Una pianura placida, morbida, ricca d’acqua, terre basse, piatte che sembran disegnate col righello, con precisione geometrica. L’aria pacifica dei suoi abitanti, il fare bonario, pacioso ma laborioso. Certi pomeriggi di primavera, inforcavo la bicicletta e sconfinavo in territorio cremonese: terra sorella, di vicinato. Una distesa verde a perdita d’occhio, un mare di piantine di granoturco ansiose a farsi adulte; filari di pioppi; l’aria immobile: può non muoversi foglia per giorni interi. Un trattore tracciava i solchi nella terra lentamente, qualche beccaccia, un airone solitario, lo scorrere eterno dell’acqua nei fossi. Un paesaggio conquistato dagli uomini, lavorato, un territorio che lo vedi lineare, persino banale nella sua logica squadrata, e che non mostra bizzarrie, creste, scarti d’immagine. Tutto pare prevedibile, come lo scorrere inesorabile delle ore, le stagioni, il pulsare indifferente dei cuori.
Terre lavorate con sapienza artigianale; “quale assiduità paziente, che amorosa tenacia!”, scrisse Carlo Emilio Gadda. “La derivazione del Naviglio di Pavia, poi la Martesana, il Villoresi, il Naviglio di Cremona”; e il Vacchelli che attraversa il Cremasco. Guido Piovene, che studiò al Collegio San Francesco di Lodi, annotò che la provincia cremonese, negli anni cinquanta, era la più grassa del nostro paese. “E’ la pianura tutta piatta, percorsa da fiumi, irrigata, copiosa d’erba, di latte…L’animo della provincia è conservatore. Si incontra qui uno dei grandi personaggi lombardi, il contadino ricco, proprietario o fittavolo; alto, atticciato, conservatore, autoritario, soprattutto convinto d’essere l’unico padrone di casa propria. L’avversione lombarda per le leggi sociali insidianti l’economia sembra incarnarsi in lui”. Ma lo sguardo sulla campagna, a pensarci bene, può ingannare; c’è nell’aria un silenzio, una paciosità che ti frega, che è falsa. Le mura rosse dei cascinali spuntano isolate e sparse, come un mondo a sè, una comunità chiusa, diffidente, con fatiche ripetute uguali ogni giorno. Ne scrive Guido Crainz, nel suo studio “La Padania”: “un mondo a parte, la cascina, il ritmo delle campane scandisce il tempo, e al tramonto dentro al grande portone d’accesso, rientravano i cani, gli uomini, gli animali, prima che il buio si mangiasse la campagna padana”. L’aspetto delle case dei contadini è misero e triste. Il capitalismo agrario non era generoso di suo, neppure incline a un impegnato paternalismo, e stava rinchiuso, lontano dalle smanie, dagli stimoli urbani, dai bollori delle città.
D’estate, la campagna cremonese ha un silenzio straniante che spiazza, con certi coprifuoco, sieste castigliane, nelle ore calde, nelle piazze paesane. La luce del sole crea specchi d’acqua sugli stradoni, riverberi di luce che paiono grosse pozzanghere, e abbacinano la vista. E si soffoca; l’afa può essere opprimente. Rari i boschetti, e lontano i cascinali affondano nella calura, nell’orizzonte sfumato dalla foschia. Chilometri di granoturco e campi a riposo. Un silenzio irreale, metafisico, che addormenta, uno spegnersi delle tensioni rotto solo dal ronzio, il fastidio degli insetti. Oggi, la campagna cremonese, come quella veneta, è solo in parte ancora un mondo a sè; è diventata, come le periferie, il territorio del caos. Cave, piani d’insediamento produttivo, con solo i pilastri in piedi e abbandonati a metà dell’opera, incroci, rondò, strade, stradette, cavalcavia, sovrappassi, slarghi, sedie di plastica lasciate da prostitute africane, fabbrichette chiuse e in vendita, capannoni, parcheggi zeppi di camion nei ristoranti-bar lungo le direttrici, maialifici, tripperie, ipermercati, case del materasso, outlet, pronto moda pronta, villette con Biancaneve e i sette nani e le piscine Loghetto. Ancora, però, a mezzodì sulla linea a monobinario Cremona-Treviglio, il treno pare sferragli come un tempo, le carrozze vuote di passeggeri, e alle fermate di paese, capita che non sale e scende nessuno.
Cremona, molti l’hanno dimenticato, oppure lo ignorano, nella seconda metà dell’Ottocento era una città inquieta, culturalmente dinamica e aperta al mondo, fortemente repubblica e tutt’altro che provinciale. Fiorivano associazioni, società di mutuo soccorso, giornali democratici, logge massoniche, circoli di artisti. La classe borghese guardava a Milano, anche più lontano, a nord delle Alpi. Nel 1879, l’antico convento e chiesa di San Domenico (dove oggi sono i giardini in piazza Roma) scompaiono. Il Comune, frequentato da parecchi anticlericali, vuol creare spazi urbani, e non risponde alle proteste del Vescovo Bonomelli. Gli oggetti d’arte della chiesa sono dispersi all’asta a Parigi. Tanti, a Cremona, in quel periodo i preti che abbandonano la toga. In 35, in tutta la provincia, furono i preti che scelsero di spretarsi. Ma se la città era in pieno fermento, non così era la campagna. Lo si capirà, lo si saprà anche nei circoli di città, leggendo l’inchiesta che Stefano Jacini, un proprietario terriero di Casalbuttano, colto, voglioso di aperture sociali, pubblicherà sui fogli, i giornali che la borghesia sfogliava a colazione. I contadini poveri vivevano nella miseria più nera, scriveva Jacini; così pure, lo spiegò nelle conferenze locali Arcangelo Ghisleri, un cremonese liberale, concreto, che rifiutava le astrattezze politiche, ma giudicava necessario far migliorie allo stato pietoso dei lavoratori delle campagne, e accusava i padroni delle terre, “che erano pieni di ogni grazia di Dio e avevano ingenti somme in banca”. Nascevano le leghe contadine, le lotte sociali nelle campagne. “La boje!“, la rabbia dei diseredati delle campagne bolliva e non si poteva più tenere dentro. La paura dilagò fra le associazioni dei proprietari. I partiti cittadini che rappresentavano i proprietari terrieri, il conservatore, il liberale, ricevevano continui malumori dei suoi iscritti, racconti di raccolti incendiati, scioperi, richieste di paghe più alte da parte dei contadini, fomentati da una nuova figura, il sindacalista. Il vento gelido della Russia sovietica, del bolscevismo era arrivato anche nella nostra pianura e spaccato i socialisti cremonesi, divisi tra massimalisti e riformisti. Poi, arrivò l’altro vento, che le barriere naturali delle prealpi e degli appennini non riuscirono a fermare. Il nazionalismo. I venti di guerra. Cambiò tutto. La paura di perdere privilegi secolari; le leghe sindacali; la rivoluzione russa; e c’erano già schiere di giovani che traversavano Cremona urlando: prima gli italiani! Abbasso gli stranieri! Cremona, la sua apertura al mondo, la sua tolleranza, il laboratorio politico all’avanguardia, fu spazzato via. Il partito radicale di Ettore Sacchi che prendeva molti voti dalla borghesia illuminata, progressista rimase inerte, passivo, di fronte alla foga degli interventisti che sbandieravano la bandiera patriottica; e in poco tempo, i radicali, come i liberaldemocratici, come molti dirigenti del Partito popolare, sotterrarono i principi, le idee, gli ideali, l’anima liberale e democratica e finirono in bocca al movimento fascista, da poco nato, di un ex ferroviere molisano, Roberto Farinacci. I Fasci di Combattimento nascono il 23 marzo 1919. Nelle campagne accorrono ad iscriversi i figli degli agricoltori, e si addestrano alle aggressioni armate, alle bastonature dei contadini riottosi. Le autorità stanno a guardare. I prefetti scrivono a Roma, domandando che fare. I piccoli presidi militari di provincia, abituati a rispettare le gerarchie padronali, lasciano fare. Dalla Lomellina, nel Cremonese arriva un esercito di centinaia di squadristi addestrati da Cesare Forni, un rampollo di origini piemontesi di una grande famiglia di proprietari terrieri. Sono quasi tutti reduci della prima guerra mondiale, e si segnalarono per la violenza estrema delle loro scorribande. Per Corrado Stajano, grande giornalista, nato a Cremona, la borghesia moderata cremonese fece male i suoi calcoli: pensò che un periodo di stasi autoritaria potesse servire a mettere un pò d’ordine e far tacere i conflitti, per poi addomesticare il fascismo, renderlo più civile, e riprendere le leve del potere.
C’è un ombra lunga, una passività, che è del carattere, di fronte alle violenze, alle sopraffazioni. E ci fu pure una sorta di fascinazione, di resa, di corsa, pure, sul carro del vincitore, di chi ha saputo mostrare i muscoli, e prendersi la città, il territorio. La bonarietà cremonese – scrive Renato Rozzi, in un bellissimo piccolo saggio – è anche nel nome del suo santo, S.Omobono. Bonarietà che vuol dire anche passività. “Stem schiss”. Stiamo zitti e cerchiamo di passare inosservati. Forse, dice Rozzi, i cremonesi nel subconscio “aspettano che qualcuno li scrolli, tiri fuori quel pò di devianza, di violenza segreta che vive sottotraccia nella superficialità paciosa”. Cremona non ha mai voluto fare i conti, seriamente, con il suo passato recente. Un passato, il più fascista d’Italia. Perchè Farinacci sarà pure capitato a a Cremona, e poteva invece finire a Voghera, a fare il ferroviere, ma a Cremona ha potuto trovare il terreno adatto, la provincia che ben gli si adattava. Oggi, ci sono studiosi di destra che esaltano il radicalismo “sincero” di Farinacci, il movimentismo, il fatto che l’ex ferroviere piaceva poco ai fascisti in doppiopetto; a quelli cremaschi, per esempio, come il conte Stramezzi che telegrafava al duce, a Roma, chiedendo di intervenire per fermare le squadracce di Farinacci. E così, per due volte, il ras di Cremona dovette intervenire per cambiare i dirigenti cremaschi, trovando finalmente un alleato nel conte Premoli, ricco proprietario terriero e forte finanziatore delle sue squadre.
Cremona non ha voluto raccontarsi quegli anni, anni di vergogna, di sottomissione, anni servili, e domandarsi il perchè una città che fu un laboratorio politico democratico e fra i più interessanti della nuova Italia da poco unificata, si sia trasformato nel feudo più nero d’ Italia. Cremona non ha voluto approfondire questa frattura, che c’era tra città e campagna, gli agrari che dominavano il territorio, già allora, che influenzavano le scelte politiche. Del resto, gli agrari non aveano un ideologia. Nelle campagne, l’attaccamento è solo alla terra, e si diffidava di tutto ciò che s’incrostrava, si mischiava ai ritmi del mondo rurale; mal si sopportavano le teorie, i controlli, le ispezioni, le richieste sindacali, le tassazioni. Questo, Farinacci lo capì subito, e seppe ingraziarsi gli agrari, fregandoli, dopo, in parte, quando al vertice del suo potere, decise alcune aperture sociali a favore delle classi contadine più povere. In poco tempo, Farinacci ebbe la sua provincia sotto le scarpe, Cremona e i suoi abitanti, perlopiù mesti e silenziosi, desiderosi di passare inosservati, con la catena al collo. Un piccolo duce che dominava un territorio come un principe.
Non un convegno serio è in programma a Cremona, non una settimana di studi, dedicati a “Cremona e Farinacci”, eppure ce ne sarebbe bisogno, come hanno saputo fare altrove, con vergogne e scheletri nell’armadio più pesanti e gravi. Forse, la città è restia, anche per il timore delle manifestazioni di sostegno all’ex ducetto di provincia; i tempi non propizi; una brutta storia da dover scoperchiare, porterebbe a galla, anche faccende imbarazzanti. Meglio non ricordare. Meglio provare a dimenticare.
Una maledizione, uno spettro del passato pare sopravviva nella placida città di Ettore Sacchi, Bissolati, la città dei liutai, la piccola capitale della musica classica (grazie, anche ai soldi dell’imprenditore Arvedi), con intorno la grassa pianura. Pietro Enrico Mola, detto Pepe, nipote di Farinacci, abitava in un casa di Cremona, stile littorio, appassionato di culturismo, di professione medico, da giovane militò nei gruppi di estrema destra; poi, basta con la politica. Il 10 maggio 2011, 67 anni d’uomo, di buon mattino si caricò sulle spalle un borsone e si diresse, pensioroso, verso il cimitero Maggiore. Scelse un’entrata secondaria. Lasciò il borsone a terra, e tornò fuori, nel traffico. Ritornò verso le 10, il sole già alto, il cimitero semi vuoto. Si guardò intorno, aspettò che non ci fosse nessuno e d’improvviso estrasse dal borsone un fucile che era smontato in tre pezzi, lo montò in fretta, s’inginocchiò, e sparò. Arrivarono degli operai che stavano su un impalcatura, dentro il cimitero, attirati dallo sparo. Il corpo, ormai senza vita di Pepe, nipote di Farinacci, stava adagiato in una pozza di sangue sulla tomba del nonno.
(Molti gli studi dedicati alla figura di Roberto Farinacci, facilmente rintracciabili; ma segnalo, oltre l’agile libretto di Renato Rozzi “I cremonesi e Farinacci”, Biblioteca Statale di Cremona, 1991; i diversi scritti di Claudia Baldoli, tra cui “Storia e memoria di una comunità tra Bissolati e Farinacci”, Italia Contemporanea, giugno 1997, anche online www.italia-resistenza-it).
Commenti
Un bel “recall”, Marino.
Resto in argomento “fascismo/agrari” citando lo stupendo “affresco” di Bernardo Bertolucii NOVECENTO.
https://www.youtube.com/watch?v=RNBb5sX6XrA
Gli “agrari” scelgono il fascismo!
In questa potente sequenza, l’unico che avrà il coraggio di dire no, sarà l'”antieroe” Cavalier Pioppi” (interpretato da Piero Longari Ponzone, assolutamente non “attore professionista”, carissimo amico mio e, soprattutto, amico di Bernardo, al quale in modo totalemte disinteressato mise a disposizione la stupenda casa a Rivarolo del Re, per molte delle sequenze in interno, nella “casa padronale”) semplicemente non dando soldi per il nascente Partito, voltando le spalle ed uscendo dalla Chiesa.
Da “Mondo Padano”: “….Novecento, l’affresco disincantato del secolo breve di Bernardo Bertolucci, è tornato restaurato al Festival dei cinema di Venezia e sarà di nuovo nelle sale ad aprile 2018. Un’occasione per andare a rivedersi un film che ha fatto storia, girato tra la bassa cremonese, parmense e reggiana con gente della bassa. Il primo giro di manovella era stato il 2 luglio 1974 e la lavorazione si è svolta quasi interamente nella bassa zona intorno a Parma, tra Busseto, Mantova, Poggio Rusco, Rivarolo del Re e Guastalla . A Rivarolo Bertolucci ci era già arrivato qualche anno prima, nel 1969, in cerca di una location per “La strategia del ragno”, aveva visto la balera di Maria Priori e l’aveva affittata per girare una delle ultime scene, quella del ballo all’aperto al ritmo di “Giovinezza”. Aveva anche conosciuto Piero Longari Ponzone, nella cui villa aveva girato alcune scene, per poi sceglierlo per sostenere il ruolo del cavalier Pioppi, facendolo sposare nella finzione ad Alida Valli in Novecento……”
Credo sarebbe proprio il caso, soprattutto in questa tribolata fase storica che stiamo vivendo, di rivedere il capolavoro di Bernardo Bertolucci!
Si, Francesco, Bernardo Bertolucci era figlio di Attilio, grande poeta e cantore della Bassa parmense. Quelli come me sono gente di pianura, della grande valle del Po, dalla Lomellina, al Polesine, alla foce. Ma ci sono differenze: nelle province emiliane, non c’è la passività, quel “Stèm schiss”, che è del carattere cremonese. Ho sempre creduto che siamo influenzati (quanto non si sa) dal territorio dove nasciamo o viviamo a lungo. Dal territorio siamo forgiati, piallati, nel tempo. Nonostante la globalizzazione, internet, siamo anime che si dibattono in un fazzoletto di terra, quella dove viviamo gran parte del tempo.
“Novecento” ha raccontato un epopea di lotte, di battaglie, ma il fascismo ha fatto tabula rasa delle leghe contadine. E da allora, le campagne sono diventate un mondo abbandonato dalla sinistra politica; realtà dove il pensiero di sinistra non entra affatto, innamoratosi delle grandi fabbriche, di tutto ciò che è urbano, lasciando le campagne ad altre forze politiche, la Democrazia Cristiana prima, e poi la Lega nel Nord, e Forza Italia nel Sud. C’è un’altro aspetto, per me importante, il provincialismo, un atteggiamento mentale, una cultura chiusa e diffidente, rancorosa, che nei momenti di difficoltà economica, di invidia sociale, esce allo scoperto, e si prende il potere. E’ già successo. E il provincialismo (cosa ben diversa dall’essere un provinciale) non è pacifico di suo; è un atteggiamento gretto, una cultura misera che può far danni. Ci sono tanti universalisti, come D’Alema, per esempio, che sparano sempre contro “l’atteggiamento provinciale”, ma è gente che porta acqua proprio al mondo che dicono di voler combattere. I dissidi tra metropoli e piccole città; grandi centri e piccole realtà; tra città e campagna; tra città della costa e centri dell’interno (vedi negli Usa, in Australia), mostrano una frattura, sociale e politica che pesa. E queste differenze, questi “burroni”, questa incomunicabilità, spesso viene dimenticata.
Qualche riflessione sul fascismo locale e su Farinacci i cremonesi l’hanno fatta in occasione della recente mostra sul Premio Cremona, direi ben fatta, con catalogo molto valido ma presto esaurito e ora di difficile reperimento.
Una riflessione che ha coinvolto non pochi cremaschi.
Come lei ben sa il Premio Cremona fu voluto da Farinacci, perchè i fascisti, da sempre, hanno avuto un rapporto di odio e attrazione, per tutto ciò che è artistico, culturale, libresco, ma istintivamente, sanno che è necessario occupare il campo, influenzare, lavorare sulle menti. Per cui, ben sapendo che gli artisti se volevano lavorare, dipingere, avere spazio, successo dovevano ricevere l’approvazione dagli “esperti”; e gli stessi “esperti”, spesso, dovevano rendere conto ai dirigenti del fascio, se volevano lavorare. O magni questa minestyra o salti la finestra. Come capitò a Giulio Carlo Argan, critico d’arte, che nel dopoguerra, fu un importante figura della critica artistica vicina al Partito Comunista. C’era chi teneva famiglia, chi non era granchè coraggioso, chi ci teneva comunque a mettersi in vista. E la lista di quelli che finirono sul carro di Farinacci, oltre un’intera provincia, fu lunga.
Non mi piace semplificare, come fanno i giornali, per fare prima, perchè i lettori, vogliono risposte svelte e brevi. Salvini è fascista o no? Potrà tornare il fascismo? Domande stupide. Il fascismo non può tornare, perchè non se n’è mai andato, è un modo di pensare, una visione del mondo che in Italia, ma non solo, è ben radicato. Ma i metodi cambiano, perchè i tempi cambiano; non serve più l’olio di ricino (e Salvini sbandierando il rosario sta esagerando, e bisogna che il suo staff glielo rammenti); servono i soldi, i finanziamenti per le campagne elettorali, serve imbavagliare la stampa d’opposizione; serve condizionare la Magistratura, e avere i numeri in Parlamento. E serve, più di tutto, un motivo scatenante, che spazzi il resto: prima era l’irredentismo, i venti di guerra; oggi, i migranti, l’Africa, la Cina, e la psicosi di essere sotto attacco, di perdere l’identità. Con la democrazia alle corde, che fatica perchè i problemi sono complessi, non facili da affrontare. E il fascismo mentale, che nel nostro territorio è ben saldo, ben radicato, nei momenti di crisi, di tensione può, ridestarsi. Stajano, scrisse che resta irrisolto l’interrogativo su una pacifica comunità, quella cremonese, che in un periodo della sua storia ha violato sè stessa e la propria natura. Per me, qui Stajano si sbaglia: sotto la bonarietà, l’aria pacifica, c’è ben altro, non del tutto raccomandabile.
Sì, lei ha ragione, e credo che faccia bene a cercare di non semplificare sul rapporto tra Farinacci e Cremona, anche a proposito del Premio Cremona.
Il rapporto tra il fascismo e l’Arte fu caratterizzato da periodi diversi, aree geografiche e tematiche diverse, protagonisti diversi e stili di relazione diversi. Non a caso la mostra che ho citato si è chiamata “Il Regime dell’Arte” e non “L’Arte di Regime”, anche se un anno il tema era quello del discorso del Duce alla radio. Se lei avesse assistito alle ottime conferenze collegate alla mostra ne avrebbe avuto riscontro, soprattutto quelle di Giordano Bruno Guerri, di Rodolfo Bona e della veramente brava Donatella Migliore, che tra l’altro insegnò al liceo di Crema diversi anni fa. Insomma, mi sembra che Vittorio Sgarbi, Rodolfo Bona e il gruppo di “facilitatori” amatori d’arte retrostanti abbia dato un contributo importante proprio per meglio comprendere diverse delle dinamiche da lei così competentemente richiamate nel suo post. Per fortuna, da una ventina d’anni numerosi libri, mostre e convegni indicano chiaramente quanto, beninteso in campo artistico, si sia trattato di una “dittatura di gomma”. Certo, dopo l’inizio del regime vero e proprio, cioè dopo le elezioni del ’24, soprattutto dopo le leggi del biennio ’25/’26, l’autoritarismo littorio si fece sentire maggiormente. Ma niente di paragonabile a quanto successe in altre dittature, come ad esempio quelle nazista, comunista e maoista. La stessa vicenda del Novecento, della galleria Pesaro, dei rapporti tra il Premio Bergamo e il Premio Cremona (in pratica, tra Bottai e Farinacci) e molto altro ancora lo dimostrano. Per non parlare delle grandi opere architettoniche e della libertà artistica lasciata in madrepatria e nelle colonie ad architetti di indubbio valore artistico. Ovviamente, lo stile che allora andava per la maggiore era quello là. Ma la discrezionalità lasciata agli autori era alquanto ampia. Occorre quindi andare molto cauti e non farsi influenzare troppo da coloro che, come Guttuso, Argan (odiose le sue stroncature lukàcsiane della nostra pittura meno “socialmente impegnata”) e numerosi altri saltafosso, hanno poi cercato di rifarsi una verginità sotto l’ala togliattiana. Solo per restare a Cremona, pensi ad artisti che, come Mario Biazzi, come Claudio Monteverdi e come molti altri ancora, sono riusciti ad essere più che dignitosi sia prima che dopo la tragedia bellica.
Perché sul fascismo ho apprezzato la definizione cronologica data tempo fa da Beppe Severgnini: “una grande illusione, una grande farsa, una grande tragedia”. Quest’anno siamo nel Diciannove. E forse, di quella grande illusione ardita, sansepolcrista, fiumana, tutta al giovanile, che fu il Diciannovismo, si potrebbe dire molto e meglio di quanto detto finora.
Lei scrive cose interessanti, importanti. E del Premio Cremona ne sa, certo più di me. Sono d’accordo con la definizione “dittatura di gomma” del fascismo in campo artistico. Agli intellettuali, agli artisti, in generale, basta lisciare il pelo, dar loro un giardinetto culturale dove giocare (come l’interessante rivista “Primato”) e sono in tanti a mettersi in fila.
Conosco Giordano Bruno Guerri, fin dai tempi dell’Indipendente, un quotidiano diretto da Vittorio Feltri, Belpietro vice, e collaboratori particolari come Massimo Fini, Mughini, e altri stravaganti. Il lavoro di sdoganamento, di ripulitura del fascismo è in atto da diversi anni. Seguivo, seguo, quando riesco, quando posso (spesso nelle biblioteche, a Milano) anche riviste, giornali come era “Il Giornale Nuovo”, perchè Montanelli (che di lettori che leggevano i suoi editoriali ne aveva scarsini, anche se si abbonavano al suo giornale, lo comperavano); “Libero”, “La Verità”, e “Il Giornale” di Sallusti ( che invece è pappa e ciccia con i suoi lettori). So come la pensa Bruno Guerri. Pure com’è la pancia dei giornali della destra. Con i loro lettori, i loro elettori ho convissuto tanti anni di lavoro, e gli artigiani, i muratori, i piastrellisti, gli elettricisti che ho dovuto conoscere, i piccoli imprenditori, gli agricoltori, erano quasi tutti democristiani di destra. leghisti, berlusconiani, fascisti. Anche bravissima gente. Grandi lavoratori. Non avrebbero fatto male a una mosca. Poi, però, se li solleticavi tiravano fuori delle cattiverie cheè meglio che non le racconto. Non sono d’accordo con Beppe Severgnini che il fascismo fu “una grande illusione”. Le semplificazioni sono obbligatorie per un giornalista. A volte ci si azzecca, a volte no. Per Vittorio Foa, che stette tanti anni in carcere il fascismo, fin dagli inizi non fu un illusione. Neanche per Leone Ginzburg, che fu massacrato in carcere. Neanche per Gramsci. Tanti oppositori scapparono all’estero, in Svizzera. Salvemini negli Stati Uniti. Fu un illusione per chi non comprese, per varie ragioni, il fascismo, che fin dall’inizio picchiava, massacrava, ammazzava, come il delitto Matteotti, i fratelli Rosselli in Francia. La frase di Beppe Severgnini da lei citata, è una frase ad effetto, bella a vedersi. E ai giornalisti, tutti, piacciono le frasi ad effetto. Che poi siano realistiche è un’altro paio di maniche.
Mi sembra che lei non consideri il Fascismo come un insieme di avvenimenti, personaggi e dinamiche in un contesto storico definito da determinati perimetri spaziotemporali ma come una categoria dello spirito e del carattere, un profilo attitudinale, un modello comportamentale con caratteri di ciclicità e ricorrenza periodica, un fenomeno in costante riemergenza, quasi come il Classicismo, il Romanticismo, il Ribellismo, il Misticismo (con le ovvie differenze di merito).
Se è così, si potrebbe cercare di identificare, anche in termini socio-antropologici, la figura del soggetto Fascista, con le sue salienti caratteristiche psico-fisiche, le sue propensioni e repulsioni, le sue modalità espressive, il suo stile di vita e di relazione.
E si potrebbe tentare di comprendere quanto l’individuo Fascista sia tale a causa di processi educazionali e influenze ambientali oppure in conseguenza di originarie specificità congenite o addirittura di un risalente patrimonio genetico. Il che potrebbe indurre a una valutazione di quanto il Fascista sia tale per proprio libero arbitrio oppure per predestinazione cromosomica.
Mi chiedo se tali diagnostiche ed ermeneutiche si possano prendere in considerazione anche per altri profili umani offertici dalla storia delle dottrine e delle istituzioni politiche, come il Socialista, il Comunista, il Democristiano, il Leghista e via dicendo.
Dire che il fascismo può essere frutto di caratteristiche psico-fisiche, di un patrimonio genetico è una stupidaggine. Non ho mai scritto nè pensato roba simile. Ma andiamo spicci: il fascismo di Farinacci era il più razzista, il più duro, il più fascista d’Italia e ha trovato casa a Cremona, non in Romagna, o in Toscana. Un caso? il professor Rozzi, cremonese, ha scritto un libretto durissimo dedicato alla vigliaccheria della sua città, dei suoi abitanti durante il fascismo. E ha parlato di certe caratteristiche del territorio, umane, mentali, caratteriali, culturali che si sono prestate a far da scendiletto al fascismo farinacciano. A Crema, per esempio, quel fascismo lì, non andava bene, si preferiva quello meno violento, quello in doppiopetto. Se lei legge Guido Piovene e il suo “Viaggio in Italia” troverà una descrizione che pennella bene chi sono gli agricoltori della bassa cremonese, e come la pensano. Comunque lei conosce sicuramente la storia d’Italia, Guicciardini, la “Storia della letteratura italiana” di De Sanctis, il Manzoni, lei è persona colta, senza farla troppo lunga, lì c’è scritto in varie pagine come son fatti gli italiani, le loro proprensioni, e dove rischiano di andare a sbattere. La penso come Giorgio Bocca, siamo un paese essenzialmente servile, corrotto, dove si affollano i piccoli roditori e non mancano i grandi avvoltoi.