valori: carta vetro e acido muriatico, e stop. E poi di scapestrati giovani scalcianti, correttamente in senso biologico, è stata piena ogni fase di svolta. E così anche io ho risolto la mia duplicità cadendo dal lato giusto, e devo ringraziare chi inaspettatamente è entrata nella mia vita con il suo concreto programma, e tutti quegli adulti che chi sa come riuscivano comunque a vedere in me una carta da giocare per il futuro della società!
E riavendomi dalla lotta per soddisfare il mio progetto dii vita, quasi non mi sono accorto che le acque erano tornate calme. Penso che dobbiamo ricordare, perché ora quegli adulti con l’obbliigo di essere tolleranti verso le nuove leve siamo noi. E se per la maggioranza di noi, non tutti, c’è stato un sospiro di sollievo di scampato pericolo, non possiamo che sperare che un po’ di quella forza primordiale malgestita si risvegli ancora, e non avremmo che da esserne orgogliosi.
La generazione beat americana, e la sua letteratura, ha ragione Pietro Martini, è stata sopravvalutata. Buono era l’inizio di “Juke box all’idrogeno”, una poesia che ha le prime strofe fulminanti, e la poesia “Bomba” di Gregory Corso che, come gran parte della letteratura beat ha momenti felici, ma annega nell’eccesso, e finisci per sperare che la poesia finisca presto, che è ora di cena. E’ una letteratura, quella di Kerouac che non conosce freni, è ubriaca, e come gli ubriachi dice verità che i sobri non dicono, ma che alla lunga, sei stanco di ascoltarle,le sue verità, perchè è letteratura insopportabile, strabordante, che va a sbattere nella noia. Fernanda Pivano ebbe il merito di far conoscere Edgar Lee Masters, in Italia, e con l’aiuto di Cesare Pavese, suo maestro, tradusse parte dell’Antologia di Spoon River e fu un grande successo anche da noi. Insomma, la Nanda seguì Pavese, che ai suoi tempi aveva fatto altrettanto facendo conoscere in Italia autori americani a noi sconosciuti. Oggi, a distanza di anni, gli esperti in traduzioni (leggo l’inglese, ma non sono certo un esperto), bocciano le traduzioni della Pivano. Anche gli scritti della Pivano, ho smesso di leggerli da molto tempo. I romanzi di Jack Kerouac, intendo “On the road” perchè gli altri suoi scritti non se li filava nessuno, tra le persone che frequentavo, dubito anch’io che l’abbiano letto sul serio, il romanzo che si pubblica ancora “Sulla strada” con le parole che corrono senza pause, senza punteggiatura, ma che non si legge, non sino in fondo. Erano anni che si sbandava, era facile perdersi, e la generazione beat americana questo lo ha rappresentato, un’inquetudine senza capo nè coda, un desiderio di non pensare al prima e al dopo, era solo il vivere alla giornata. E l’unico appiglio poteva essere l’Oriente, non l’Occidente, dove potersi perdere del tutto, e magari, loro un pò ci credevano, ritrovarsi. Il salvagente sembrò essere il buddismo, ma anche quello fu solo un breve innamoramento. Oggi, che non abbiamo granchè di nuovo da segnalare, in letteratura, è tutto un ripercorrere all’indietro il tempo che fu, e anche le poesie di Ferlinghetti, Ginsberg, Corso, i romanzi di Jack Kerouac, fanno nostalgia di chi fu giovane negli anni sessanta; in un certo senso è la stessa cosa, del mediocre, se non pessimo “Gruppo ’63” italiano che ha espresso tanta carta, perlopiù illeggibile.
Che siano stati comunque anni formidabili, Adriano, ce lo dice ormai la Storia. Che poi qualcuno oggi li consideri formidabili in peggio, massima libertà e rispetto per tutti.
Che i precursori “beat”, prima che il business li prendesse per mano e per tasca, abbiano creato tra i Cinquanta e i Sessanta una frattura culturale importantissima e per molti versi liberatoria, non ci piove. Gli adulti allora hanno imparato, ancora una volta, che puoi scherzare con tutto ma non coi sogni dei ragazzi. Quando però, di sogni, i ragazzi ne hanno. Oppure quando i sogni non se li fanno comprare dagli adulti (che è un’altra lezione imparata dai Settanta in poi).
Soltanto, mi permettevo di ricordare, di tutto ciò, anche certe ricadute nostrane, come sempre in ritardo di anni, come sempre molto affaristiche e come sempre diventate “cover” letteraria, musicale e ideologica da strapaese.
Certo, qualcuno le cose le ha vissute con impegno. Più di un cremasco è andato a vagabondare sulle strade storiche dell’on the road, per sentirsi un po’ Sal Paradise o Dean Moriarty, o nella libreria City Lights di Ferlinghetti (vivo e centenario da marzo), per ricordare un pezzetto di Frisco Renaissance. Tutto giusto, va bene così, ogni generazione ha i suoi Landmark. Vista la realtà italiana del tempo, sempre meglio Scott Mc Kenzie di Wilma Goich col suo “amore ritorna, le colline sono in fiore” o di Orietta Berti col suo “io ti darò di più” (inquietante). Perché mentre nel ’67 arrivava anche a Crema il suo famoso Let’s Go, mentre il sommo Otis ci ironizzava ormai sopra, seduto sul suo Dock, da noi a Sanremo vinceva Claudio Villa cantando “non pensare a me”, cosa che allora in terza media facemmo subito, scoprendo i Cream.
Sulla “forza primordiale”, Adriano, d’accordissimo con te.
In ogni caso, addio Jack.
Poi chiudiamo, salvo contributi significativi: le nostre libertà, la rottura più che col Villismo con la musica da asilo del “Pippo, Pippo non lo sa” fino alla “casetta in Canadà” forse giustificano questi sacrifici di persone. Se solo potessimo sapere che colonna sonora ci attende, con tutto quello che sta succedendo! Oggi ho swentito, incoragggiante, un Piero Pelù che canta per Greta Thunberg. Almeno si canta di qualcosa! Anche questa è un’epoca di rottura, dal nuovo sesso al nuovo lavoro, alla catastrofe più inedita di mai, e se la musica non se ne accorge vuol dire che siamo sordi? Ma sono le recriminazioni di un vecchio suppongo.
On the road – che mi ricordi – aveva sdoganato il turpiloquio, il sesso (ricordiamo che risale agli anni ’50).
Se allarghiamo il discorso alla beat generation, possiamo dire che è stata questa che ha rappresentato la vera e propria rottura nei confronti dei benpensanti di allora, del consumismo che si stava affermando, dell’ipocrisia tipicamente borghese nei confronti della quale la rottura della love generation (anche se devota della beat generation) è stata solo di facciata.
E’ un fatto tuttavia che è stata la hippie generation che ha contagiato milioni e milioni di giovani (che comprendevano ben poco dei testi dei beat).
Caro Piero, mi diverte il tuo “love generation”. Lo so che sei una persona seria (ce ne fossero così, come te), ma la tua dimestichezza con spinelli, Jefferson Airplane, The Cream, l’acido lisergico, pure Riccardo Bertoncelli e la critica musicale, mi sa tanto che non è mai stata roba che tenevi in tasca, del tuo mondo quotidiano. In Italia c’era il settimanale “Ciao 2001”: ci scrivevano Dario Salvatori (da Londra), Gino Castaldo (poi passato a Repubblica), e non saprei dire se il mondo beat è stato il tuo pane. Il pomeriggio correvo all’edicola per acquistare il settimanale “Ciao 2001”, e risparmiavo i pochi soldi della paghetta per quello. C’era la rubrica “Psicologia & Psicanalisi”, con lettere di ragazzi e ragazze che parlavano di sesso, che per un adolescente è una faccenda tribulata. Mai che ci fosse, nella rubrica citata una spiegazione, una tecnica, un grafico di come si doveva baciare con la lingua. In orizzontale, verticale, o a cerchio? Le lingue si appoggiano o si succhiano? Bel problema, caro Piero; ma la rivista non spiegava, e mi restava poco in tasca della paghetta. Mi accontentavo di sapere che il rock era roba seria in Inghilterra, a Manchester, Liverpool, mentre da noi giravano i Dik-Dik, e altri scopiazzi. In fondo, in fondo, ma proprio in fondo la “beat generation” era il desiderio di buon rock che da noi non passava, e allora, amici miei, se ne andavano per un pò, con fuori il pollice, e con l’autostop partivano per Londra. Per il rock. Così pensai; ma poi, gli amici tornavano strani, gli occhi lucidi, troppo lucidi, e raccontavano storie confuse.
“fanno nostalgia di chi fu giovane negli anni sessanta”. Certo, e non ho riletto solo On the road recentemente, e siccome se non succede niente se non ciò che è già successo prima sono noiosi. Non a caso Angeli di desolazione è sato scritto metà prima e metà dopo On the road e nessuno se ne accorge: cinque anni prima o cinque anni dopo la musica è la stessa. Quando, seguendo semplicemente le evidenziazioni del mio lettore, ho buttato giù queste note volevo appunto essere solo nostalgico, entrare e invitarvi a entrare nella colonna sonora di quel mondo, non far della critica letteraria.
Tuttavia avete rafforzato la mia convinzione: quella monotona azione di pialla che va avanti e indietro per distruggere tutto un mondo è stato il dono di quei fratelli maggiori che mi hanno permesso di costruire la mia vita su nuove basi di libertà di scelte (e lo posso sostenere in base alle scelte fondamentali come agli episodi marginali). E allora grazie fratelloni per il vostro lavoro sporco!
Per Adriano, se interessa c’è uno scritto dedicato a Jack Kerouac che puoi trovare online, dedicato alla memoria dell’autore di “On the road”. Il sito è New York Review of Books. L’autore dell’articolo è Joyce Johnson e fu uno dei boyfriend di Jack. Tra l’altro, sempre sul NYR of Books c’è una bella storia dedicata agli iraniani che hanno stappato lo champagne grazie al tradimento americano ai curdi. Buona lettura.
Molto più di quella letteratura, quella che non muore è quella musica. Se la Rivoluzione fallì, non fallì la sua colonna sonora.
Incredibile, strepitosa la botta musicale della dozzina d’anni tra il 1960 e il 1971, soprattutto nel quinquennio 1967/1971. Una botta tutta angloamericana. Inarrivabile. Una foresta di genialità musicali. Fuori, il deserto. E dopo, ammettiamolo sinceramente, un quasi deserto. Oggi, da noi, Sfera Ebbasta. E il grande ritorno di Peppino di Capri.
Ovviamente, classe ’53, ammetto di essere un consapevole laudator temporis acti. Ma che tempora, per noi pischelli tormentatori di Gallini (penso che in certi momenti odiasse Billboard) e ascoltatori di Radio Luxembourg! Certo, eravamo anche nel lustro indiscutibilmente migliore della vita, almeno in quei tempi di svezzamento rapido, tra i 14 e i 18 anni.
E qui, caro Adriano, la Nostalgia ci va, ci vuole e si impone tutta. Per quei bianchi e quei neri, bravissimi a prescindere dal colore, ciascuno nel suo modo di fare musica, che fossero voice, guitar, bass, drums, sax alto, keyboard.
Sono convinto che allora la droga, se non li ammazzava, a certi satanassi facesse benissimo. Mick ha l’età di Mario Monti (però mi sa che, se adesso Monti si facesse una canna, sarebbe tardi).
Purtroppo, anche gli ultimi di quei grandi hanno cominciato ad andarsene, maledizione al tempo, come Aretha l’anno scorso. Il mese prossimo, un ottantesimo compleanno importante: tieni duro, Tina!
“Se la Rivoluzione fallì”, ma non fallì, l’ho affermato, senza di loro la mia vita sarebbe stata sottoposta a condizionamenti a cui… avrei ceduto? Fatto sta che sono stati degli apripista sociali nel loro asfalto al vetriolo. Ripeto, io ero in due mondi, ma ti pare normale che un grosso nome della scienza si veda arrivare un pivello aspirante qualcosa in jeans stinti e non gli dica niente, anzi, lo consideri una speranza, come ho constatato vedendolo piangere venti anni dopo mentre scendevo dal podio? La musica: la sorpresa è stata apprendere che tutti quelli “morbidi”, tipo Beatles e compagni, erano lì, dai neri, a imparare, quando nessuno li conosceva. Insomma come epopea merita tale nome; la letteratura: lo stile “prosa spontanea” era un po’ lento mentre si proponeva la velocità, ma rientra in un culto ben speso.