Dalla finestra della casa di montagna di Bergun, nei Grigioni svizzeri, Stefan Keller osserva la cupola barocca della torre, il campanile romanico. E’ una mattina d’inizio estate, il cielo sgombro da nubi, sul Piz Ela si adagia ancora, più in basso rispetto ai denti a pettine della cima, una coperta di neve fresca. I prati intorno al villaggio sono smaltati di verde brillante. Keller si è alzato all’alba, per lavorare al libro che l’editore vuol mandare in stampa alla fine dell’estate; il giorno precedente, Keller è stato a Endingen, nel Cantone di Argovia, vicino al confine con la Germania, a visitare il villaggio, e ha fatto un salto anche a quello vicino di Lengnau. Fra il 1776 e il 1874 erano le uniche località di tutta la confederazione dove potevano stabilirsi gli ebrei. Endingen è chiamato “il villaggio dalle doppie porte”, case bianche, linde, di un candore immacolato, dove vivevano ebrei, cattolici e cristiani riformati. Molte abitazioni hanno due ingressi, gradini in pietra che conducono alle porte di legno antico: una a destra e l’altra a sinistra. Le porte sono uguali, simmetriche. Da una parte entravano gli ebrei, dall’altra i cristiani. Per gli svizzeri, gli ebrei sono sempre stati un problema, un fastidio. Si è abituati a pensare alla Svizzera come un porto di rifugio, in cui trovar scampo, libertà, salvezza, esilio, ma la verità è più complessa. In quel momento, mentre Keller rimurginava la giornata trascorsa a Endingen, arrivò il furgone delle poste svizzere. Una lettera per Stefan Keller. Arrivava dall’Inghilterra, Liverpool. “Gentile Stefan Keller, sono Claire Stuckler. Ho saputo da mia nipote, che vive in Svizzera, di un documentario televisivo dedicato alla figura di Paul Gruninger, capitano di polizia di frontiera, e che lei si sta occupando di lui, vuol scrivere la sua biografia. Non vedo l’ora di leggerla. La madre del mio defunto marito, dall’Austria riuscì ad arrivare, con tante difficoltà alla frontiera svizzera, ma fu respinta, dovette tornare indietro. Morì in Polonia, in una camera a gas.”
Il capitano Paul Gruninger era il comandante della polizia di frontiera del cantone svizzero di San Gallo, a pochi passi dall’Austria, vicino al Lago di Costanza. Il 12 marzo 1938 fu una giornata particolare, ci fu una grande parata di gerarchi nazisti a Vienna, che attraversarono la capitale austriaca su auto scoperte, tra ali di folla entusiasta per l’Anschluss, l’annessione dell’Austria alla Germania nazista, e formare un unica nazione, la “Grande Germania”. C’erano bandiere con la svastica ovunque, negozi, sui tram, i balconi delle case, persino negli asili comunali, con i bambini che sventolavano le bandierine con la svastica; oltre 200mila immagini del Fuhrer, solo a Vienna, furono affisse nei luoghi pubblici. Dopo l’Anschluss del 1938, e la guerra scoppiata l’anno dopo, il governo svizzero decise una politica di respingimento degli ebrei alle frontiere, per non irritare i nazisti e non “snaturare” (dissero i conservatori, che su questo avevano con loro la maggioranza della popolazione), la nazione svizzera. Una notte fresca, ma che annunciava l’estate, in lontananza le luci del lago, l’abbaiare dei cani, che copriva il rumore dei passi del sottufficiale Anton Schneider, nel grande cortile del convento di San Gallo, Schneider si fermò per accendersi una sigaretta, e si guardò intorno, nervoso, desiderando anche una tazza di caffè bollente, ma per il caffè doveva aspettare. L’abbazia, oltre ad essere la residenza del vescovo, ospitava gli uffici amministrativi del cantone, e una piccola prigione. Con una vecchia autovettura nera, in quel momento arrivò il capitano Paul Gruninger, che come ogni volta sarebbe entrato nell’ufficio dove stavano i registri, le entrate e le uscite, le ronde delle guardie, le timbrature quotidiane. Gruninger avrebbe apposto la sua firma, dopo aver tolto l’elmetto nero con lo stemma cantonale, i guanti, e a volte, condiviso una tazza di caffè con il sottoposto Schneider. “Mio comandante – disse Schneider, piazzandosi davanti all’ingresso, come per impedirne l’accesso a Gruninger – non avete più il diritto di mettere piede qua dentro”. “Perchè?” chiese allibito Gruninger. “Ordini superiori. Non posso dirle altro” rispose Schneider.
Paul Ernst Gruninger era nato nell’ottobre 1891, a San Gallo, secondo di quattro figli. Suo padre, Oskar Gruninger era un tappezziere, di fede cattolica, ma la “nidiata” della famiglia, tutti maschi, furono imbeccati dalla confessione religiosa della madre, Maria Forrer, che era protestante. Nel 1907 Paul Gruninger frequenta una scuola per diventare istitutore, insegnante di scuola elementare, ma lo studiare non è proprio una passione; trascorre i pomeriggi al campo di calcio della sua città, dove si segnala come terzino d’ala, molto veloce sulla fascia e abile nei cross. In qualche modo si diploma nel 1911 e ottiene una cattedra temporanea in un paesino di campagna, a Rafis, vicino al confine con il Liechtenstein. Il preside della scuola annota che “l’insegnante Gruninger è altezzoso, con una spocchia cittadina, e non riesce a farsi apprezzare dagli studenti, gente semplice, figli di contadini”. Così, Gruninger pensando di abbandonare per sempre l’insegnamento s’iscrive a un corso, una scuola militare, mentre continua a sgroppare, a sudare nei campi di calcio, e con la squadra sangallese vince la coppa di Svizzera, nella stagione 1914-15. Terminato il corso “militare”, Gruninger riprende a insegnare in una scuola evangelica di campagna, nel distretto d’Unterrheintal, nel villaggio d’Au, dove trova una fidanzata, figlia di commercianti, Alice Federer. Il lavoro d’insegnante ora gli piace, ha imparato a farsi rispettare, l’ordine regna in classe, e la disciplina scolastica svizzera è rigida, se l’alunno è troppo discolo, non sta alle regole, può capitare che Gruninger molli degli scapaccioni, le bacchettate sull’interno delle mani aperte e distese sul banco, agli studenti. Nel 1919 il giovane insegnante viene a sapere di un posto vacante di sottotenente di polizia di frontiera, a San Gallo. Sono in molti a partecipare al concorso, ma lo vince Gruninger. Dopo poco tempo, è già attivo all’interno di varie associazioni di polizia, partecipa a vari congressi, a Zurigo, in Germania, è presidente dei “conduttori di cani poliziotto”. E’ ormai un uomo fatto, un poliziotto rispettato, il tempo libero lo dedica al calcio, o nel bistrot con altri tifosi del club di San Gallo. Un uomo qualunque, meticoloso, mai un ritardo al lavoro, abituato a non infrangere le regole, un uomo anche banale, che d’estate si concede qualche passeggiata sul Lago di Costanza, e come regalo di compleanno alla fidanzata le regala una gita in battello ad ammirare le ville sul lago, e una notte in albergo a Bregrenz, la serata d’operetta a teatro. Prima dell’Anchluss del marzo ’38, la situazione economica si era fatta pesante anche in Svizzera, inquieta, socialisti e comunisti si picchiavano fra di loro, e con gli estremisti di destra, un amico di Gruninger andò volontario per la guerra di Spagna; poi, l’annessione dell’Austria alla Germania portò un piccolo miracolo economico che investì anche il Vorarlberg, la regione austriaca confinante con la Svizzera. Le fabbriche d’armamenti cominciarono a produrre e a richiedere personale, le ferrovie allungavano i binari. Mentre dalla Francia alla Svizzera, il blocco ai rifugiati inizia nel 1942, dall’Italia al Canton Ticino si riusciva a passare, se non si era ebrei, anche alla fine del ’43. Per gli ebrei c’era stata una stretta il 19 agosto 1938, il “refoulement”, il respingimento, la chiusura della frontiera austriaco-svizzera.
La famiglia Berger, origini ebraiche, sfollata a Calolziocorte, vicino a Lecco, partì dall’Istituo religioso “don Guanella” nel settembre ’43 e camminando per una notte intera, attraverso le montagne, arrivò in Svizzera alle sei del mattino. Furono respinti dalle guardie di frontiera. “Via, andate via, di qui non potete passare!” A piedi, tornarono indietro. Tommaso Berger 14anni, si fa coraggio e va a Como a parlare con il console svizzero. Per fortuna i suoi genitori avevano soldi sufficienti per un contatto, che il console fornì al ragazzo. Era “il marchese d’Uro” un contrabbandiere baffuto, che parlava poco e masticava tabacco tutto il tempo, e che dette appuntamento, alla famiglia Berger, a Cernobbio. Da lì, di notte, salirono al Monte Bisbino, dove riuscirono a passare in Svizzera e a salvare la pelle. Jacob Spring vive a Diepoldsau, nel 1938 ha 19anni. Riceve da 10 a 15 franchi per ogni ebreo che accompagna clandestinamente, ma a volte si accontenta di meno, qualche volta lo fa gratis. Gli fanno pietà certi ebrei, quelli poveri, uguali a lui, che gli parlano con gli occhi bassi, umiliati. L’incontro, con loro, è quasi sempre alla stazione dei treni, dove arrivano i rifugiati provenienti da Vienna. C’è da traversare il Reno, nei pressi di Schmitter, l’acqua lì è bassa, solo una ventina di centimetri. Bisogna conoscere bene i turni di guardia alla frontiera, gli orari. Spring riuscì a far passare, di là dal confine, più di cento ebrei; gli andò male nel ’41, forse una spiata, e finì davanti a un tribunale militare, buscandosi tre mesi di galera.
Vicino alla frontiera austriaca c’è un campo di rifugiati ebrei, a Diepoldsau, gestito da un associazione ebraica che provvede al loro mantenimento. Ci furono momenti che la cassa dell’associazione si svuota, e le autorità svizzere avvertono che se non è pagata la retta per ciascun rifugiato, il campo potrebbe venire sgomberato. Le associazioni ebraiche dovevano devolvere una cifra per ciascun ebreo che resta sul territorio elevetico, proporzionato al patrimonio dichiarato che risulta dalla documentazione. La tenace burocrazia svizzera inseguì alcuni rifugiati anche nel dopoguerra; ad alcune persone furono inviate richieste di risarcimento, per il tempo passato nei campi provvisori. Nel campo di Diepoldsau la situazione si era fatta difficile, il cibo scarseggiava, c’erano bambini, malati, gente che chiedeva di poter raggiungere i loro familiari, andare a Zurigo, Basilea, raggiungere la costa, andare negli Stati Uniti. Paul Gruninger visiterà il campo più volte. La sua corazza rigida, lui così orgoglioso di una tradizione svizzera di efficienza, di organizzazione, anche di ospitalità, sfrolla, cede. Si domanda cos’è diventata la Svizzera, la sua nazione da sempre divisa ma anche compatta, fiera, un paese che ama. La sofferenza dei rifugiati è un pugno nello stomaco, sente che non può girare la testa, chiudere gli occhi, che la burocrazia può anche ammazzare le persone. Il cameriere del caffè del Sole di San Gallo, oggi un signore anziano, lo ricorda che un giorno gli portò una birra al tavolo e Gruninger stava con gli occhi umidi, che piangeva da solo, tenendo in mano l’elmetto, il giaccone sbottonato, la faccia che non gli aveva mai visto così strana, stravolta.
A fine ottobre del 1938 18mila ebrei polacchi furono scacciati dalla Germania e costretti a riparare in Polonia. Nella notte tra il 9 e il 10 novembre del ’38, la “Notte dei cristalli”, centinaia di sinagoghe furono bruciate, negozi, tombe ebraiche devastate, gli ebrei ammazzati per strada, le donne violentate. Il giornale socialista svizzero “Volksstimme”, il 24 novembre 1938 titola: “La Germania ha intenzione di assassinare tutti i suoi ebrei?”. Quando il governo svizzero emana il decreto nell’agosto 1938 che blocca l’entrata degli ebrei dalla frontiera con l’Austria, la minoranza socialista al Parlamento insorge. Il deputato Valentin Keel urla: “Voi lo sapete cosa attende gli ebrei rispediti in Austria, lo sapete e scrollate le spalle. Dite che la faccenda vi dispiace, ma non vi riguarda. E’ una vergogna!”. Un’altro giornale socialista svizzero propose di espellere i pro-nazisti in Austria, e al loro posto far venire gli ebrei. Paul Gruninger prende la decisione di modificare la data d’ingresso a molti ebrei (in totale saranno oltre duemila, gli ebrei salvati da Gruninger), anticipandola a prima del 19 agosto ’38. Adolf Werner, ebreo di Vienna arriva al posto di frontiera il 1° ottobre ’38. Subito Gruninger telefona all’associazione israelita di aiuto ai rifugiati. Devono venire immediatamente nel suo ufficio. Alla presenza di Werner, Gruninger appone sul foglio d’ingresso la data del 16 agosto ’38, avvisa l’incaricato israelita e Warner di non far parola della data modificata. In quel momento, Adolf Werner non capì, gli parve che ci fosse un problema burocratico, per fortuna superato. Werner potè approdare al campo di Diepoldsau, e poi stabilirsi definitivamente a Zurigo. Dall’ottobre ’38 era più facile riconoscere un ebreo che proveniva dalla “Grande Germania”; sul passaporto le autorità naziste apportarono una “J” obbligatoria. Mentre i tedeschi non ebrei poterono entrare e uscire dalla Svizzera senza restrizioni.
Gruninger riuscì a garantire che molti ebrei non fossero spogliati dei loro averi che si portavano dietro, accordandosi con un albergatore di San Gallo che li deponeva in un nascondiglio, per poi consegnare il pacchetto a un “corriere” dell’associazione ebraica che provvedeva a ritornare il pacchetto ai proprietari entrati in Svizzera. Nel dicembre ’38 solo due cantoni svizzeri contravvenivano all’ordinanza sul blocco delle frontiere agli ebrei, Bale, dove il direttore della polizia era un socialista, che finì poi per cedere alle pressioni del Dipartimento federale, e San Gallo, dove comandava Gruninger. Il 31 marzo 1939 il Consiglio di Stato riunito a San Gallo denuncia il capitano Paulo Gruninger per aver ripetutamente disobbedito a un ordine governativo, e avverte l’ufficio di frontiera. Gruninger è sospeso. Partirà un processo contro di lui, e a difenderlo c sono due avvocati, di fede socialista. Il 12 maggio il Consiglio di Stato trasforma la sospensione in licenziamento. Grunigner si trova senza un lavoro, anche i figli faticano a trovare un occupazione, a San Gallo. Gruniger, per strada, è guardato di traverso, c’è chi smette di salutarlo, gli amici gli stanno alla larga. Gruninger vivrà fino al febbraio 1972. Per un pò dovette barcamenarsi con lavori precari: vendette alimenti per i maiali, polizze assicurative vendute lontano da San Gallo, e vestiva male, la faccia smunta, gli occhi spesso spenti; poi, quando si trasferì al villaggio d’Au, dove aveva insegnato da giovane, trovò un incarico d’insegnate a contratto, le cose migliorarono. Nel 1962, all’età di 71anni andò in pensione. I vicini di casa lo ricordano come un uomo silenzioso, che s’infiammava solo le volte che al bistrot si parlava di calcio. Un giorno un giornalista svizzero che veniva da lontano, andò a Au a cercare Paul Gruninger, per chiedergli un intervista. Grazie alla testimonianza di numerosi ebrei che si erano salvati, passando dalla frontiera di San Gallo, era spuntato il nome di Paul Gruninger, il capitano che modificava le date. Nel 1971, in Israele, Pual Gruninger venne insignito di una medaglia e inserito fra i Giusti d’Israele. Diversi alberi furono piantati ed è stata apposta una targhetta con il suo nome, “a memoria del coraggio di Paul Gruninger”. Il 30 novembre 1993 il Consiglio di Stato di San Gallo dopo cinque riunioni con parere negativo, la prima nel 1968, l’ultima nell’1989), davanti a una platea zeppa di giornalisti svizzeri, di telecamere, il Consiglio di Stato “ammette che Paul Gruninger, nel 1938, si lasciò guidare da valori etici, e che l’abbondanza di testimonianze a suo favore, ci permettono di sostenre con certezza che il capitano ha infranto delle regole governative per proteggere l’esistenza dei rifugiati, che era minacciata, rischiando così il posto di lavoro, ma salvando molte vite umane”.
Felice A. Vitali, Paul Gruninger, doc. Tv Svizzera, 1971.
Philippe Broussard, La Suisse et ses Justes, Le Monde, 13.2.2004
Stefan Keller, Délit d’humanité. L’affaire Gruninger, Editions D’en Bas, Losanna, 1994
Paolo Di Stefano, La Svizzera ammette: abbiamo tradito i perseguitati, Il Corriere della Sera, ritaglio senza data.
Renata Broggini, La frontiera della speranza, Mondadori, 1998
dedicato a tutti coloro che per umanità infrangono le regole.
Commenti
Caro amico
questo pezzo di storia e rara bellezza letteraria è un documento insostituibile per chi voglia approfondire. Sembra sempre che le cose non commentate a caldo restino lettera morta, ma poi salta fuori uno studente che, cercando in rete, ci scopre, e la sua tesi prende una sferzata di vento nelle vele. Io apprezzo molto il genere. altri forse restano in ammirato silenzio?
Ma in fin dei conti è appena uscito! Si sveglieranno!
Della piccola storia di Paul Gruninger lessi qualcosa nei primi anni ’90, scrissi il suo nome su un quaderno, e poi, me ne dimenticai. Nel 2004 mi capitò sotto gli occhi un articolo di un giornale francese che parlava anche di lui, e se le coincidenze sono significanti (boh, non saprei), decisi di approfondire. Purtroppo, trovai notizie di Paul Gruninger in lingua tedesca, all’inizio, e pensai di lasciar perdere, ma alla fine rintracciai un bel libro pubblicato da una casa editrice di Losanna, e il pacchetto con la sua storia, incluso varie fotocopie di articoli pubblicati sui giornali svizzeri mi arrivò a casa. Feci altre ricerche (che non ho citato nel testo, perchè già è lungo più dei rotoloni Scottex, e la noia è dietro l’angolo per chi legge), come il bel libro di Silvana Calvo “A un passo dalla salvezza. La politica Svizzera di respingimento degli ebrei durante le persecuzioni 1933-1945”, ediz. Zamorani, Torino. L’articolo di Giulio Busi “Spttili discriminazioni nella quiete svizzera”, apparso sul “Sole 24
ore”. Del resto, il comportamento della Svizzera durante gli anni della persecuzione ebraica, il nazismo, è stato ondivago, ambiguo, complesso, con la maggioranza della popolazione che sosteneva la chiusura delle frontiere, anche per timore che fascisti e nazisti trdeschi, soprattutto, potessero decidere di invadere la confederazione elvetica per riacciuffare gli ebrei, i perseguitati politici che lì vi si erano rifugiati. Comunque, la ringrazio molto per la sua attenzione al testo, e mi scuso per la sua lunghezza. Il prossimo che sto preparando, se e quando sarà pubblicato, sarà più leggero e ambientato nel cremasco.
Il nostro blog, Marino, ha guadagnato con te un “ricercatore” di qualità, uno studioso che ha proprio l’habitus mentale (un habitus che certamente hai coltivato) di andare fino in fondo (di non limitarsi a fare la ricerchetta veloce su Google).
Sei ammirevole!
Fin da ragazzo mi appassionavano i contrabbandieri, i passatori, e ricordo di non aver perso un a puntata dello sceneggiato tv “L’amante dell’Orsa Maggiore”, tratto da un racconto (mediocre) del polacco Sergiusz Piasecki. Del confine italo-svizzero, di quelli che sono riusciti a “passare” durante la guerra, da Adriano Olivetti, Franco Fortini e tanti altri ho letto parecchio. Il confine svizzero-austriaco, così lontano da noi, ha avuto una forte influenza dalla vicina “Grande Germania”, e in quegli anni, come ovunque, i simpatizzanti del nazismo, del fascismo erano molti in tutta Europa, anche l’antisemitismo dilagava; in Svizzera era tenuto a freno, ma aveva attecchito molto nelle zone rurali, nei piccoli centri, e infestato i partiti conservatori. E un piccolo grande uomo come Paul Gruninger era osteggiato ancor di più in quella parte di Svizzera, così abituata a una certa rigidezza mentale, all’ordine, al non discutere le regole decise dall’alto; e lui stesso era cresciuto con quell’armamentario mentale. Per questo ho provato a raccontarne la storia, perchè in certe occasioni, le regole si possono, anzi si debbono infrangere. Guai a dimenticare di essere umani.
Si pensa sempre alla Svizzera come a una “neutrale” oasi di pace e benessere, ma forse è solo un’idea, o un pregiudizio, dipende dai punti di vista. Giusto ieri le donne svizzere sono scese in piazza a protestare: faticano il doppio degli uomini a trovare un lavoro e quando lo trovano guadagnano in media il 20% in meno di loro. Forse, tutto sommato, neanche la nostra cara “Itaglietta” ….. dovremmo andare a scuola di autostima, magari dagli svizzeri.
La Svizzera è un paese che credo possa spiazzare. Lo giudichi in un modo e salta fuori l’altra faccia. Un paese misto, con tante lingue diverse, eppure, in qualche modo unito. Il giornalista Jean Ziegler, che conosciamo anche in Italia, ha scritto diversi libri attaccando l’ipocrisia svizzera di speculare, di tacere sulle ricchezze depositate nelle banche svizzere, di ladri, truffatori, evasori, persino l’oro degli ebrei. Eppure è un paese capace di molta attenzione per i diritti civili, come il sacrosanto diritto delle donne a una paga uguale agli uomini. Per queste cose, l’Italia è ancora indietro. Basta pensare alle difficoltà incontrate per abolire “il delitto d’onore”. Comunque sono molti gli italiani che hanno trovato riparo, rifugio in Svizzera in anni terribili, e di questo ne ha parlato diffusamente la studiosa più accreditata sull’argomento, svizzera di Locarno, Renata Broggini. Purtroppo è introvabile, se non in biblioteca “Storia dei fuoriusciti” di Aldo Garosci, azionista, che racconta della vita di tanti scrittori, intellettuali, politici che fuggirono in Svizzera durante il fascismo e di giornali, pubblicazioni, libri, come le edizioni Capolago. In quegli anni, Lugano, il mendrisiotto al confine con la Val d’Intelvi, era anche un rifugio antifascista. E quando mi capitò di camminare tra l’Italia e la Svizzera, nell’alto lago di Como, o in Valsolda, sul monte Brè, tiravo pazzo la mia compagna con le storielle un pò vere, un pò inventate degli italiani rifugiati in Svizzera.
M
Mi scuso con Piero Carelli, che ringrazio. Invece delle mie mediocri storielle è meglio segnalare quello che sta accadendo a Hong Kong, che è molto importante, che come al solito è molto ben coperto dall’informazione anglosassone, da quella francese, mentre il notiziario italiano ne parla ma passandola come notizia di secondo, anche terzo piano. Non è una novità, che siamo affetti da un provincialismo cronico, mentre a Hong Kong si sta lottando con bgrande passione per la democrazia, la libertà. E in Italia, di fronte ai soldi cinesi, un paese autoritario come pochi, tutta la baldanza del nostro governo si sfrolla, è pronta a capitolare, domani, dopodomani, per la progettata via della Seta.
Per forza, la Cina è una dittatura e Hong Kong è una ex colonia inglese.
Dal che si dimostra che in una dittatura attuale come quella cinese la gente sta molto peggio che in una vecchia colonia inglese.
Non è un caso che in Italia i media siano andati in coprifuoco sull’anniversario di piazza Tienanmen. Tutti a sparnazzare giaculatorie sulla via della seta, che tra l’altro non c’entra nulla con i maneggi politici di questi ultimi analfabeti storici e geografici. Anzi, citando la via della seta in riferimento alle loro ridicole genuflessioni filocinesi (adesso ringraziano anche a mani giunte, all’orientale), si offendono innumerevoli viaggiatori, mercanti, soldati, diplomatici, artisti, santi e avventurieri che per così tanti secoli la via della seta l’hanno realizzata, percorsa, arricchita e onorata.
Pietro Martini, sono d’accordo con lei. Quando l’Inghilterra ha mollato Hong Kong alla Cina, furono diversi i giornalisti occidentali che se ne andarono dalla colonia britannica. A Hong Kong avevano la base per il Sud-est asiatico. La battaglia dei giovani, della popolazione di Hong Kong non ha la copertura che merita. Alla stampa italiana si preferisce aprire la “prima” con le solite scaramucce misere della politica italiana. E la Cina ha solo rimandato le sue decisioni in materia di estradizione. La Cina sa come conquistare tante nazioni abituate ad essere vassalle mostrando il portafoglio; l’Italia è un paese con politici che sbraitano, ma davanti ai soldi, si sa, si squagliano.
Se è per questo mi sembra che la stampa italiana stia dando un passalà a un evento ben più grave delle manifestazioni di piazza di Hong Kong (con tutto il rispetto per i manifestanti, che avranno di sicuro le loro buone ragioni): l’Iran!!! Giusto ieri gli Usa hanno autorizzato il “rinforzo” di 1.000 soldati nel Golfo di Oman “a scopo difensivo”. Da almeno tre anni vado dicendo che la miccia di un’ipotetica terza guerra mondiale si sarebbe accesa in Iran (con Adriano ne abbiamo anche discusso diverse volte) e continuo a sperare di avere torto.
La geopolitica non ha mai interessato più di tanto i media italiani, meno ancora gli italiani e meno di meno ancora questo blog. Non perché siamo provinciali, e neanche perché per capire le cose serve “curiosità, senso critico, serve viaggiare” (dopo i tedeschi, gli italiani sono quelli che viaggiano di più in assoluto). La faccenda, io credo, è squisitamente culturale: una sorta di fatalismo atavico ci ha convinti che quello che succede nell’Oman, o a Hong Kong, non succede qui da noi e perciò non c’interessa. Lo pensano anche persone cosiddette acculturate, non solo gli zotici in canottiera col catenone d’oro al collo. Dopo la riforma Gelmini (che dio l’abbia in gloria) il monte orario della geografia nelle scuole è stato dimezzato, con buona pace di tutto il Parlamento, mentre sullo studio della Storia è meglio calare un velo pietoso. Poi, non è che si può pretendere …….
Pasini, pecunia non olet. Tutti i peggiori dittatori o oligarchi cinesi, russi, arabi si stanno comprando tutta l’Europa, dai grattacieli alle case di moda, dalle isole alle squadre di calcio e noi ad indignarci per i barchini di poveracci col velo che ci “invadono” per un pezzo di pane. Agli Arabi paludati stendiamo invece il tappeto rosso e copriamo le statue per non offenderli.
Sì, il dio denaro, la televisione, e adesso la Rete, o battono moneta e comprano, possono influenzare le elezioni, o tutte e due le cose. Mio padre diceva che i soldi è importante averne abbastanza da non dover pensare ai soldi. E lui se ne intendeva, non avendone mai avuti. Ma tornando a Hong Kong, al provincialismo nostrano e nostro, se non c’interessa cosa è accaduto, cosa accade nella vicina Svizzera, figurarsi l’ex colonia britannica, anche se c’è un importante battaglia per la libertà e la democrazia. Il provincialismo (cosa differente dall’essere provinciali) è una brutta malattia, una delle peggiori. E Adriano Tango lo sa bene: non c’è un farmaco per curarla. Non è stato ancora inventato. Serve studiare, faticare sui libri, curiosità, senso critico, serve viaggiare. Il provincialismo è stato una delle stampelle del fascismo; è il nocciolo duro della Lega fin dalle origini; è un guaio non infestante, ma diffuso, molto diffuso.
Cara Rita R., la geopolitica interessa da sempre poco la stampa italiana, e agli italiani meno ancora: preferiscono sapere quanti molari ha ancora in bocca la vicina di casa. Ne sapeva qualcosa Tiziano Terzani, che quando lavorò al “Giorno” di Italo Pietra, scalpitava per andarsene in paesi lontani e raccontarci un pò di fatti (e cita questo in una lettera, lunga, che ricevetti nel giugno ’93 da Bangkok, via posta, dalla sua Turtle House, e che ho consegnato, in copia, insieme a un’altra ricevuta via fax, ad Angela Terzani, pochi mesi fa, per la Fondazione Terzani). Terzani aveva imparato più lingue, e riuscì a trovare ascolto per i suoi vagabondaggi, le sue cronache dalla Cina, dal Giappone, Malesia, Hong Kong, da un settimanale tedesco “Der Spiegel”. Poi, grazie al fatto di essere stato tra i primissimi cronisti ad entrare a Saigon, la sua fama come cronista del sud-est asiatico crebbe parecchio, e prima “Repubblica”, poi “Il Corriere” lo vollero come collaboratore. Poi ancora, ci fu “il boom editoriale” di un paio di libri di Terzani che mi capitò pure in ferramenta, mentre contavo i tasselli per una signora che teneva sottobraccio un libro proprio di Terzani. Non sembrava una molto interessata alla geopolitica, ma mi parlò entusiasta proprio di un giornalista con cui, anni prima, avevo scambiato una discreta, anche appassionante corrispondenza, che conoscevano solo gli addetti al mestiere, e improvvisamente era diventata una star. Ma la geopolitica, nonostante il boom Terzani, restava sempre cronaca, storia indigesta
Debbo segnalare un ingiusta mia opinione di cui mi scuso, con Pietro Martini e Beppe Severgnini. E’ vero che non pochi giovani italiani furono attratti inizialmente dal fascismo, in buona fede, e che fu “una grande illusione”. Di recente sono andato a rileggermi, a leggere libri che testimoniano proprio questo, l’adesione di masse di giovani brillanti intellettuali, seri, che furono attratti dalla “novità” del fascismo. Bisogna avere l’umiltà, sforzarsi di capire quegli anni, il vento che spirava, e ciò che oggi sembrerebbe impossibile digerire, e che allora sembrava rosolio. Anche in Germania, fu così, come testimonia il bel libro “L’eterna primavera” dello studioso e musicista Nicola Montenz, edito da Archinto che ho terminato da poco. Ho imparato che anche i grandi cronisti, per esempio Giorgio Bocca si presero delle cantonate, e non soltanto per il fascismo. Figurarsi se non le prende il sottoscritto. Un saluto a tutti.
La ringrazio per la sua precisazione, davvero cortese. Per quanto mi riguarda, apprezzo molto il fatto che lei abbia ritenuto addirittura di porgere delle scuse. Mi sembra un bell’esempio di educazione e civiltà. Tuttavia, personalmente non meritavo tanto. Mi ero infatti limitato a riportare, anche condividendola, una frase espressa da Beppe Severgnini, senza alcun ulteriore contributo da parte mia. Comunque, grazie molte.
Ne approfitto, signor Pasini, per porle una domanda forse un poco impertinente, vista anche la sede accessibile potenzialmente a molti, oltre che piuttosto irrituale in termini di utilizzo di un blog. Ho casualmente visto sul web un breve filmato in cui si svolge un’interessante intervista sulla nota questione locale degli alberi abbattuti in via Bacchetta. Era lei l’intervistato o si tratta di una omonimia? La ringrazio sin d’ora per la sua eventuale risposta. Si è parlato di alberi recentemente, qui su CremAscolta, e a volte è opportuno, dalla nostra bella campagna, rientrare a dare un’occhiata nelle zone meno fortunate della nostra città.
Sì, ho la sfortuna di vivere nella parte di Via Bacchetta che ha subito lo scempio degli alberi, abbattimento e riasfaltatura terminata dopo quasi tre mesi di calvario e polvere e costato una bella cifra. I lavori dovevano essere finiti con la piantumazione di nuovi alberelli, ma non siamo in Svizzera, neppure a Milano, e i tempi di lavoro da noi sono ipotetici, quindi forse arriveranno nuove piantine a settembre. L’intervista più interessante e più competente è quella precedente alla mia, con Alvaro Dellera, anche lui sfortunato residente di Via Bacchetta.
Ciao Marino, allora ci conosciamo. Ottimo acquisto per Cremascolta.
La ringrazio molto, signor Pasini, per la sua cortese risposta. Mi associo a Ivano nell’apprezzamento. I suoi testi sono per me veramente interessanti. Mi cercherò l’altra intervista rilasciata da lei e dal signor Dellera.
Si è trattato di una vicenda davvero triste, comunque la si pensi. Di una tristezza molto amara e dolorosa, anche qualora si volesse proprio fare di tutto per prescindere dalle cause, dalle colpe, dalle responsabilità. Il confronto tra l’immagine di ieri e l’immagine di oggi è desolante.
Se non sbaglio, resta un altro pezzo della stessa via ancora alberato. Diverse vie di questo quartiere, come via Manini e via De Marchi, hanno magnifiche alberature. Basta girare in altre vie vicine per scoprire un patrimonio arboreo altrettanto magnifico. Non è che tra un po’ lo stesso problema ce lo ritroviamo anche là? Certo, la demonizzazione dei bagolari e del loro apparato radicale potrebbe risparmiare alcune altre essenze arboree. Però mi colpisce come non venga ammesso che il problema potrebbe ripresentarsi. Non mi stupirei se tra alcuni anni qualche altro politico risolvesse lo stesso genere di problemi nel medesimo modo.
E visto che ci conosciamo, siccome qui ne abbiamo parlato, potresti chiedere ad Alvaro lungo quale riva del Serio e in quale punto ha fotografato lo scoiattolo? Anche se non c’entra col tuo post. Grazie.
Si Ivano, Marino è stato davvero un ottimo acquisto per il blog e mi …. congratulo con me stesso (almeno na òlta dai!) per averne sollecitato la pertecipazione dedicandogli una sorta di rubrica: “IL SABATO DEL MARINO”.
Grazie.Marino e big abrazo!
Caro Ivano, ti cercherei volentieri Alvaro se sapessi dov’è. Mi risulta sia un girondone sempre a caccia di uccelli di passo da fotografare; in verità non lo vedo quasi mai, ma se dovesse succedere gli dirò di mettersi in contatto col blog.