CHI NO CONOSC O SCUR NUN PO’ CAPI’ A LUCE!
Giornata della felicità. Non esiste celebrazione più inutile come non esiste niente di più inutile delle commemorative fiaccolate per questo o per quel morto, per quella donna violentata, per quei neri feriti a Macerata, come se la spettacolarizzazione del dolore rendesse giustizia di questo o quell’evento. Come sono inutili i palloncini bianchi che volano al funerale di un bambino, come se potesse volare via con loro e la loro leggerezza anche la nostra pena.
Come è inutile che nella Costituzione americana sia iscritto il diritto alla felicità che chissà se nel suddetto giorno da noi commemorato chiunque ne assuma il significato per una pur minima riflessione. Perché non c’è bisogno che nessuno ricordi a chiunque quell’anelito che accompagna chiunque fin dal primo respiro. Il neonato che piange già si lamenta del mal di pancia che lo rende infelice, molto prima di sapere che filosofi, poeti o neuroscienziati si sono occupati e si occupano del tema in oggetto. Come se ne occupa l’uomo comune o l’intellettuale radical chic, come se ne occupano alcune religioni, anche le più masochiste, alla ricerca di un ricettario universale. E naturalmente si parte dai classici per un excursus che arriva ai giorni nostri in un proliferare di definizioni numerose come le parole del mondo. Il vocabolario, uno qualsiasi, dà questa definizione: “Condizione di letizia, di gioia, di soddisfazione SIN contentezza: cercare, trovare la f.; evento felice, cosa che rende felici: le auguro ogni f.” Naturalmente il termine viene declinato all’infinito perché ognuno ha la propria idea di felicità: serenità, appagamento, eccitazione, ottimismo, distanza da qualsiasi bisogno. Così che la banalizzazione sempre in agguato trova a questo punto degno compimento. E difatti se nel definire un tavolo ci può essere unità d’intenti e risultati “mobile costituito da un piano orizzontale, sostenuto da gambe o piedi o supporti, di forma e materiali vari “ per quanto riguarda la felicità non può esserci nessuna condivisione. Perché non esiste niente di più individuale di questo stato d’animo. Potrei sfilare con altre migliaia di persone ma camminerei passo passo con migliaia di sentimenti . Fa da contraltare naturalmente l’infelicità e anche qui in tutte le declinazioni possibili. E anche qui naturalmente il bisogno di condividere, di far sapere, di spettacolarizzare tutti quegli stati d’animo che pare trovino compimento solo se espressi, raccontati, senza nessun pudore del bene e del male di cui siamo in balia. Perché secondo me ci vuole proprio il pudore, sia che veicoli la nostra pena come la nostra allegrezza. E il pudore è ormai scomparso, vittima di quella pornografia dell’esibire che va ben oltre le immagini di un film porno. Perché soffrire con gli altri sembra di soffrire di meno, come essere felice con gli altri di più, cioè farlo sapere, che poi è solo suscitare invidia nel caso della felicità e magari commiserazione nelcaso del dolore. Se qualcuno piange piango anch’io e allora pare di esprimere maggior coinvolgimento, abbraccio per convenzione il mio antagonista che vince e intanto io mi rodo dalla rabbia. ? Condividere, appunto. Difatti si parla di “onda emotiva”. Del resto il ruolo delle prefiche era quello di enfatizzare un dolore più antropologico che reale. Ma qui è altro discorso. “La miglior vendetta? La felicità. Non c’è niente che faccia più impazzire la gente che vederti felice.” scriveva Alda Merini. Ma allora che felicità è In tutti i casi la felicità è un tema che attaglia tutti, fin dal risveglio e per tutte le ore della giornata. Perché se esiste un termine, pur vago per definirla, a maggior ragione l’uomo è destinato a cercarla spasmodicamente. Ma il più delle volte il desiderio rimane disatteso. Provate a chiedere a chiunque se abbia mai provato un attimo di vera beatitudine. E difatti Dostoevskij si chiede: “È forse poco per riempire tutta la vita di un uomo?” e poi classificate le risposte. Virginia Woolf ha scritto: ““Ho avuto un istante di grande pace. Forse è questa la felicità.” Insomma, giusto o sbagliato che sia il nostro tempo lo spendiamo solo alla ricerca di quella cosa che non solo non si sa se esiste, ma che neppure sappiamo definire. Come Dio, per il quale in tanti diventan matti. Eppure la storia dell’uomo è fatta di queste ricerche impossibili che però non riusciamo ad arrestare. Affannati, saliamo la salita di Sisifo, qui intesa come ricerca, “Il faut imaginer Sisyphe heureux” e arrivati in cima si deve ricominciare la salita. E’ questa la fregatura: abbiamo inventato un vocabolario delle intenzioni più che della realtà, alla ricerca del migliore dei mondi possibili che alla fine è solo vedere dalla rupe il mare in tempesta in cui tribulano gli altri (Lucrezio?) illudendoci che la felicità sia quella: finchè un dolore non mi tocca direttamente sono felice. Gli altri si fottano. Allora cos’è la felicità? O anche: esistono periodi storici in cui è più facile esserlo? Mi verrebbe da rispondere che in alcuni momenti questo sia impossibile. E questo è quasi così. Dico quasi perché mai avrei voluto vivere nella Germania nazista o nell’Italia fascista. O fare come Socrate che nel distacco, altra definizione di felicità, dalle cose del mondo, ma io non ci credo, beve stoicamente, appunto, la cicuta. Insomma, anche i filosofi, antichi o moderni, ce ne raccontano delle belle. E questa è frase sulla felicità più banale di tutte: “Chi no conosc o scur nun pò capì a luce!” Evidentemente di qualcuno che non conosce l’insaziabilità degli uomini. O forse ha ragione Enzo Avitabile, o forse no. Tutti qualche dolore lo abbiamo provato. E subito dopo, passato quello, abbiamo forse riconosciuto la felicità? Ah, se fosse così semplice.
Commenti
La felicità è nella consapevolezza di un percorso vero…
La “felicità” è stata la potente droga del progressismo rampante che, dopo decenni di peregrinazioni da un’ideologia all’altra, è finita dentro la squisitezza dei Baci Perugina. Mentre l’umanità rincorreva l’inesistente, un pugno di cinici faceva affari d’oro, a questo è servita l’utopia della felicità. Ma adesso, per fortuna, cominciamo a vederci più chiaro. In linea di massima, comunque, sono d’accordo con Graziano: sul risveglio collettivo si basa l’antropologia del futuro, non c’è nessuna felicità da ricercare.
Credo invece che la frase “chi no conosc o scur nun pò capì a luce!” peschi, quasi sicuramente a sua insaputa, da un sapere molto, ma molto lontano. A dispetto delle apparenze. Ma non voglio dare vita a un pippone concettuale. Non è il luogo giusto.
Rita, tutto il sapere ha origini antiche e la leggera citazione voleva solo essere la dimostrazione che il pensiero, pur con parole diverse, esprime solo l’incapacità di andare oltre se stesso, in una continua ripetizione. Con tutti i linguaggi o a tutte le latitudini il pensiero non si è mai evoluto, e alle grandi domande l’aborigeno o il metropolitano danno tutti e sempre le stesse risposte. Cambiano solo le parole e quelle più difficili sono solo un inganno. Quindi Avitabile credo che sia giustamente citato, esattamente come il filosofo antico.
Non credo di essere d’accordo sull’affermazione “alle grandi domande l’aborigeno o il metropolitano danno tutti e sempre le stesse risposte”. Le domande (forse) sono le stesse, ma le risposte sono completamente diverse. Visto che nella fattispecie si parla di “felicità”, una parola irreale e senza alcun costrutto, non mi sembra che l’aborigeno e il metropolitano siano ugualmente “felici”: il primo dorme sereno sotto le stelle mentre per il secondo s’è dovuto inventare il Xanax. E non basta.
Il pensiero, invece, si è palesemente in-voluto, e di brutto anche.
….l’ho letta tutta, Ivano la tua “sciorinata” (ndr: ho fatto bene a insistere perchè la pubblicassi, quasi, da te!)e devo dirti che (ma, si sa io sono solo un ingegneremeccanicoconlemaniuntedigrasso, quella che, tra i mille “dotti richiami”, mi ha coinvolto di più è la citazione di quella strofa di “Mane E Mane” di Enzo Avitabile (ho avuto la fortunata occasione di sentirlo dal vivo in concerto con I Bottari anni fa a Porto San Giorgio https://it.video.search.yahoo.com/yhs/search?fr=yhs-avg-fh_lsonsw&hsimp=yhs-fh_lsonsw&hspart=avg&p=enzo+avitabile#id=1&vid=7b222d7fc5d5894bda00d3e68f33fd39&action=click ) : lui è Napoletano, scusate se è poco, ed è ….”quasi nero” ( come Pino era “nero a metà”!
Mi hai dato le bellissima occasione di ri/ascoltare quello stupendo melting pot di culture che è “Mane E Mane”, ci ho messo il link. che ….. si può provare “l’effetto che fa” (e “vengo anch’io” caro Enzo, stavolta J però!).
Cordialmente
abbiamo le stesse frequentazioni! Sul tema non entro… fin’ora è andata bene.
Intendevo, non a caso la Costituzione degli Stati Uniti, quando erano Stati, e non son più, parlava di diritto alla ricerca della felicità. Dalla farfalla all’uomo che non ci sarà così sempre sarà!
Rita, il modello culturale che tutti i popoli inseguono, volenti o nolenti, è sempre quello: il nostro. Quanto al resto mi pare che anche i primitivi contemporanei facciano uso di “integratori”. E se i tempi della Storia corressero di più anche loro sarebbero in farmacia. Le stelle non sono mai bastate a nessuno.
Dissento totalmente.
Molti “primitivi contemporanei”, che non sono primitivi bensì contemporanei perché una cosa esclude l’altra, sono stati distrutti da noi che dopo aver contratto il virus del Nulla siamo andati in giro per il mondo a infettare gli altri. Ma molti “primitivi veri” sono rimasti orgogliosamente legati al proprio mondo (o meglio “al” mondo) e “dieci sani” sono più che sufficienti per dare continuità alla specie. Il futuro non sarà per tutti, se così fosse non ci muoveremmo di un millimetro, e dunque non ci sarebbe nessun futuro ma solo un logorante infinito presente.
Immagino che “le stelle non sono mai bastate a nessuno” sia un modo di dire come “due cuori e una capanna”, o “non ci sono più le mezze stagioni”. Non mi risulta che gli uomini siano rimasti milioni di anni con la clava in mano per svegliarsi una mattina all’improvviso. Nel corso del tempo hanno fatto, detto, immaginato e costruito cose che noi non siamo più in grado di fare, dire, immaginare, costruire. Non so come si possa credere che l’umanità di oggi sia il meglio del meglio mai apparso sul mercato, visto che la realtà è sotto gli occhi di tutti. Per quanto mi riguarda, sono fermamente convinta che l’uomo migliore sia quello che c’è già stato. Ma non voglio convincere nessuno, per carità, non ho prodotti da vendere.
…e chi si fa domande sulla felicità, se non l’ha incontrata,
gli è andato molto, molto vicino.
Graziano, troppo possibilista. Chi cerca la felicità vuole risposte certe.
Un tema, Ivano, troppo grosso per me. Di questi tempi, poi, parlare di felicità è al di fuori di ogni immaginazione per la maggioranza degli uomini: forse anche per gli stessi ricchissimi che grazie alla globalizzazione e alle tecnologie digitali sono diventati ancora più ricchi: tra loro vi è già chi vive l’incubo della… ghigliottina, non ancora minacciata esplicitamente, da parte degli esclusi.
Hai fatto un cenno a Socrate: un atto eroico, quello di bere la cicuta, o masochistico, considerato che il nostro aveva avuto l’opportunità, facendo altre scelte, di cavarsela?
Piero, è la seconda volta che evochi la ghigliottina, trasferendo la dimensione della felicità da un ambito privato ad uno sociale, politico, collettivo. Anch’io (poco elegante citarsi, ma non importa) nel mio post mi chiedo se sia stato più facile vivere felici in certe epoche piuttosto che in altre. E la risposta non potrebbe che essere affermativa. In verità non so se durante o dopo la rivoluzione francese i citoyen fossero felici, forse più dei bolscevichi della rivoluzione d’ottobre, e difatti all’illuminismo dei primi seguì – epoche e condizioni diverse ovviamente – il comunismo degli altri, come se la Storia anche allora non insegnasse niente. Di fatto siamo sempre in presenza di potenti/onnipotenti più stupidi della Storia che bastava si fermassero un attimo prima (sto parlando dei potenti naturalmente, non del popolo che allo spettacolo della decapitazione ci portava anche i bambini, e intanto le donne lavoravano a maglia e gli uomini bevevano) che magari la ghigliottina l’avrebbero scampata, almeno a Parigi. Per gli zar è altra storia. Ecco, anche la vendetta in questo caso potrebbe essere sinonimo di felicità. E quindi ne abbiamo trovate altre due definizioni: potere e vendetta. Perché non finirò mai di ricordarlo, potenti morti naturalmente nel loro letto ce ne son stati pochi. Ma questo c’entra sì e no. Quindi credo che si possa affermare che anche il potere è fenomeno di felicità nonostante le conseguenze. E in verità credo lo si possa verificare anche da noi, anche senza andare al 45, dove la felicità, oltre al potere, era transitare da una donna ad un cavallo e adesso passare da una fidanzata all’altra o ad una sagra di paese. In un eterno presente. Ecco, anche il presente può dare illusoriamente un’idea di felicità. Carpe diem si dice a dismisura. Qui e ora, perché tanto del doman non v’è certezza, quindi tanto vale accanirsi o comandare oggi o vendicarsi oggi. Dopo Cristo del resto non abbiamo ucciso anche Dio? Cristo contropotere e Dio potere. In tutti i casi qualcuno che dei due nomi si è sempre sentito vittima o in pericolo con conseguente desiderio di rivalsa. Senza dimenticare il denaro che sempre ha mosso il mondo. Insomma nel banale o nell’ovvio sta la felicità. E i grandi pensatori e i linguisti la smettano di arrovellarsi per cercare chissà quale definizione. Agli uomini bastano il presente, il potere, e nella lotta di classe mai venuta meno, la vendetta. A questo punto non mi stupirei quindi se qualcuno le ghigliottine le stesse già oliando. E aggiungerei anche la bontà e la cattiveria che quando sperimentate qualche soddisfazione anche loro la danno. Che significa alla fine che tutti la felicità, in tutte le declinazioni e sfumature, l’hanno provata. Alla prossima puntata.
Ho evocato la ghigliottina perché anche tra i miliardari, quelli che appartengono all’1% dei più ricchi del pianeta – stando almeno a quanto scrive il premio Nobel Stiglitz (che questi miliardari conosce) – non si assapora la felicità, perché s ha paura che prima o poi la… pacchia finisca (e potrebbe finire male).
Una paura troppo evanescente per turbare la… felicità del presente? Forse sì, ma in questa stagione storica tutto pare correre con un ritmo frenetico. Non si arriverà, lo speriamo tutti – alla ghigliottina e neppure all’assalto del Palazzo d’inverno a cui tu hai fatto riferimento, almeno in maniera violenta, ma prima o poi le disuguaglianze sociali, quelle che non sono giustificate da meriti personali, gridano vendetta.
Si può inseguire una felicità privata? Qui entriamo nella soggettività e ciò che è felicità per alcuni non lo è per altri.
Anche se non interessa a nessuno io insisto sul concetto di felicità. Concetto che superficialmente ha la connotazione di sentimento, emozioni positive. A parte l’effimero e la paura che subito dopo finisca, insomma una bella ambivalenza, a me interessa il momento in cui da positiva, armonia col gli altri, con la natura, pace con se stessi, col mondo, diventa negativa. E procedo, e forse mi ripeto, con esempi banalissimi: il dittatore che dopo un colpo di stato prende il potere, il sadico che infligge, l’inquisitore che tortura, il terrorista che fa saltare in aria un treno, o una banca o una manifestazione di piazza, saranno felici subito dopo? Io immagino di sì, se si dà per scontato che ognuno cerchi il bene per sé, anche se procura male agli altri. Ancora: la felicità è dei buoni o lo è anche dei cattivi? Il politico che vince le elezioni senz’altro è contento, anche quando non si è candidato per il bene comune, ma solo per smania di potere. Il ricco e potente di cui parla Piero, in una vita blindata per paura di piccole o grandi ritorsioni come può esserlo in una limitatezza fatta di guardie del corpo, muri di casa insormontabili, sospetti anche verso le persone vicine? Che senso ha una felicità così limtante? Se mai la leggenda fosse vera: Nerone che declama versi e strimpella la cetra, versi orrendi e corde stonate, intanto che Roma brucia sarà stato felice? Io Immagino di sì.
Inizia cosi una poesia tratta dal film “Il posto delle fragole “di Ingmar Bergman ( 58)
“Dov’è l’amico che il mio cuore ansioso ricerca ovunque senza aver mai riposo ?…”.
E inizia cosi una poesia di un poeta cremasco:
” Nel profumo della scorza di un punto perso fra le galassie e l’ignota oscurità.
si muove la storia del nostro desiderio…”.
Mica vero, Ivano che non interessa a nessuno, però è un pò come andare a funghi, il segreto è ….”andà ‘ndù i ghè!”
Ti lascio una dritta: link https://www.raiplayradio.it/audio/2019/04/quotLettere-a-Umberto-Galimbertiquot-8608b767-5978-43ec-b8db-715a19d3368f.html
Cordialmente
Consiglierei il discorso di Vasco Rossi, alla sua laurea sulla comunicazione,nel 2005
Grazie. Lo cercherò.
Felicità: sospensione del sottofondo di costante disagio basale, che talvolta strabocca nell’euforia o si limita ad accarezzare l’attesa dell’evento appagante in una forma di automedicazione. Un trucco della natura per portare avanti le sue finalità di espansione del lievito chiamato vita di cui ognuno di noi è temporaneo acccessorio, come palle e luci intermittenti di un albeo di Natale in perenne espansione.
Definizione scientifica con un tocco di nostalgia infantile. Ma allora il famoso equilibrio dove sta? Come nel deserto dei tartari, in balia della casualità degli eventi, delle circostanze o del mistero. Forse nel nostro vocabolario infarcito di eufemismi si dovrebbe soffermarsi di più nel vago che è tutta l’esistenza. Senza illusioni di nessun tipo. Per me si va nella città dolente……qui è ora. Senza essere troppo drammatici naturalmente. A meno che non si ritorni a credere nel paradiso. Anche se l’aver creato l’aldila’ ha tolto significato all’aldiqua. Secondo me. Ma qui si torna a parlare di quel delirio che sono le religioni pesanti come macigni in tutte le loro declinazioni terrene. Del resto abbiamo due Papi in contemporanea. Si mettessero d’accordo almeno loro.
Caro Ivano
vedo che siamo arrivati al nucleo centrale della filosofia e della vita. E nessuno ne esce. Tuttavia ho smesso da tanto tempo le riflessioni sulla felicità perché mi sono concentrato sul concetto di soddisfazione, come appagamento non nel far vibrare le corde verso toni celestiali, ma nell’accordare secondo le esigenze con la consapevolezza di aver fatto il proprio dovere, di essere stato al gioco secondo regole giuste, che non sono quelle degli altri, ma quelle intrinsecamente coerenti di ogni individuo. E allora ti rendi conto che ricerca della felicità può far rima con stupidità, ma soddisfazione… oddio, può far rima con co-ni-glione!
Caro Adriano, non so se siamo arrivati al nocciolo della questione, se mai esiste. E sembrerebbe anche analisi da bontemponi una riflessione sui massimi sistemi, quando il contingente è fatto di mitra in mano, rigurgiti ideologici di tutti i colori, un annaspare continuo da parte di molti, tra pessimismi da tragedia greca e ottimismi intestinali. Perché io credo che aver agito sempre in buona fede, secondo valori morali di ognuno, e già l’ognuno genererebbe dubbi insindacabili, non sia sufficiente vivendo il mondo sentendosene parte. Il padre che ha cresciuto con risultati discutibili un figlio trova sempre la giustificazione dell’aver agito in buona fede e per il bene dell’altro. Allo stesso tempo il disincanto di non credere più nella ricerca del migliore dei mondi possibili ha lasciato spazio al cinismo o scetticismo contemporanei, fatto appunto di quelle soddisfazioni personali di cui tu parli, come approdo che forse è solo autocompiacimento, senza riuscire ad inscrivere il nostro in quel tutto grande come il mondo. E qui entrerebbero in gioco l’ambiguità del sentirsi in pace con se stessi di cui parlava Livio Cadè tempo fa. Perché mi sono ricordato di un post di Livio che dopo affannose ricerche in archivio ho ritrovato, non funzionando l’opzione cerca. E non se ne abbia a male se ne riprendo alcune righe che ne rivelerebbe la vocazione ascetica se mai fosse credibile. Livio dice: “Né bisogna immaginare che questi problemi riguardino l’individuo come essere isolato. Ogni uomo è infatti legato da un’infinità di fili invisibili alle cose e alle persone. L’equilibrio interno si estende in realtà in un equilibrio molto più vasto con quel che è esterno o, per essere più precisi, con ciò che l’uomo porta dentro di sé come riflesso di altre individualità, come relazione col tutto.” E su questo potrei essere d’accordo. Io penso sempre, o mi chiedo: “Immaginate se ognuno di noi non esistesse, con le relazioni tessute, i figli fatti, le cose fatte e dette. Verrebbe da chiedersi se l’equilibrio del mondo sarebbe lo stesso. E dal momento che esistiamo, senza quella compagna, sorella, fratello, amico, saremmo gli stessi o saremmo altro? E gli altri sarebbero uguali senza di noi? “. Naturalmente Livio dice chela felicità è assenza di dolore e continua dicendo che come la malattia la si riconosce immediatamente la felicità rimane nascosta. Si deve darle un nome direi io. Altrimenti la si classificherebbe come quel fluire di cui non ci rendiamo conto di cui è fatta l’esistenza, tra acque placide, rapide e pietroni d’inciampo. E poi ancora dice che la felicità non è qualcosa estraneo a noi. E su questo io non sono assolutamente d’accordo. Non si è mai naturalmente predisposti ad accogliere quello che le circostanze della via ci riservano. Ma si sa, io sono un materialista, e credo solo a quello che vedo. Vedo che qualcuno piange, che qualcuno ride e altri sorridono. Ma altri che ancora si disperano, si suicidano, inveiscono contro il mondo, altri che magari ringraziano, pochi, non avendo nessuno, o quasi, superato l’egocentrismo infantile nella ricerca della risposta soddisfacente e immediata. Livio poi è anche più estremo quando dice che “Se vogliamo essere felici dobbiamo esporci a rischi e fatiche, sottoporci a rinunce e privazioni sia fisiche che morali. E non dobbiamo fuggire di fronte al dolore. Se si abbandona questa pratica le nostre facoltà si atrofizzano e noi perdiamo la forza di opporci alle contrarietà che la vita presenta.” Naturalmente io ho sempre il sospetto che la nostra grande firma ci, anzi, ci abbia ingannato continuamente facendoci confondere tra esercizio letterario o filosofico e la vita reale. Che anche la sua, immagino, faccia i conti con il quotidiano fatto di piccoli o grandi incidenti. O altrimenti raggiungere quello stato, come dice Livio, di accoglienza di tutto ciò che accade semplicemente perché la vita è fatta di quello che capita. Anche se io non ho mai conosciuto nessuno così filosofo. Per concludere: essere felici o infelici ha tutte le ragioni d’esserlo. E non si deve aver paura di manifestarlo qualunque siano le cause o ragioni, magari ingenue o superficiali che siano. Ripeto, io sono di questo mondo e non ne conosco altri. Tutte le debolezze o incapacità di ognuno hanno pari dignità. E mai arriverei o consiglierei di togliere dal nostro linguaggio non solo la felicità, ma anche l’infelicità. Anzi credo che la seconda vinca sempre quantitativamente sulla prima, o per lo meno credo che sia più facilmente riconoscibile. Il fuori di testa sofferente lo si riconosce all’istante, la persona felice mai. Desta sempre qualche sospetto.