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RITA REMAGNINO

L’età dell’innocenza

Come molti della mia generazione sono cresciuta a pane e manifestazioni studentesche, non ignoro pertanto la strumentalizzazione delle stesse. Gli studenti sono importanti pedine del soft-power, il sistema escogitato dopo l’ultima guerra mondiale dai vincitori statunitensi e inglesi per influenzare le culture del mondo. Ingenti finanziamenti sono stati stanziati a questo scopo nel campo del giornalismo e dell’editoria, della cinematografia e della discografia, della cultura e della scuola, così che al ritmo del rock’n’roll milioni di giovani occidentali hanno marciato nell’ultimo mezzo secolo praticamente per ogni cosa.

Credendosi degli innovatori, i contestatori di turno non hanno mai sospettato che la tentata rivoluzione non fosse opera loro e, forse, è stato meglio così. Pochi sono a conoscenza del “Secondo Manifesto della società umanista” che in tempi non sospetti (1973) pianificò a tavolino i principi generali del cambiamento. Le dottrine politiche come quelle religiose costituivano ormai un ostacolo al progresso umano e, pertanto, etica e morale dovevano essere svincolate da qualsiasi principio per fare posto agli «interessi umani», che quasi sempre coincidevano con gli interessi economici. Il sesto punto del Manifesto affermava il diritto all’aborto e al controllo delle nascite, insieme alla libertà sessuale, mentre il settimo sosteneva l’eutanasia, senza dimenticare naturalmente la spinosa questione della “privacy”.

Nel corso dei decenni ogni istanza del «progetto umanista» è riuscita a portare in piazza folle oceaniche di giovani convinti dell’efficacia della democrazia diretta e della capacità coercitiva delle loro proteste, ritenute capaci di forzare la mano a chi di dovere, quando invece le «svolte» più importanti erano già state approvate della società pensante e dirigente per la quale nel secolo scorso fu coniato l’emblematico termine “bright and best”. Armati di un sano e giovanile fervore gli studenti hanno marciato innumerevoli volte al grido di “questa è la nostra battaglia”, ignari del fatto che proprio quella battaglia fosse invece di qualcun altro. Bastava poco per infiammarli e lanciarli nel turbine delle rivoluzioni: sessuale, psichedelica, operaia, radicale, colorata, new age, naturista, alimentare.

La «rivoluzione verde» che oggi abbiamo sotto gli occhi è solo l’ultima in ordine di apparizione e la ragazzina che la impersona, Greta Thunberg, fa una tale tenerezza che gli adulti sono persino disposti a perdonarle che mangi cibo confezionato e consumi a vario titolo schifezze industriali che inquinano l’ambiente. Non si può avercela con quella faccetta pallida alla Pippi Calzelunghe, ma se anche Greta ci piace non siamo «gretini». Non del tutto, almeno. Sappiamo che dietro questa adolescente affetta da sindrome autistica c’è tutto un apparato magistralmente gestito da Ingmar Rentzhog, esperto di marketing e pubblicità, e sostenuto da Bo Thorén, rinomato rappresentante del movimento ambientalista internazionale “Extinction Rebellion”. Sappiamo anche che Greta (nell’Era di internet le immagini sono a disposizione di chiunque) ha pronunciato il suo famoso discorso alla conferenza di Katowice davanti a sedie vuote, segno evidente di un disinteresse politico, e perciò è inutile che i media tentino di darci ad intendere che abbia parlato di fronte a un pubblico entusiasta.

Senza voler mettere in dubbio la sincerità della giovane studentessa svedese, tocca concludere che non sarà lei a cambiare i comportamenti scorretti dell’uomo, né ci riusciranno i ragazzi che ogni venerdì «bigiano» la scuola per impugnare il cartello “sciopero scolastico per il clima”. La mobilitazione della Vecchia Europa serve a poco se non vi partecipano anche i rampanti Paesi extraeuropei, che di fare marcia indietro proprio non ne vogliono sapere. Sappiamo tutti che le cose stanno così. Perché, allora, i politicanti europei e in particolare quelli appartenenti alle minoranze socialdemocratiche sembrano aspettarsi grandi cose dai sit in della piccola Greta? Ci sono, ci fanno, oppure in previsione delle elezioni europee di maggio credono sia meglio competere con i pacifici «verdi» piuttosto che con i più agguerriti «populisti»? Negli ultimi decenni, in effetti, la protesta verde non ha dato alcun fastidio a quanti erano impegnati a distruggere, inquinare e fare soldi. Ci pensino gli studenti e, se non vogliono rimanere solo «sulla carta», si diano da fare, non sarebbe una cattiva idea, ad esempio, se il venerdì andassero in giro per le città a raccogliere bottiglie e cartacce invece di scandire slogan. Si renderebbero se non altro più credibili.

RITA REMAGNINO

18 Mar 2019 in Ambiente

3 commenti

Commenti

  • Si, anch’io vedrei assai meglio che la “bigiata del venerdì ” evolvesse in “ecoazioni” tanto eclatanti quanto concrete, magari con richiamo alla amministrazione comunale a collaborare fornendo un supporto logistico operativo concreto ed efficace.

  • Cara Rita, anche se tutto il mondo come te se ne andasse meritevolmente in giro a piedi non avremmo spostato di molto il problema. Le scelte necessarie per allontanarci dal baratro quel tanto che la tecnologia nuova possa arrivare in tempo per soccorrerci sono talmente radicali che solo un’insurrezione planetaria può avere efficacia. Anche questa piccola goccia giovanile porta acqua al mulino, che sprofonderà comunque, o almeno si iclinerà paurosamente, ma proviamoci!
    Ultimo che si è espresso in tal senso un professore del Politecnico di Milano direttore del Dipartimento di “rallentamento del cambiamento climatico” o qualcosa di simile, e non ricordo il nome (RAI auto). La cosa sarà così rapida da far mordere la lingua a a chi ha fatto lo scettico, perché per la prima volta sarà ancora in vita! Ache se ci sono obiettivamente elementi di dissenso sul comportamento giovanile medio uniamoci al consenso, noi colpevoli!

    • L’insurrezione planetaria che servirebbe non è certo quella degli studenti con il cartello “Fermate le emissioni”, “Salvate vostra madre [Terra]”, “Sciopero per il clima”, e via dicendo. Pur mettendo in discussione l’attuale modello di sviluppo, ritenuto responsabile del degrado ambientale, queste manifestazioni sono ancora troppo legate all’«ecologia superficiale» che si limita a proporre l’avvento di una tecnologia più avanzata che si ponga come alternativa di una tecnologia ormai superata. La loro visione del mondo è ancora saldamente assicurata all’obsoleta concezione antropocentrica che vede nella Natura un qualcosa che è al servizio dell’uomo e come tale va protetto: l’eccessivo degrado potrebbe nuocere agli interessi umani e perciò bisogna intervenire, possibilmente prima che sia troppo tardi.

      Completamente diverso è il discorso che riguarda l’«ecologia profonda», il cui punto di partenza è invece la concezione biocentrica: l’uomo appartiene alla Natura, essendo legato ad ogni forma di vita da un rapporto di interdipendenza. Determinare i limiti di inquinamento non basta, bisogna rifondare il rapporto Uomo-Natura.
      L’ecologia superficiale agisce sugli effetti.
      L’ecologia profonda agisce sulle cause.
      Mentre la prima, per ragioni strettamente anagrafiche, può essere definita «moderna», la seconda rappresenta senza ombra di dubbio «l’antico che ritorna», e cioè il futuro, che andrebbe ri-pensato in termini di superamento degli attuali valori di utilitarismo, individualismo, produttivismo, consumismo. Si tratta, in buona sostanza, di una cultura allo stesso tempo conservatrice e rivoluzionaria che comprende l’urgenza di passare dalla «logica del più» alla «logica del meno». Secondo te, Adriano, i «ragazzi del venerdì» sono consapevoli di tutto questo? E chi li sta usando, è consapevole o sta solo cercando un posto al sole?

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