Giovanni si alzò e si sedette sul letto, come di scatto, ancora frastornato dall’essersi strappato dal sonno. Ciabattò fino al gabinetto; aprì il rubinetto del lavandino e non potè non guardarsi allo specchio. Aveva raggiunto quell’età, dove gli specchi, soprattutto di buon mattino, non dicono mai buongiorno. Per sfida, per stizza, quella mattina, il buongiorno Giovanni se lo dette da solo, ad alta voce. L’acqua gelida scacciò via le ombre lunghe, i sogni, pure il ricordo fastidioso che da qualche anno, ora che Giovanni russava, di brutto, veri e propri concerti di tromba e trombone infastidivano sua moglie, che non li sopportava più, tanto da dover dormire con i tappi alle orecchie.
Giovanni andò nello studio, ancora in canottiera e mutande; un’abitudine, una mania, tanto tutto era al suo posto: la casalinga faceva il dovere previsto due volte la settimana, che c’era da guardare, quindi, nello studio? Lui si ricordò all’improvviso perchè quella mattina era lì, nello studio, senza neanche indossare una camicia pulita, senza pantaloni. Aveva fretta di aprire il suo cassetto personale, dove non sopportava che qualcuno, incluso sua moglie, ci ficcasse un occhio. Frugò tra un pacco di fogli disordinati, documenti, e tirò fuori una vecchia cartolina. Un tramonto, un faro, la scritta stampigliata in corsivo Capo Testa, Gallura, Sardegna. Era solo una cartolina, vecchia; chi oggi spedisce, francobolla cartoline? Un tramonto in bianco e nero, rocce smangiate dal vento come argilla nelle mani di scalpellini sconosciuti a cui nessuno importa il nome, a cui nessuno organizzerà mostre, vernissage, offrirà bicchierini di vermouth, crostini di salame, burro e acciughe, sciorinando opinioni sullo stato dell’Arte, perchè ne sa, di Piero Manzoni, di Raffaello, certo vuol mostrare che ne sa.
Un faro sullo sfondo; Giovanni, anche in bianco e nero la ricorda la luce del tramonto che si abbassa, si arancia sporcando le nubi che s’aggrumano, immobili, pigre, in attesa dell’ultimo spettacolo, prima dello sputo nero, il sipario che cala, la notte che comincia, le stelle che si posizionano, perchè noi giriamo. Siamo una palla girevole, anche se al tramonto, certe volte, par di precipitare, di affondare anche noi insieme al sole.
Il francobollo è un nuraghe, forse Barumini, la data del timbro postale è del giugno 1967. Giovanni, la cartolina potrebbe darla a un rigattiere, farla a pezzi, tanto quello che c’era, che diceva e non diceva la cartolina erano faccende di giorni lontani, che ormai avevano la stessa consistenza del fumo delle troppe sigarette che Giovanni aveva smesso di fumare, da più di vent’anni. Capo Testa, la spiaggia della Riparata, lui e Cristina, oltre trent’anni fa. A pensarci, un souvenir che conta come il due di bastoni quando la briscola è spade. Ma ognuno di noi ha uno straccetto di segreti, da qualche parte, che non racconta, non dice mai. Anche i criminali li hanno, dei bei segreti, e non è detto che ci soffrano più di Giovanni. Un tramonto d’inizio estate sul mare di Capo Testa. Sprazzi di nubi che si colorano di giallo, rosseggiano, sfumano in violetto. Ciglia di nubecole scure fra la palla rossa del sole che lentamente scende a mare.
Giovanni e Cristina, nel’65 affittarono una casetta di campagna sulla strada che da Santa Teresa sale al Capo. Tra isolotti e arenili sabbiosi, il rigoglio della ferula e la silena rosulata. Un tardo pomeriggio inforcarono le biciclette e parte a piedi, parte faticando sui pedali, si diressero al faro. Il vento infuriava, si cacciava nella Valle della Luna, dove stazionavano alcune baracche, fili di biancheria, cani randagi. Vento di terra, rabbioso, che arrivava da tutte le parti. Un signore del posto consigliò a Giovanni La Riparata, una spiaggetta dove il vento perdeva forza, c’era una capanna, qualche tavolino all’esterno, si poteva mangiare qualcosa, pecorino, prosciutto tagliato spesso, bere vino rosso scuro, corposo.
Giovanni passò le dita sulla scrittura minuta, decisa di Cristina che le inviava, due anni dopo il loro incontro, saluti e baci da Capo Testa. Voleva dire che lei, in vacanza, era tornata da quelle parti, tornata a Capo Testa. Con chi? Cristina parlava italiano piuttosto bene, ma era tedesca, di Brema. E Giovanni che l’aveva conosciuta a Milano, all’università, sapeva poco di lei. Sapeva solo quello che lei gli aveva raccontato, che non è detto che fosse proprio tutta la realtà. La ragazza però piaceva al padre di Giovanni, un notaio piuttosto affermato, che pagò per la vacanza in Sardegna: perchè Giovanni e Cristina avevano fatto gli esami nella sessione invernale come si deve, e ora era giusto che staccassero la spina. Se non ci si diverte da giovani, disse il padre di Giovanni, quando lo si fa?
Mentre Giovanni e Cristina avevano raggiunto il sentiero che portava al faro, ragazzi a piedi nudi posarono una pesante brocca d’acqua per terra, e legarono l’asino a un grosso masso che pareva disegnasse un animale, un becco d’aquila. Cristina, è una ragazza galante, diceva il padre notaio di Giovanni; lei ha quel sorriso aperto, pulito, come aurora di primo maggio. E’ come quando t’innamori, la speranza sfacciata della primavera che avanza, che sarà estate, non puoi pensare ad altro, se non a una bella estate che verrà.
Mangiarono in ginocchio sui tavolini, ridendo come pazzi, i capelli spazzati dal vento, lei che insisteva a far ballare le olive in bocca, poi sulle labbra, le mani unte d’olio, i denti bianchi, la bocca piccola, quasi solo una fessura. Ma chi erano gli artisti che disegnarono le rocce magnifiche di Capo Testa? Messaggeri celesti del vento? La Storia dice ben altro. La penisola di Capo Testa era trafficata in età romana per i blocchi di granito che veniva cavato appositamente per abbellire le ville patrizie della Capitale. Tra il primo secolo avanti Cristo e il primo dopo Cristo. Gli scalpellini romani lavoravano con mani esperte fregandosene del vento impetuoso che è il vero padrone di Capo Testa, tagliando e profilando con abilità e padronanza, non di meno delle sartine del corso della terza età del punto suisse. La roccia veniva tagliata dall’alto verso il basso con simmetria ortagonale, con punteruolo, mazzetta e cuneo, staccando blocchi enormi che i trasportatori caricavano sulle navi destinazione il porto di Ostia. Monoliti giganteschi rubati alla roccia madre, che servirono, anche nel 1162, per la costruzione del Duomo e del Battistero di Pisa. Cave in località Cala di l’Ea (versante occidentale del Capo); Cala Spinosa (poco distante dal vecchio faro); Li Petri Taddati e Capicciolu (nei pressi della Rena di Levante). Nel 1832 l’abate Vittorio Angius fu incaricato di compilare un Dizionario geografico, storico, statistico, commerciale degli Stati di S.M. il Re di Sardegna, e viaggiò per nove anni in tutta l’isola, raccogliendo informazioni, leggendo testi antichi, facendo misurazioni, annotando ogni dettaglio utile. “Quando spira il vento dalla Corsica, di notte i pastori debbono ricoverarsi, e starsene al fuoco perchè altrimenti arrischierebbero di restare assiderati”.
Ti piace qui, disse Cristina, mentre osservava, il tramonto sciogliersi sul mare.
Molto, rispose Giovanni. E dovunque puntava lo sguardo c’era mare; poteva volteggiare e c’era mare, e colline e rocce e bassa vegetazione.
Perchè il ricordare, a volte, è come darsi una frustata, pensò Giovanni, riponendo la cartolina nel cassetto? Se la memoria inganna, o la manovri per restare a galla, una cartolina in bianco e nero, delle rocce sbilenche, un faro sullo sfondo può smuovere ancora lo stomaco, se quel cibo, le ore son consumate, marcite, pesano di meno dell’aria che respiri? C’era il vento di maestrale, Giove che brillava come un diamante, l’onda di risacca che formava canaloni sul fondale di sabbia, spezzando la superficie liscia del mare, risucchiando, e nel ritorno di pressione, d’accumulo d’acqua, ricaricava forza schiumando contro la roccia. Questo c’era. Giovanni, mentre si annodava la cravatta provò a ricordare quel mare, il vento, le onde che s’infrangono, il cielo che si prepara all’ultima luce, più intensa, prima del buio.
Note:
Era una ragazza galante / come aurora di primo maggio.
Frammento di una poesia di Paul Eluard.
Commenti
Non escludo che possano essere parecchi quelli che conservano, in qualche anfratto, certe vecchie cartoline, vecchie lettere o vecchie foto.
Le mogli migliori sono quelle che, affettuosamente, fanno finta di non saperlo.
Io ho buttato tutto, ma, potenza di Internet, gli amici di gioventù si premurano di rispedirmi le testimonianze di quanto fu.
Forse è proprio come dice lei.
Stai rivelando sempre più, Marino, le tue doti di scrittore: non posso che rinnovarti i mei complimenti.
Vedo che tu eviti le speculazioni, ma miri direttamente alle persone, alla loro umanità, all’umanità del vivere quotidiano.
Racconti, i tuoi, che non trasmettono solo il piacere di narrare, ma anche messaggi positivi (che fanno riflettere).
Senza “speculazioni” non c’è alcun “vivere quotidiano” ma solo un sopravvivere.
Piero ti ringrazio molto, ma ho troppo rispetto per la buona letteratura per credermi uno scrittore. Ci vuol altro. Come ho già detto, mancano qualità che ritengo di non possedere. Ma sono contento che il breve racconto è piaciuto; in filigrana leggo del pudore che è figlio di certi principi che non abbondano nel mondo intellettuale, qualità che tu hai, come non abbonda, per esempio, l’umiltà, poco frequentato da chi ha studiato e si dedica alla saggistica storico-politica, alla critica letteraria.
L’umiltà è femminile, quindi, poco frequentata. Ho scritto di fretta, sbagliando. Mi scuso.
….Quando l’eleganza lascia il segno …
Elenganza di una ragazza, di una donna, se la memoria nel racconto non è falsaria; eleganza di una poesia di Eluard, di un sole che va giù e precede il buio. Poi, comunque, arriverà l’aurora, l’alba nuova, perchè ogni giorno arriva, come diceva Rocco Scotellaro, un poeta contadino.
Bello, bello, bello. e mi permetto di insistere, quando avremo un’opera più articolata di questi stupendi sipari?
Gentile Adriano, non so quando arriverà e se avrò cose da dire, per farne una storia compiuta. Ma la ringrazio di non averla annoiata, nella lettura. Il guaio più grave, credo.
“…E in questo silenzio uno assapora i suoi sogni ad occhi aperti…” ( Rocco Scotellaro )
Leggere Rocco Scotellaro contadino e poeta lucano vuol dire amare la poesia civile, senza fronzoli del poetare stracco di chi non sa cos’è la vita dura, povera, per sopravvivere con dignità
Bello, intenso, profondo e magmatico…come te. Complimenti.
Grazie Paola