Gino non sapeva spiegarsi il perchè; non è che l’amore è per sempre, e la passione, che si consuma stinge, peggio che se la metti in lavatrice; e se lo ripeteva anche sottovoce, quando nessuno lo vedeva, come se il pensarci gli fosse diventato un cruccio, un vizio. Provò a scrollarsi di dosso quel ragionare, quell’ossessione mentale, l’armamentario della passione che si era inceppato, il senso si era perso; eppure quei pensieri gli tornavano su come l’acidità di stomaco, come da bambino, sua madre che gli metteva nel piatto col mestolo i tortelli belli gonfi, carichi, che navigavano nel burro fuso. Quando Gino seppe di averla perduta, la ragazza ebrea, non ci fu una telefonata, niente, nemmeno una parola. Lei partì per Firenze, a studiare, e buonanotte. Ma Gino, ostinato, continuava a ricamarci sopra, a punzecchiare la ferita. Ester Sinigaglia non era propriamente bella, ma Gino, per tutti Ginetto, stravedeva per lei. Forse le sue origini così diverse da lei, avevano calcato la corda della passione; capelli cortissimi, da maschio, un collo lungo nonostante fosse piuttosto bassa di statura, naso sottile, il contrario del suo che gli pare un paracarro, un disturbo in faccia, e le caviglie sottili come certi bicchieri di cristallo per il vermouth, e gli occhi che non sapeva decifrarne il colore: grigio, verde scuro, il ricordo non aiutava, anche se ci si tuffava dentro. Che ci fosse una studentessa ebrea con genitori spaiati, il padre di Mantova, la madre di Odessa, che però aveva vissuto in Inghilterra a Liverpool, tutti, alle medie Vailati lo sapevano. Un caso più unico che raro nella nostra città, diceva la bidella Anna Soffientini che spettegolava anche coi muri. Ester era nella classe di Ginetto, la seconda B, e appena arrivata, appena annunciata, non fece in tempo ad abbozzare un sorriso, a scambiare due parole, che Oreste, uno svelto e spiccio, che si attaccava alle ragazze come una sanguisuga, le stava già intorno. Quando la storia tra Ester e Ginetto finì, Gino si chiuse nel cesso per una mezz’ora, in mano il mangianastri, il 45 giri “Sapore di sale” che andava, andava. E sua madre a dirgli, dal balcone: che ci fai al gabinetto con la musica?
Da ragazzetto, il disco “Sapore di sale” passava sempre all’intervallo delle partite di calcio allo stadio Voltini. Ogni domenica, che giocasse il Crema o la Pergolettese. Lo si sentiva anche in viale De Gasperi, mentre Ginetto sgranocchiava le spagnolette nel foglio di giornale fatto a cono, suo padre, Benito, che andava avanti e indietro nella Curva Sud, e invece di guardare la partita, come altri, stava con l’orecchio appiccicato alla radiolina. Tutto il calcio minuto per minuto. Scusa Ameri, scusa Ameri, sono Bortoluzzi. La voce cavernicola di Sandro Ciotti, che pareva provenire dall’oltretomba, che annunciava la rete di Lodetti, nel derby Milano-Inter. Si sentì un boato allo stadio cremasco: gooooal! I giocatori della Pergolettese che si girarono verso gli spalti, le tribune, e Facchinetti, l’ala che dribblava anche se stesso, imprecò, sputando per terra; Facchinetti non capiva cosa c’era da esultare: il lancio di Imberti, il centromediano gialloblu, era finito in tribuna, non in rete. Poi, per fortuna, arrivava l’intervallo, le arachidi e Gino Paoli. Sapore di sale, sapore di mare, il gusto un pò amaro delle cose perdute, delle cose lasciate che a Ginetto gli mettevano l’ansia nelle domeniche allo stadio, più dell’umidità vigliacca che sfiatava in nebbiolina sospesa, grigiastra di fine autunno, nelle lunghe domeniche fiacche. Il pubblico scarso, le voci concitate della radiolina, il sapore di sale, di mare che veniva da lontano, così incongruo per noi mangianebbia, mangiagranoturco, gente di pianura usi a non veder bene i contorni del paesaggio, certi nebbioni sconoscenti, che facevan sentir ancor più sperduti.
Ginetto, allora abitava nella via delle tre chiese, Suor Maria Crocefissa di Rosa, una via popolana di Santa Trinita, i panni stesi, Pùlver che raccoglieva la carta e i ferrivecchi, l’odore di arance del fruttivendolo, i canti delle suore, le canzoni di Massimo Ranieri cantate a squarciagola da una casalinga che puliva in casa, la finestra aperta. Ginetto abitava nella casa della Provana, il gabinetto nel cortile, un cesso con la cordicella, la carta da giornale appesa per dare una ripassata ruvida, usufrutto comunitario per più famiglie, cesso e giornale. E Gino, il professor Gino Bianchessi, oggi sorride ripensando a quella volta che Massimo, il suo compagno di banco, che spariva in Costa Azzurra a fine giugno e ricompariva a Crema, a settembre, volle vedere la casa di Ginetto; gli disse: Ginetto, mi scappa, mi serve il bagno. Ginetto, vergognoso, rispose: il bagno non ce l’ho, ma il cesso c’è, se ti serve proprio, se non puoi farne a meno; è nel cortile, la carta è appesa. Poi, l’ulteriore smacco, l’altra vergogna quando la mamma di Ginetto volle conoscere l’amico del figlio, così per bene, fine, educato, e li costrinse a salire entrambi. Fu apparecchiata la tavola nel salotto camera da letto, dove le due poltrone si trasformavano, la sera, in letti per Ginetto e suo fratello. Con la marmellata e il pane, la madre di Ginetto tirò fuori dalla credenza i bicchierini in finto stile napoleonico, l’amaretto di Saronno, le ciliege sotto spirito che dovevano essere lì dai tempi più lontani della collezione di Historia, che il babbo Benito sfogliava di tanto in tanto.
Per Ginetto, Vergonzana era distante un infinità di strade. Campagna di città, la chiamava Ester. Lei abitava nel villone con il parco oltre la piazzetta, la chiesa, alla fine della strada. Una casa nascosta dagli alberi, un muraglione lungo e largo che la proteggeva, anche nei segreti. Il grande giardino con alberi secolari, le querce, i bagolari; pure proteggeva i solfeggi, le suonate di Bach col violino della madre di Ester, che aveva insegnato al conservatorio. Ginetto vide quella casa, la prima volta a una festicciola con tutta la classe. Villa Sinigaglia c’era scritto sulla targa, all’ingresso. Ora non c’è più la targa. I proprietari sono altri. La cameriera portò i pasticcini sui tavolini bassi del salone che Ginetto guardava ammirato: quadri, tappeti, il pianoforte; ed Ester d’improvviso prese sottobraccio proprio Ginetto, che non se l’aspettava, proprio lui, il miope cronico, jeans del mercato, e che a scuola inciampava con la grammatica, e si era beccato l’esame di riparazione d’inglese. Ester e Ginetto si smarcarono e finirono in giardino, era un bel giorno, quasi estivo. Ginetto, imbranato come pochi, venne fuori con una uscita scalognata delle sue: è vero che i tuoi nonni, durante la guerra, li hanno portati via con un camion e non sono più tornati? Ester si era girata di scatto, gli aveva messo una mano sulla bocca. Zitto, gli disse. Poi, non si era offesa. Lo baciò, d’improvviso. Ma no, ma no, pensava Gino Bianchessi; è passato troppo tempo, e il ricordare frega. Ti frega. Si accese una Muratti. Gino camminò di buon passo: da Santa Trinita superò porta Garibaldi, il ponte sul fiume, S. Bernardino, e si trovò a ridosso della Serenissima, lo stradone che porta a Venezia, a Oriente. S’infilò nel sottopasso e si diresse a casa Sinigaglia, a Vergonzana.
Ester sapeva tutto delle erbe, delle piante del parco. Spiegò a Ginetto del prugnolo verde, il prunus spinosa, mentre lui le guardava i denti bianchi di lei, la bocca piccola, che voleva mordere. Il cacciadiavoli giallo, lo conosci? E Ginetto fece una faccia adulta, allora (ma cosa poteva saperne delle erbe, che a casa sua, che non era neppure sua, ma della Provana, c’erano solo tre vasetti smunti, salvia, rosmarino e l’altro non sapeva cosa fosse? Il cacciadiavoli giallo è l’erba di San Giovanni, fiori a forma di stella. Non sono belli? disse lei. Sei bella tu, pensava Ginetto, ma non lo disse; se ne guardò bene. Imparò del pungitopo, il fiordaliso a ragnatela, le macchie di rosmarino dove si nascondevano i grilli, e le lucciole, la sera che segnalavano il passaggio, amorini luminosi. Gino Bianchessi schiacciò la sigaretta, ma non volle buttare il mozzicone, e se lo ficcò in tasca. La villa, che era stata di Ester, l’aveva davanti agli occhi, dopo anni e anni. Lui se n’era andato via da Crema. Insegnava da anni a Perugia. Era un uomo ingrigito, la fronte stempiata, occhiali spessi che gli fanno arretrare gli occhi, ancora quell’impaccio, di quand’era ragazzo. Gino sentiva l’odore di mura ammuffite, i laterizi tornati all’arancio originario, slabbrati, perchè la malta è venuta giù, in alcune parti, e i ragni avevano avvitato a spirale filamenti ora solidi, nei buchi tra i mattoni cariati e le gettate di calce. Il muraglione corre per un centinaio di metri e sembra aver smarrito l’ordine iniziale, di un mattone sopra l’altro, e dove comincia il pioppeto, sulle rive di un fosso, il muro è storto, si è piegato, e non si vedono più i cocci in terracotta. Nella faccia della villa, percorsa in diagonale dall’edera, i cocci sono visibili e s’interrompono all’altezza della cancellata di ferro: un arco alto dieci, dodici metri, incorniciato da bugne grigie, dove si è arrampicato il gelsomino che spande il suo profumo penetrante, mischiandosi agli odori delle cose abbandonate, degli anni, sgusciati via. Gino, il professore, si guarda intorno, guarda la campagna piatta che era stata la sua campagna, il fossèrello che fiancheggia il muraglione, le rive morsicate dalle nutrie, il ferro battuto del portone che ha perduto da tempo le mani di micaceo e i cristalli di laminetti lucenti. Qualcuno dovrebbe toglierle, pensa con stizza Gino, strapparle via le sterpaglie, l’erba infestante vicino all’ingresso. Anche a quest’erba, Ester avrebbe saputo darle un nome. E’ come se l’antico sgarbo del disconoscimento, lo sradicarsi, l’oblio, la persecuzione, l’odio assurdo di un passato non così lontano, appartenga a questi muri; perchè una cosa chiama un’altra, e un’altra ancora, le si avvinghia addosso, come l’edera a una casa, a villa Sinigaglia, nel tempo irrisolto, nel tempo che picchia le sue ore fredde, tempo senza tempo. Inesorabile.
A Paola Bassani, alla memoria di suo padre Giorgio, che si arrabbiava con lei per una virgola sbagliata. Alle ragazze ebree, la cui vita è stata interrotta, falciata dall’odio, dall’ignoranza, l’ottusità.
Commenti
Caro Marino, me lo sono proprio gustato questo tuo …. “sabatale”!
Devo dire che ci ho trovato dentro tante cose della mia vita: “santa trinita” (si lo si pronunciava così, senza accento!) dove da ragazzino andavo, in bici, a mangiare dalla Nonna (il cesso non era in cortile, lei stava al secondo piano, ma per pulirsi, c’erano le schedine della sisal!) con la via Alemaniofino (allora il nome era solo quello!) vivissima di voci, chiacchere, richiami ….”strasè dunè, as os fer rot, pel da dunei …..sapone e lucido brill, crema da barba e cartine ….cap pellaio, cap pelli, baschi, be retti da pulire (balbettava un pò!) ….. ombrellaio…..
La primissima “antecotta” (cotta ante litteram, ero poco più che un bambino!) anche lei coi capelli ricci o occhi blù, in coppia sorteggiata per una “caccia al tesoro” (si, erano tempi in cui si facevano questi ….giochi di società!), e Vergonzana, ci passavamo davanti, con Mamma, sempre in bici, per andare dalla Signora Foglia a Izano. Chemmeraviglia!
Eppoi quella full immersion nell’Italia del primo dopoguerra improntata alla voglia di pace e democrazia.
Grazie, caro Marino, grazie davvero!
Grazie. Ma devi ringraziare soprattutto Giorgio Bassani, che è trapassato, ma come le sue storie, i suoi personaggi sono sempre vivi a tirarci per la giacchetta. Io mi limito a scimmiottarlo, male, ma ci provo, per rendergli omaggio. Leggere Bassani, rallegra, scalda chi scrive male, l’esercito (di cui faccio parte) degli scriba da strapazzo.
Toh, io ero convinto che le tue storie fossero vere, ripescate nella memoria e negli archivi. Forse ingannato dai cognomi e dai luoghi, anche se a pensarci bene la villa di Vergonzana non so se ha mai avuto un cognome ebraico. Ma forse le ville sono due, una di quelle aperta al pubblico anni fa per un concerto. Ho capito male?
Caro Ivano, come diceva Corrado Stajano, non son capace d’inventare, e me ne rammarico. Anche se, a volte, come per “La ragazza ebrea”, nascondo la realtà, che entra però da molti spifferi, e fa sbattere le persiane della casetta-racconto imbastita. Ester Sinigaglia, come Micòl Finzi-Contini, non esiste, ma è dentro altri personaggi reali, privati,e vorrei anche collettivi, ombre che vivono con noi, che siamo gente smemorata, abituata, per difendersi, per ipocrisia a resettare le proprie miserie, come i fascistoni di Ferrara, della poesia di Bassani, riciclati in brillantinati signori-bene della città emiliana nel dopoguerra. Quando sono a Ferrara, città che amo, vado sempre in Corso Ercole I d’Este, che giudico una delle più belle strade d’Italia, e anche se nella via oggi c’è una Facoltà universitaria, c’è la Questura, a modificarne l’aspetto; quello che vedo sono i personaggi del romanzo di Bassani, e che sento è il rumore delle palline da tennis, le risa sguaiate delle ragazze al di là del muraglione dei “Finzi-Contini”, che non esiste. Bassani nelle sue storie ferraresi si appoggiò, a volte, a personaggi fittizi, ma che avevano il volto dei tanti che avevano vissuto quella vita, o quella persecuzione che li portò alla deportazione. “Il Giardino dei Finzi Contini” è per gran parte una storia inventata, ma verissima. Ogni stupidaggine che scrivo per “Cremascolta” parte da un dettaglio reale o narrativo. “La campagna sghemba”, la passione di mio padre per Coppi; “Il treno” sono certi personaggi che nei noiosi pomeriggi d’estate in campagna stanno lì in canottiera e braghette a guardare le carrozze ferroviarie che passano, e c’è qualcosa di stralunato, pure misteriosamente minaccioso e folle nella faccenda, e l’idea del “treno” è stata quel grande romanzo di Simenon “L’uomo che guardava passare i treni”. Farinacci, lo percepisco nei muri di Cremona, dove trasuda, nelle piazze sventrate, nella parlata assonnata dei cremonesi, bella città ma che ancora è in un certo senso un luogo nelle mani di qualcuno, oggi di un “benefattore”, come Arvedi. “La storia della marchesa” è cominciata guardando i papaveri sul ciglio della strada, che quando passi in macchina sono presi a sberle dallo spostamento d’aria. Mi è venuto in mente di aver letto di questa marchesa lasciata a morire sul ciglio della strada, con solo i papaveri a saperlo. Bè, mi pare di averla fatta pesante come la fanno gli scrittori veri. Mi sa che è meglio che mi faccio un caffè. Buon pomeriggio
Chiarissimo. Grazie.
Altro che scriba da strapazzo! Nel tuo narrare c’è… il sapore della vita vissuta, un sapore che non risponde a un vezzo letterario, ma sincero, immediato.
E poi non a caso tu scegli storie paradigmatiche che fanno pensare a tempi tristi.
Tempi che possono ancora tornare: tocca a noi avvertire i segnali, ma non sarà facile, perché si può scivolare in una stagione nera un passo dopo passo, senza neppure accorgersene.
TI ringrazio, Piero. Hai capito. E’ uscito fuori una storia, per me, dolorosa. In tutto. Anche nelle “spagnolette”, le arachidi che mio padre mi comperava ogni domenica, durante le partite di calcio. Mentre andava, ogni domenica, pure nelle domeniche gelide d’inverno, il 45 di Gino Paoli “Sapore di sale”. Da riderci su. Era talmente strausato quel disco che gracchiava tutto, ma si vede che un’altro non l’avevano.
Ancora una buona storia con molti ottimi “spifferi di realtà”. Il mio sincero apprezzamento.
Se la villa fa parte degli spifferi e il cognome Sinigaglia pure, potremmo aver avuto qualche spiffero in comune, circa mezzo secolo fa. Se no, resta comunque il mio interesse nell’averla letta. E verso Ferrara.
Una curiosità: l’immagine a che cosa si riferisce? Grazie.
La fotografia l’ho scattata durante il recente 25 aprile, a Milano, fra quelli della Brigata Ebraica tra cui sfilo da qualche anno, ricevendo gli insulti, all’altezza di Piazza San Babila, di palestinesi sostenuti dall’estrema sinistra nostrana
Toda raba
Sapore di sale,sapore di mare…
Tutti al mare…
tutti a mare…
Non Elena Lanzi, ma Graziano Calzi Ha detto…Hops.
Facevi bene a lasciare l’altro nome e cognome, così pareva che ci fosse una nuova entrata nella confraternita, che bisogna dirlo, se la conta e se la racconta a circuito chiuso. Sì, tutti al mare: Giorgio Bassani da ragazzo ci andava con la Topolino del babbo (un vero lusso) da Ferrara a Cesenatico, un lungo viaggio di parecchie ore con le soste dovute per raffreddare il motore. Chi scrive, a parte Finalpia, una volta a 6 anni, il mare l’ho rivisto a 12 anni, e fino ad allora passavo le mie estati nel paesone di Crema giocando a “destra e sinistra” un gioco che mi ero inventato nei lunghi pomeriggi d’estate. Partito da Santa Trinita in bici e la regola era: prima a destra, poi a sinistra, i sensi unici non impedivano, e vincevo se alla fine arrivavo in piazza Duomo, perdevo se finivo a Casaletto di Sopra, o a Scannabue.
….noooooo, questa del “destra sinistra” in bici, in ….solitario, nemmeno Tornatore!!!!
Marino, 6 un ….patrimonio della cremaschità (mi sono limitato, sai, di questi tempi meglio, volare basso, dai!)
Della cremaschita’ ho solo il passato, non il presente. L’unica cosa importante di quella cosa lì, è la non lontananza da Milano, solo 33 chilometri, da Crema Nuova a Rogoredo. Niente per un britannico, un australiano, un americano, non un cremasco, troppo polentone, troppo pigro per giudicarla poca cosa. Teatri, cinema, biblioteche, sale da concerto, una metropoli internazionale (l’unica in Italia), locali, tante belle ragazze, e le Olimpiadi invernali tra qualche anno, con la Valtellina (nemmeno citata sullo scartafaccio) che avrà moltre gare, per dire quanto conta, la provincia. Della cremaschità c’è il premiliono di “Prima pagina” che se lo riceverò, per Ginetto lo butto nella spazzatura