Il volume “Correva l’anno 1768” di Valeriano Poloni, che sabato 9 dicembre verrà presentato in sala Cremonesi può essere considerato a tutti gli effetti una strenna storica (per la documentazione raccolta) e cartografica (per i disegni d’epoca con le attendibili ricostruzioni). In otto capitoli vengono rivissuti e proposti tre importanti fatti accaduti in Crema nel lontano XVIII° sec. :
– lo scoppio e la distruzione della “fabbrica della pesta” (il polverificio, dove si fabbricava la polvere da sparo),
– la sua riedificazione (in prossimità della roggia Comuna, a Nord del tempietto dei Morti delle Tre Bocche)
– il miracolo del SS. Crocefisso, ovvero il principio di incendio alla polveriera (luogo dove si conservava la polvere da sparo).
Già queste premesse potrebbero essere di per sé bastanti ad invogliare gli Ombrianesi ad accostarsi all’elegante volume ma una serie di considerazioni, squisitamente antropologiche,
ne consiglierebbero l’attenta lettura a tutti. Infatti alcune problematiche che affliggevano i nostri antenati sembrano essere cambiate apparentemente solo nella forma ma non nella sostanza.
Alla passata pericolosità dei depositi e delle fabbriche di polvere nera si sposa l’odierna insalubrità prodotta dagli scarichi di polveri sottili.
Alle lamentazioni per personaggi equivoci che, senza preavviso, rovistavano cantine e case per raspare salnitro, fanno attualmente coro le funeste intrusioni, oggetto di ben altre attenzioni riguardanti il patrimonio privato.
Gli animali sono belli ma sporcano e il lavoro (deiezioni) delle pecore impiegate nella produzione di polvere pirica procurava invettive non meno pesanti di quanti oggi si imbattono in robuste secrezioni canine.
Se si deve trovare un accordo comune per ricostruire o costruire un’opera pubblica (il polverificio ieri, il sovra-sottopasso oggi) le inconcludenti diatribe non si esauriscono.
Quando capitano le catastrofi, dovute al genetico mester cremasch, le colpe sono sempre quelle degli altri e gli atti di sciacallaggio, come quelli di eroismo, non mancano mai.
Penso che l’autore Valeriano Poloni non me ne vorrà se anziché soffermarmi su dettagli specifici al libro, che verranno adeguatamente sviluppati al momento della presentazione, mi sono soffermato su considerazioni del tutto personali, ma che mi hanno fatto capire come anche un libro di ortodossia storica riesca ad essere d’attualità nel riportarci ai grandi e piccoli fatti della quotidianità corrente.
Commenti
Conosco, Walter, Valeriano Poloni, anche sulla base di altri suoi studi, e mi attendo un lavoro di alto profilo e per noi una vera e propria scoperta storica.
“il lavoro (deiezioni) delle pecore impiegate nella produzione di polvere pirica…”
Me lo spieghi Walter? Ero rimasto all’infiammabilità del metano prodotto dall’intestino, ma l’espolosività mi coglie impreparato! Salnitro concentrato dalle feci?
Per il lavoro complimenti all’Autore e a te che lo diffondi.
Caro Adriano delle tre componenti utilizzate per produrre polvere da sparo: carbone, zolfo e salnitro quest’ultimo risultava più difficile da trovare, stante la scarsità dei depositi naturali di nitrato di potassio ed anche per le difficoltà connesse alle procedure estrattive. Vennero quindi ideate le nitriere o tezoni , vere e proprie fabbriche per l’estrazione del salnitro “artificiale” che avveniva attraverso un lungo processo di trattamento delle terre “condite” con le deiezioni animali. Solitamente erano le cosiddette “pecore pubbliche” e a Crema se ne contavano più di 200. I loro giornalieri escrementi andavano ad ingrassare il terreno preposto. Ma non essendo un tecnico non voglio procedere oltre né toglierti il piacere di proseguire, con la lettura, il sofisticato processo di lavorazione che Poloni descrive nei minimi dettagli.
Un pubblico delle grandi occasioni.
Una presentazione sapientemente organizzata: uno studioso (Dado Edallo) che ha letto il libro in chiave antropologica, un altro studioso (Walter Venchiarutti) che ha fatto una puntuale disamina del contenuto del libro, soffermandosi soprattutto sui due incendi, sulla collocazione topografica del polverificio e della polveriera), un’attrice-lettrice (Rosellina Poloni) che ha letto con grande maestria ampi brani di storici cremaschi) e, finalmente, l’autore stesso che ha ringraziato tutti quanti – da studiosi agli sponsor – hanno reso possibile lo sviluppo della ricerca e la sua pubblicazione.
Crema dovrebbe essere fiera di studiosi appassionati e rigorosi come te, Valeriano.
E’ grazie a questi studiosi che man mano scopriamo pezzi della nostra “storia locale”, ricostruiamo cioè la nostra “identità”.
In un mondo sempre più globalizzato e sempre più standardizzato, abbiamo bisogno di recuperare la nostra identità, la nostra “specificità”.
E poi lo studio del nostro passato non può che aiutarci a capire in che misura siamo “progrediti” e magari che cosa – nonostante il nostro progresso – abbiamo perduto.
Io (ma anche Walter) lo sto sostenendo da tempo: abbiamo bisogno di una “cabina di regia”, da affidare a un docente universitario, che stimoli e coordini le ricerche su tutto quanto non è stato ancora esplorato.
Sono ammirevoli gli studi dei non pochi soggetti (tra cui la stessa rivista del museo, Insula Fulcheria) che fanno storia locale, ma quello che manca – credo – è proprio questa cabina di regia: questo non solo per colmare i vuoti, ma anche per elevare il rigore della ricerca storica.
….facendomi forza per nn abboccare allo “stimolante” (oddio!) trappolone lanciato da Adriano/Walter, mi allineo alla linea (ma si può?!?) più saggiamente ….. paludata di “padron Piero”!
Illo tempore era stato fatto un pregevole tentativo (rimasto purtroppo appunto un “tentativo” senza seguito alcuno) con il dott Sellino, al CCSA. Boicottato e messo nelle condizioni di non poter lavorare e quindi …esiliato dalla “repubblica del tortello”!
Con le dovute circospezioni (circum spicio, quando si dice la grande saggezza del lessico latino!) la linea ( amò?!?) del rinnovato Assessorato alla Cultura (si, la maiuscola se la merita!) potrebbe riprovare a deviare dal “folklore” e passare più vicino, in modo …. “sistematico” giustappunto alla “Cultura”?
L’hanno detto e ridetto che “con la cultura non ……”, ma per “quelli che mangiano” si sta già facendo anche troppo no? Quindi, in questo senso, no problem!
Effacciamola sta “deviazione” dai….
L’ho finito di leggerlo questa mattina, Valeriano.
Non mi permetto certo di fare una recensione (non ne sarei all’altezza), ma solo di esprimere alcune considerazioni a margine (da semplice profano: non sono né storico né critico letterario).
Umanissimo è l’incipit: la nascita di una curiosità e di una passione che nel tempo si concretizzano in una seria ricerca storica.
Umanissima la dedica.
Un apparato fotografico curato con gusto (del resto, sei sempre stato un fine fotografo, già dai tempi della tua collaborazione a CremaProduce, o meglio ancora un poeta della nostra campagna e della sua flora).
Scopro anche la mano (inedita) del disegnatore: ne hai di talenti!
Trovo una straordinaria bibliografia: più di 100 i libri che hai consultato.
Leggo inoltre che sei andato a scavare negli archivi più vari: perfino archivi di Stato (da Venezia a Modena a Milano) e numerose biblioteche.
Una ricerca, quindi, la tua ben radicata nelle fonti.
Il linguaggio, poi, da accattivante nell’introduzione (hai bisogno di catturare il lettore) diventa il linguaggio rigoroso dello storico, di uno storico che, una volta ha inquadrato storicamente il tema, si immerge dei documenti specifici, lasciandoli “parlare” direttamente (ampli sono gli stralci dei documenti in questione).
Il testo non trascura nulla, neppure gli aspetti tecnici che offrono al lettore gli strumenti di base per capire la complessità delle lavorazioni richieste da un polverificio del Settecento. Sono, anzi, questi aspetti tecnici che ci squarciano l’orizzonte e danno uno “spaccato sociale” dell’epoca.
Man mano che la ricerca procede, il linguaggio si fa tragico e quello che si apre è in effetti una tragedia.
Noto che il linguaggio è “fedele” al linguaggio del tempo (trovo non poche parole oggi per lo più scomparse che qui invece abbondano).
Vedo, soprattutto nelle note, tanta storia di Crema: una storia nella storia, inquadrata anche nel contesto internazionale.
Ti soffermi non poco sul tema della sicurezza (tema sul quale, oggi, per fortuna, la sensibilità sociale e politica è cresciuta).
Vedo che tutto è approfondito, anche ciò che appare a margine (come le precipitazioni atmosferiche e la portata dei corsi d’acqua, come gli aspetti architettonici degli edifici e delle opere idrauliche).
E osservo che ogni notizia è vagliata da più fonti.
Il tuo è il linguaggio obiettivo dello storico, ma talora ti tradisci esprimendo sferzanti giudizi: vedi, ad esempio, a proposito dei giacobini francesi.
Un… signore libro: complimenti!
Hai scritto una pagina che per oltre duecento anni è rimasta pressoché bianca (mi riferisco a una ricostruzione così approfondita): è l’intera comunità cremasca che dovrebbe ringraziarti per questo dono prezioso.
Carissimo Piero, ho letto e molto gradito il tuo sentito e motivato apprezzamento sul mio saggio. Per quanto riguarda i “giacobini francesi”, ti partecipo che mi sono espresso compendiando benevolmente e con un pizzico di ironia, le amare ma realistiche cronache del tempo, che testimoniano come fossero “molto amati” dai cremaschi dell’epoca (popolazzo compreso) gli invasori della coccarda tricolore, i “liberatori” delle tirannidi monarchiche che consegnarono – con il trattato di Campoformio – la mite repubblica aristocratica marciana, negli aguzzi artigli dell’aquila bicipite asburgica. Frequentando archivi e manipolando fonti documentali originali, mi sono da tempo fatto un’idea sulla storia cremasca (e sulla storia in genere) un po diversa da quella che solitamente insegnano a scuola. Con stima, Valeriano.
Non frequento come te gli archivi, Valeriano, ma condivido il tuo punto di vista: da quando mi sono deciso a consultare alcune pagine della nostra storia locale (in particolare le carte dell’Archivio comunale e dell’Archivio diocesano), ho rivisto anch’io i miei giudizi sulla storia.
La storia è più complessa di quanto spesso immaginiamo perché è la realtà che è sempre più complessa delle nostre categorie (o pregiudizi) con cui incaselliamo tutto.
Categorie che possono portarci a… semplificazioni manichee.
Proprio oggi ho letto sulla Provincia l’appello dell’Anpi al sindaco di Crema e al presidente del consiglio comunale perché venga revocata la cittadinanza onoraria data dalla Giunta comunale a Mussolini nel 1924.
So che bene che si tratta di un appello dal valore altamente “simbolico”, ma non vedo alcun senso “storico”: quella delibera va inquadrata in quel preciso periodo.
“Giudicare” i fatti del passato con le categorie di oggi può avere un valore politico, ma nient’altro.
Per comprendere la storia, non possiamo fare “violenza” al contesto storico.
So bene, comunque, che il confine tra “comprendere le ragioni” di scelte del passato e “giustificarle” è molto labile, ma il confine c’è.
Lo storico ha il compito di trovare quel difficile equilibrio che lo conduce a evitare di cadere sia nella trappola del “giustificazionismo” che della “condanna” in nome di categorie improprie.
Prendo lo spunto, Valeriano, dal tuo giudizio severo sui giacobini per esprimere una considerazione in chiave attuale.
Siamo per certi versi distanti da quella cultura, ma per altri vedo una profonda sintonia col clima rivoluzionario di quel tempo.
Pensiamo al malessere diffuso, al manicheismo dei politici, alla violenza del linguaggio, alla cultura del giustizialismo.
I giacobini, anche se non figli di Rousseau, ci sono ancora e sono collocati in più partiti sia di destra che di sinistra: stanno davvero intercettando le profonde aspirazioni di giustizia sociale della povera gente o altro non fanno che giocare alla rivoluzione per puro calcolo elettorale?
Anch’io ho apprezzato questo libro di Valeriano Poloni. È una ricostruzione accurata, ben documentata, munita di molti e puntuali dati e riscontri su elementi davvero interessanti. Ma è anche un racconto sobriamente evocativo di un mondo, di un tempo, di una realtà del nostro territorio e della nostra vita ormai quasi scomparsi e richiamati dall’autore, con un poco di nostalgia appena sotto traccia, nelle loro coordinate istituzionali, civili e religiose. In particolare, si avverte una vibrazione di tono, quasi una sorta di affetto narrativo per la repubblica veneta e per i lunghi, felici tre secoli e mezzo in cui noi cremaschi abbiamo beneficiato dei nostri privilegi militari e politici di gente di confine, di combattenti di frontiera, di uomini d’armi ma anche di commerci e di contrabbandi, di persone formate su modelli familiari di civiltà e di bellezza, di gioia di vivere, di libertà, di avventura. Venezia non volle sempre dirci e darci cose positive. Ma Valeriano Poloni riesce a convincerci che, se mai ci fu un periodo d’oro per Crema, fu proprio quello di San Marco.
(Sui giacobini, caro Piero, occorrerebbe evitare di dire al popolo senza pane di mangiare brioche).
Quanto alla cittadinanza cremasca riconosciuta al Mascellone e alla richiesta di revoca, ti segnalo, Piero, la lettera di Antonio Agazzi sul Torrazzo di oggi. E sposto un prossimo eventuale commento in proposito, per pertinenza tematica, al tuo altro articolo corredato dalla foto, piuttosto sarfattiana, del succitato Spadaccino dell’Islam.
Sarebbe, interessante, Pietro, fare un confronto tra il diffuso malessere di oggi e il clima rivoluzionario del 1789 in Francia: non troveremo regine e nobili che disprezzano il popolo, ma forse ci imbatteremo in figure altrettanto odiose o, comunque, altrettanto distanti – in termini di reddito e di patrimonio – dal popolo (e non mi riferisco soltanto alla classifica recente degli uomini più ricchi del mondo).
Lo penso anch’io, Piero, sarebbe un confronto molto interessante.
Il fatto è che, rispetto al Primo Stato e al Secondo Stato di allora, parassitari e rentier, oggi chi detiene patrimoni clamorosi è meno facilmente ascrivibile a categorizzazioni e meccanismi unificanti. E se i girondini, i montagnardi (tra cui i giacobini) e altri erano quasi tutti espressione di un Terzo Stato sempre più organizzato, oggi che i ruoli si sono ribaltati non ci sono un Quarto Stato coeso o un Lumpenproletariat marxiano in grado di fare alcunché, visto che proletariato e sottoproletariato si assimilano e si integrano appena possono, imborghesendosi. Insomma, il modello non funziona più (ammesso che abbia mai funzionato) e l’unica rivoluzione rischia di diventare quella inter-etnica, inter-religiosa, inter-qualcos’altro, non basata su criteri di giustizia e libertà ma su quale Costume sociale o quale Libro rivelato abbiano ragione.
Un bel passo indietro. Dovuto anche all’agonia della politica. Per cui, il problema economico, quello vero, resta sul tappeto, irrisolto. E intanto ci si accapiglia su Sharia o Presepe, Renzi o Cuperlo, persino in quali cavità è lecito o meno infilare certe convessità. Buon anno, Piero.
Concordo, Pietro.
La situazione è ancora più complicata se pensiamo che il ceto medio (questo perfettamente in sintonia con le previsioni di Marx di quasi due secoli fa) si sta proletarizzando per effetto combinato di globalizzazione (come è stata gestita) e di applicazioni crescenti di tecnologie digitali che spiazzano certe professioni.
La situazione, poi, è ancora più complicata anche perché, rispetto a un tempo non lontano, gli “indignati” ovvero le “vittime” si affidano a forze politiche con orientamenti anche molto diversi (leggo proprio oggi sulla stampa i programmi dei vari partiti a confronto).
Buon anno anche a te (e, naturalmente, a tutti gli amici di CremAscolta)!
Ma da che mondo è mondo le classi sociali si sono sempre rincorse. Ora non esistono più, ed è questo il guaio. Allora quale rivoluzione potrebbe avvenire? Certamente non economica, forse in Iran dove ancora si assiste all’assalto ai forni, e magari potrebbe succedere anche da noi tra poco, ma al punto della nostra Storia solo una rivoluzione culturale potrebbe cambiare lo Stato delle cose, ma i tempi non sarebbero quelli dell’assalto alla Bastiglia, e meno male che c’è stato, che almeno per un paio di secoli si è saputo contro quali nemici combattere, ma adesso? E se anche fosse possibile una rivoluzione culturale sarebbe realistico pensarla localmente? Certamente no in questo mondo globalizzato, e il potere non lo permetterebbe, e si farebbe un baffo di forconi o libretti rossi o notti bianche. Quindi? Battaglie ecologiste, decrescita, sobrietà dei consumi, potrebbero mai trovare incidenza quando ancora oggi lo stordimento consumistico continua ad obnubilarci? Del resto non sono bastate poche, anche se non realistiche, rassicurazioni economiche, a rimettere in moto tutto? E i dati di questi giorni lo confermano: stazioni sciistiche, città d’arte, aeroporti stracolmi, grandi feste nelle piazze. E se fosse tutto un fuoco di paglia? E nel frattempo, se anche una cambiamento radicale di usi e costumi, volente o nolente, fosse auspicabile, nel frattempo, ripeto, cosa potrebbe accadere? Perché i tempi della Storia non sono i tempi del contingente e del quotidiano, non si ha tempo di aspettare! E non si tirino in ballo le Tradizioni, niente è riproponibile tale e quale.
Guarda Ivano che in piazza a Teheran c’erano duemila persone, fracchiamente pompate dai media-fake-occidentali (ormai c’è internet, tutti possiamo vedere tutto). Gli iraniani non sono “senza pane”, stanno meglio di noi. Semplicemente gli ormai disperati Israele-Usa devono far pagare a qualcuno la disfatta in Siria … e chi meglio dell’Iran. Da che mondo e mondo le piazze sono state aizzate dai servizi segreti avversari, non sei nato ieri neanche tu, dovresti saperlo. Chiediti, caso mai, perché se digiti in Google questa notizia non la trovi.
Libertà, democrazia, progresso.
Carissimo Piero,
vorrei serrare la questione del mio (da te supposto), “sferzante giudizio” (in seguito mitigato in “severo”) sul comportamento dei giacobini francesi, riportando di seguito quanto scritto alle pagg. 218-221, onde permettere agli eventuali frequentatori del post che non hanno avuto modo di leggere il libro, di trarre al riguardo le loro conclusioni : “L’epilogo della dominazione veneta, determinato dall’invasione dell’esercito “liberatore” francese al comando del “piccolo borghese di Aiaccio”, vide Crema – sentinella d’occidente della oramai decadente repubblica marciana – spalancare per prima le porte della sua città ai dragoni d’oltralpe dalla coccarda tricolore. Era la fine del mese di marzo del 1979: a seguire, il giorno 12 del mese di maggio dello stesso anno, l’imbelle capitale lagunare – rimasta pavida e in vestaglia da notte a osservare gli eventi – formalizzava la sua resa incondizionata agli avidi predoni giacobini. Con l’arrivo dei francesi, cessò – dopo quasi tre secoli di ininterrotto governo (1512-1797) – quella mite sovranità veneziana che seppe assicurare ai suoi fedeli sudditi: rispetto per le autonomie dell’antico libero comune, una lunga pace, benessere, sviluppo delle arti e dell’economia agricola. I boriosi rivoluzionari parigini, calati con cannoni e olio di ricino a convertire i barbari ai loro ideali di “Libertà, Uguaglianza e Fraternità”, diedero da subito il meglio di se stessi con: ladronerie d’ogni genere, violenze e vendette, soppressioni delle antiche istituzioni di governo, degli ordini monastici, delle confraternite religiose, delle corporazioni d’arti e mestieri etc.; imposero gabelle, confische, leggi e costumi giacobini etc.; razziarono preziosi e opere d’arte dalle chiese e dai palazzi dei nobili; distrussero molti archivi, disperdendo importanti documenti della nostra storia locale. Sui sagrati delle chiese della città e dei villaggi del disciolto Capitanato cremasco, in luogo del Sacro Legno tanto caro alla secolare tradizione religiosa delle nostre genti, imposero – con la persuasione delle armi – la forzata erezione dell’Albero Laico della loro “democrazia”.
A Crema così come già accadde in seguito alla battaglia di Agnadello avvenuta il 14 maggio del 1509, i “liberatori” delle scarselle altrui, riaprirono il safari alle insegne del Leone Alato di San Marco, a quel tempo incastonate sia sulla parete di mattina della torre pretoria, sia su quella sud-occidentale del Torrazzo.
“ Catturati” e tratti dalle loro dimore, i bassorilievi marmorei raffiguranti il regale felino dalle ali spiegate, vennero prima massacrati, e in seguito, imperituramente obliterati alla storia con indegna sepoltura. Stessa sorte colpì i blasoni gentilizi locali, che furono distrutti con non poco concorso dei voltagabbana conterranei, interessatamente convertitesi ai “nobili” ideali della neonata democrazia d’oltralpe…. Con la calata dei bonapartisti fu la fine della nostra bella piazzaforte, le sue mura e le sue porte veneziane vennero smantellate, così pure l’antico castello e le più recenti opere di difesa extra moenia”.
Quanto sopra, caro Piero, non è nè un “giudizio sferzante” né un giudizio “severo” sul comportamento dell’invasore francese, ma un benevolo e limitato compendio dei fatti vissuti in prima persona dai cremaschi di quel tempo, così almeno per come riportati dai numerosi documenti d’archivio consultati. Se mancanza c’è stata, e di ciò chiedo venia ai lettori, è di non aver citato le fonti, tranne quella alla nota n. 14 di pag. 244: “Per un breve periodo di tempo – circa 13 mesi, dal 25 aprile 1799 al 4 giugno 1800 – a seguito di una sconfitta militare subita dai francesi mentre Napoleone si trovava in Egitto, Crema fu con giubilo di popolo occupata dagli austro-russi. Nelle inedite memorie della sua vita, l’ingegner Luigi Massari – testimone diretto di quegli avvenimenti – scrive al riguardo: “ Il comparire dei Tedeschi venne salutato con furibondo trasporto d’allegrezza; furono ricevuti al suon di tutte le campane della città e per anco de’ campanelli delle messe: non poche donne e signore arrivarono perfino a baciar in mezzo alla pubblica piazza le code ai cavalli del picchetto tedesco…”.
Da “giornalista del remoto”, mi sono limitato a descrivere – con ragione, ma senza pretesa di verità assoluta – i fatti riferiti dalle fonti documentarie reperite, non potendo ovviamente fare altrettanto, con le eventuali fonti a me ignote di diverso contenuto.
Per quanto riguarda l’appello dell’Anpi al sindaco di Crema, ancorchè sia mia abitudine stare sul “pezzo”, ti riscontro con le la parole di Shakespeare, noto drammaturgo e poeta inglese: “ Tra il sublime e il ridicolo c’e solo un passo”.
Pensa se domani un manipolo di moderni giacobini facesse la stessa cosa nel parlamento delle dodici stelle auree, chiedendo magari agli stati membri una risoluzione che imponga all’Italia di demolire il Colosseo perché ignobile simbolo della tirannide imperiale romana. Tu in qual caso ci vedresti un senso politico? Io no. Chissà invece come se la riderebbero gli alfieri della mezzaluna ottomana.
Con rinnovata stima, Valeriano.
Grazie, Valeriano, per avere arricchito il tuo pensiero.
Il mio non voleva certo essere un appunto critico, ma semplicemente una considerazione che sottolineava la tua “partecipazione” (in sintonia con il sentito e il vissuto della gente di allora): una ricerca storica non è tout court una ricerca asettica.
Grazie ancora: i tuoi contributi elevano la qualità del nostro confronto.
Gentile signor Pietro Martini,
la ringrazio per gli apprezzamenti espressi sul libro. Ma ancora di più, ho apprezzato quella conoscenza e quella sensibilità che le hanno permesso di colpire il centro del bersaglio, il cardio del saggio: “ Se mai ci fu un periodo d’oro per Crema, fu proprio quello di San Marco”.
E, mettendomi nei panni dei cremaschi di quell’epoca, come potevo non partecipare al lettore, quella nostalgia sottotraccia e quell’affetto narrativo da lei giustamente colti, nei confronti della Serenissima?
Nel significarle che mi sarà sempre gradita ogni occasione d’incontro, la saluto cordialmente, Valeriano Poloni.
Sono io che ringrazio lei per il cortese riscontro e, nuovamente, per l’opera così encomiabile da lei compiuta in favore del nostro territorio, della nostra gente, della nostra Storia. E, mi permetto di aggiungere, in particolare in favore di quei luoghi molto belli che sono Ombriano e il suo Moso, verso i quali ho colto il suo impegno e il suo affetto. Ho avuto il piacere di essere per alcuni anni ombrianese d’adozione e molti dei luoghi da lei descritti in questo libro li ho scoperti e conosciuti, percorrendo sentieri e capezzagne, tra campi, rogge e antichi manufatti che ritrovo nelle sue pagine. Anche a me sarà davvero gradita l’occasione di incontri futuri. Con viva cordialità e molta ammirazione per un lavoro così ben approfondito e ben compiuto.